Soil is back

Il Ticino è stato a lungo un esempio di fusione fruttuosa tra modernità e paesaggio. Negli anni però la densificazione e l'uso sempre maggiore delle automobili, con la conseguente necessità di gestire i parcheggi e di introdurre vincoli logistici, hanno trasformato parte del territorio degradando l'ambiente suburbano. Emergono tuttavia esempi virtuosi di progettazione e recupero di un paesaggio intermedio come bene comune.

Publikationsdatum
16-10-2024

Nel 1934, l’architetto bernese Eduard Keller pubblicò Ascona Bau-Buch,1 un’analisi critica dell’incipiente urbanizzazione del Cantone Ticino e dei suoi effetti sull’architettura urbana nazionale. Stranamente, quest’opera visionaria non è stata citata da Kenneth Frampton quando ha menzionato il Ticino nel suo importante articolo sul regionalismo critico, quasi cinquant’anni dopo. Eppure, se si doveva stabilire un legame tra un luogo, una geografia e un modo di concepire l’architettura, Keller stava già sottolineando il carattere ibrido di questa architettura ticinese, che mescolava figure dell’architettura «modernista» dell’Europa centrale con elementi della tradizione, insistendo qui sul ruolo della topografia e delle infrastrutture ad essa associate, nonché sulla forza del paesaggio alpino.

All’epoca, quasi un secolo fa, il Ticino era ancora una regione prettamente rurale e la maggior parte delle «città» non erano altro che densi villaggi sparsi circondati da campi, vigneti e frutteti inseriti nella complessa struttura di un paesaggio terrazzato con occasionali gole che scendevano dalle montagne. Nelle aree di pianura alluvionale, il modello del suolo era caratterizzato da un drenaggio reticolare. Nelle zone pedemontane, dove spesso si trovavano i villaggi, il terreno era costituito da muri di contenimento, gradini e rampe di accesso. Come mostra un riferimento storico di Mihail Amariei, le prime tappe dell’urbanizzazione di questo territorio agricolo furono la costruzione di grandi ville unifamiliari al centro di appezzamenti coltivati, con vigneti, orti e frutteti che si mescolavano gradualmente a giardini tanto più generosi in quanto il clima ticinese, con le sue marcate influenze mediterranee, consentiva uno spettro botanico molto ampio. Questa atmosfera arcadica di giardini coltivati rimane, nonostante l’urbanizzazione, la Stimmung dei quartieri periferici ticinesi. Luigi Snozzi, nel suo paziente lavoro su Monte Carasso, sottolinea quanto la struttura dei muri dei giardini, i percorsi e l’intreccio di edifici, rifugi domestici, pergolati o portici ricoperti di piante rampicanti, nonché la messa in scena di scorci e percorsi alla Lucius Burckhardt, possano costituire il filo conduttore dell’architettura urbana. Anche se questa delicata attenzione al patrimonio e al territorio non è stata la principale preoccupazione della vertiginosa densificazione del Cantone negli ultimi cinque decenni...

Nel suo Bau-Buch, splendidamente illustrato da Max Bill, Keller anticipa le contraddizioni tra l’assetto storico dei villaggi e le moderne esigenze del traffico, e sottolinea la difficoltà di costruire in pendenza, ma insiste sul potenziale di reinterpretazione dell’architettura vernacolare, con i capannoni per l’essiccazione che diventano portici e balconi, e le terrazze agricole che si trasformano in belvedere, e una nuova domesticità, protetta dall’involucro della casa ma spalancata sul cinemascope permanente di montagne e laghi.

Ecco: in Ticino la questione dell’«urbanità», intesa come dono che ogni edificio residenziale può fare alla vita urbana e allo spazio pubblico, non è evidente, e ogni spazio domestico preferisce organizzarsi in base al proprio rapporto con il paesaggio alpino e al proprio fondamento nella topografia capricciosa.

Tuttavia, poiché l’espansione urbana dei villaggi è avvenuta principalmente nelle valli e nelle zone pedemontane, lasciando praticamente intatti i pendii boscosi delle valli alpine glaciali2 le città ticinesi si sono trovate molto presto confinate in un’area limitata e, da un certo punto in poi, sono state più un’intensificazione che un’espansione urbana. La soglia critica di questa urbanizzazione viene molto spesso superata: gli interstizi sono troppo stretti e non permettono più l’installazione permanente di giardini, la vicinanza è eccessiva e la promessa di viste sull’orizzonte alpino spesso non è altro che un rimpianto. Inoltre, anche se il Ticino ha beneficiato dei notevoli investimenti della Confederazione nel trasporto pubblico e nella rete ferroviaria, il più alto tasso complessivo di possesso di automobili ha un impatto non solo sull’inquinamento atmosferico e sull’efficienza del traffico, ma anche sulla disponibilità di terreni, sia pubblici che privati, per altri usi. Mentre gli effetti dell’automobile sul cambiamento climatico cominciano a essere ben compresi, si presta meno attenzione alla dimensione spaziale di questa modalità di trasporto, che è un importante produttore di suolo artificiale. Gradualmente, il limite principale della densificazione non risiede tanto nella forma urbana e nella gestione della prossimità, quanto nella capacità di immagazzinare le auto private e di installare vincoli logistici, tanto più a causa delle forti pendenze e della difficoltà di accesso. In questa situazione critica, i fenomeni naturali hanno ancora meno spazio perché i parcheggi sotterranei occupano il terreno e contraddicono la logica del deflusso delle acque.

