Il ritorno dei luoghi
Dall’urbanistica progressista all’antropoli
Il territorio non deve e non può essere concepito come un semplice supporto passivo per funzioni variegate. Per produrre qualità occorre abbandonare l’idea di spazio astratto e immaginare paesaggi coerenti con i bisogni della collettività. Ci pare sempre più necessario riconsiderare la nozione di luogo.
Le mutazioni dell’urbanistica
«Possiamo considerare il territorio come il risultato dell’uso che le società, nel corso del tempo, hanno fatto della loro libertà, e la geografia come lo studio delle condizioni che permettono di realizzare, collettivamente e concretamente, questa libertà».
Queste considerazioni del geografo Jean-Bernard Racine1 ci spingono ad approfondire il tema delle scelte delle collettività nei confronti del loro territorio. Il paesaggio che vediamo è il «fermo-immagine» di una struttura destinata a modificarsi nel corso del tempo e sottomessa a diverse dinamiche (naturali, economiche, politiche, sociali). Una struttura che è pure possibile trasformare in funzione delle visioni e degli scenari di cui ci dotiamo. Questo tipo di ragionamento rimanda alla nozione di progetto a cui, in prima battuta, attribuiamo il significato di proiezione verso il futuro. L’idea di progetto ha pure in sé qualche cosa di utopico. In fondo, buona parte del pensiero urbanistico, da Ippodamo da Mileto in avanti, passando per i trattatisti del Rinascimento e i riformatori dell’Ottocento, si richiama al pensiero utopico.
Il passaggio da un certo stato del territorio verso una condizione desiderata è allora raggiunto attraverso un’operazione volontaristica che fa capo all’urbanistica, cioè l’insieme delle riflessioni e delle operazioni che ci permettono di agire sullo spazio. La pianificazione urbanistica è pure una forma di regolazione – condotta di solito dall’ente pubblico all’interno di un processo democratico – che cerca di raggiungere determinati obiettivi (politici, socio-economici, urbanistici) attraverso la sistemazione dello spazio. Ma, come dice Patrizia Gabellini, «L’urbanistica è pienamente coinvolta, anzi squassata dalla mutazione in atto: alla progressiva frantumazione dei modi di fare collaudati si accompagna una seria difficoltà a mettere in discussione i principi in relazione a una nuova interpretazione di quel che succede in città e nei territori, in quello che si identifica come l’urbano tout court».2
Il dibattito sulle trasformazioni del territorio si inserisce allora forzatamente nella presa in considerazione della mutazione delle condizioni generali e nella messa in discussione del paradigma della «pianificazione tradizionale», e ciò sotto la spinta di vari fattori. Tra questi vi è la globalizzazione e la relativa affermazione del paradigma reticolare che è per molti aspetti deterritorializzato (la «città delle reti» di cui parla Manuel Castells), a cui si aggiunge il ruolo della rendita e di un regime di accumulazione che ha portato verso una concorrenza più aggressiva tra le regioni e le città (e che si accompagna con la fine del sistema redistributivo di stampo keynesiano).
Se poi osserviamo l’organismo urbano vediamo che, anche grazie alle accresciute possibilità in materia di mobilità e alla volontà da parte di molti di disporre di una propria abitazione in prossimità del verde, da tempo la città è uscita dai propri confini e, attraverso fasi di suburbanizzazione e periurbanizzazione, si è trasformata in una nebulosa diventando una città-territorio dalla forma indistinta. Ciò ha comportato un «graduale sfarinamento dei luoghi» e una interruzione di quel rapporto sinergico che esisteva tra paesaggio, luogo e collettività.3 Così, l’urbanistica modernista e progressista, che aveva dettato le regole della modernizzazione nel dopoguerra, ha generato luoghi monofunzionali, ripetibili, omologabili propri di quella civiltà delle macchine che operava attraverso funzioni semplici e che dimenticava la complessità e il contesto.4 Gli strumenti di regolazione, in particolare il planning che era attivo nel corso della seconda metà del secolo scorso con l’intento di gestire l’uso del suolo nella prospettiva di controllare la crescita urbana,5 hanno incontrato sempre più difficoltà a rincorrere i mutamenti e il loro valore è stato messo in discussione.
C’è allora chi, come Paola Bonora e Pier Luigi Cervellati,6 pensa che sia necessario ricercare «una nuova urbanità», e altri, come Thierry Paquot, che ritengono che occorra «ripensare l’urbanistica».7
Dallo spazio ai luoghi
Comunque, a differenza di ciò che pensavano molti moderni, «sovraccarico com’è di tracce e di letture passate»,8 il territorio – che non è un foglio bianco – non deve e non può essere concepito come un semplice supporto passivo per funzioni variegate. Per produrre qualità occorre abbandonare l’idea di spazio atemporale, astratto, funzionale e immaginare paesaggi coerenti con i bisogni della collettività e con le condizioni degli ecosistemi. Ci pare sempre più necessario riconsiderare la nozione di luogo.
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Note
- Jean Bernard Racine, Città e democrazia partecipata: le nozze tra esperto e profano. Riflessioni sul possibile coinvolgimento del sapere geografico, in Le frontiere della geografia. Testi, dialoghi e racconti per Giuseppe Dematteis, UTET, Torino 2009, pp. 129-143, in part. p. 129.
- Patrizia Gabellini, Le mutazioni dell’urbanistica. Principi, tecniche, competenze, Carocci editore, Roma 2018, p. 11.
- Giacomo Beccatini, La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, Donzelli, Roma 2015, p. 131.
- Ibidem, pp. 131, 135.
- Muriel Delabarre, Benoît Dugua, Faire la ville par le projet, Presses Polytechniques et Universitaires romandes, Lausanne 2017.
- Paola Bonora, Pier Luigi Cervellati (a cura di), Per una nuova urbanità. Dopo l’alluvione immobiliarista, Diabasis, Reggio Emilia 2009.
- Thierry Paquot (dir.), Repenser l’urbanisme, infolio éditions, Gollion 2013.
- André Corboz, Il territorio come palinsesto, in Ordine sparso. Saggi sull’arte, il metodo, la città e il territorio, Franco Angeli, Milano 1998, pp. 177-191, in part. p. 190.