Oggi, dunque, l’eccessiva densificazione del tessuto originariamente aperto, generoso e agreste delle città ticinesi mette in luce nuove contraddizioni e sfide: come offrire luoghi a scala pedonale, tra la vita domestica e quella urbana, che siano un’alternativa credibile al traffico pendolare che ha trasformato i quartieri ticinesi in immensi giardini dormitorio? Come conciliare il motivo ricorrente della «vista» e la messa in scena del paesaggio con una sempre maggiore prossimità? Come ottimizzare l’uso del suolo residuo per evitare, per quanto possibile, di dover densificare ulteriormente il terreno rimanente tra gli edifici esistenti? Come preservare la struttura agricola degli appezzamenti di terreno, laddove ciò sia ancora possibile e vi siano chiare tracce agricole? Come preservare i parchi che ancora esistono nel cuore della città e che costituiscono il miracoloso patrimonio di città originariamente costituite da ville sparse? Come restituire ai piani terra degli edifici le funzioni urbane che furono loro proprie nelle parti più attive dei villaggi?

I pochi esempi recenti che abbiamo scelto di mostrare illustrano alcuni dei modi in cui ciò può essere fatto, sia a livello di isolati che di architettura.

Minusio è un tipico esempio di una Pedemontana che fino a poco tempo fa era costituita da un reticolo di campi e frutteti, ma che tra le rive del Lago Maggiore e via San Gottardo si è riempita di isolati autonomi di altezze contrastanti, circondati da giardini. La maglia delle strade è piuttosto ostile ai pedoni e le recinzioni spesso escludono la vita domestica dai percorsi urbani, il che significa che, camminando di notte su marciapiedi stretti, nonostante la presenza e talvolta il profumo o i suoni del fogliame dei giardini, ci si sente soli e certamente non «in città». Ogni incontro è improbabile. Remo Leuzinger ha scelto di concentrarsi su ciò che accade tra l’ingresso dell’edificio residenziale di cinque piani e la strada. Sebbene sugli altri lati l’adattamento alla topografia dell’angolo di via San Quirico preveda ringhiere e muri di sostegno, l’accesso all’edificio diventa un piazzale in gran parte aperto sulla strada. La porta d’ingresso e la tromba delle scale, così come un pergolato e una pensilina dove lasciare biciclette e carrozzine, si distinguono dallo spazio pubblico, separati da una semplice linea data dal cambiamento di materiale, dall’asfalto nero al cemento bianco. Sulla soglia c’è un unico albero, ancora giovane, ma che si intuisce sarà presto lo scenario ombroso di conversazioni e scambi tra vicini, residenti e passanti. Con pochi e semplici elementi, un po’ d’ombra, un pavimento dignitoso, una panchina su cui sedersi, l’architetto restituisce un’urbanità essenziale, senza negare l’intimità che ogni abitazione garantisce alle famiglie che la abitano. Parcheggiando sul piazzale, infatti, si scorgono le curve incipienti dei due balconi sui due angoli inclinati dell’edificio, che dall’altro lato, cioè quello con la vista panoramica sul lago, aprono la vista dagli appartamenti al paesaggio attraverso finestre a tutta altezza, senza svelare l’intimità della vita dalla strada. L’economia dei mezzi è notevole, perché questa soglia è fatta di piccole cose e di molta attenzione, e viene in mente il paziente e altrettanto riuscito lavoro dell’architetto Enrico Sassi sugli spazi pubblici residuali dei villaggi ticinesi e dei loro avatar suburbani, dove una panchina, un pergolato e una dolce pendenza del terreno trasformano un crocevia ostile in una piazza.

In un momento in cui il Comune di Minusio ha avviato uno studio parallelo sull’impatto di questo nuovo accesso ai trasporti pubblici sulla natura delle strade e sulla densificazione del quartiere, questo progetto è un bell’esempio delle forme che può assumere il contatto tra fabbricati e spazio pubblico. Inoltre, anche se l’edificio dispone di un parcheggio sotterraneo, incoraggerà i residenti a uscire a piedi o in bicicletta.

Mihail Amariei sta facendo un lavoro simile a Mendrisio, in via Turconi, a due passi dall’Ospedale cantonale e dall’Accademia di architettura. Su quella che un tempo era la via principale di Mendrisio, una città ormai stravolta da infrastrutture che a fatica riescono a contenere il traffico dei frontalieri, Amariei ripristina il fronte urbano degli edifici, leggermente arretrati rispetto alla strada, la discontinuità e il ritmo degli intervalli e la scala modesta degli stabili. Qui non ci sono recinzioni, ma solo spazi calibrati con precisione per l’uso quotidiano. Sia la farmacia che il bar al piano terra degli edifici ravvivano immediatamente un marciapiede che un tempo era attraversato da pochi passanti che sfidavano il traffico. Lungi dal rappresentare una rottura con il passato, le nuove costruzioni prolungano la vita del villaggio sfruttando la vicina università. Il marciapiede allargato, alberato, diventa una piazza a tutto tondo, mentre gli interstizi offrono parcheggi occasionali (anziché lungo la strada, che toglierebbe vita al piano terra) o, nella profondità del lotto, un giardino rettangolare al riparo dal rumore del traffico. I tre blocchi giocano sottilmente con la prossimità dei loro vicini, senza togliere le viste. La dimensione degli edifici è ben misurata, e qui torniamo alla lunga storia dei volumi urbani i cui appartamenti, tre o quattro per livello, beneficiano di un doppio o triplo orientamento: l’idea è quella di vivere in un manufatto come in una grande casa, senza sacrificare nulla in termini di qualità dell’organizzazione degli ambienti, seguendo l’esempio di uno dei pionieri, Hans Kollhoff nell’IBA di Berlino. Nel caso di Amariei, però, la semplicità tipologica è accompagnata dai motivi dei balconi d’angolo. Si potrebbe pensare di avere a che fare con blocchi elementari, un’impressione rafforzata dal bel cemento grezzo, ma ogni faccia, ogni angolo è un’opportunità di variazione, come se il vernacolo si fosse intromesso nel rigore dei piani. Alla fine, tutto è simile e razionale, ma gli appartamenti sono diversi come una casa dopo l’altra.

Questa attenzione agli spazi intermedi si applica anche al cuore dei lotti nelle zone più dense del Cantone. Nella piana di Cassarate a Lugano, ormai occupata da alti fabbricati, a volte torri, che rendono gli interstizi poco accoglienti e quasi mai percorribili, l’Atelier Tibiletti ha realizzato un bell’esercizio di riparazione e cucitura urbana con la costruzione del suo studio. L’edificio stesso offre la sua facciata più stretta alla strada, lasciando sul fianco una piazza ombreggiata animata dal portico d’ingresso, la cui posizione incassata crea una soglia di belle dimensioni. Il parcheggio, essenziale qui come altrove, si snoda nella profondità del lotto attorno alla palazzina adiacente fino a raggiungere un altro edificio residenziale e, semplicemente costruito al piano terra come forma di nuovo terreno, diventa il luogo di un “giardino pensile”, che dona a tutti gli affacci circostanti qualcosa di diverso da una vista a volo d’uccello sui cofani delle auto: una vista sull’interno dell’isolato, sull’otium dei vicini e sul fogliame delle piante. Si tratta di semplici scelte a scala architettonica, ma qui, come a Mendrisio, è evidente che l’architettura resiste all’artificializzazione e alla neutralizzazione degli interstizi attraverso l’articolazione dei suoi elementi. Aurelio Galfetti diceva che ogni situazione, dopo l’architettura, doveva essere notevolmente migliorata, per la vita sociale, per la percezione individuale e oggi aggiungeremmo per l’equilibrio degli ambienti di vita, ed è proprio questo il caso, dove sembra che finalmente si presti più attenzione agli esseri viventi che alle macchine.

Se da un lato questa paziente ricucitura sembra necessaria ovunque, dall’altro è importante sviluppare strategie che preservino il respiro che ancora c’è, quel poco di terra che rimane nel paesaggio rurale ticinese. A suo tempo, alcuni progetti sono stati pionieri di questo trattamento giudizioso del suolo, come la casa Montarina di Lorenzo Felder, che si è radicata nella valle del Tassino, sfiorando appena la terra: un volume nel prato, costruito in legno, con poche infrastrutture, compatto, senza muri di cinta o movimenti di terra. La costruzione di queste frange tra città e natura, o tra infrastrutture e paesaggio, è una sfida nella misura in cui conserva, altrove, la possibilità di un paesaggio «incassato» nel tessuto denso. Ad esempio, facendo un passo indietro, si potrebbe tracciare un legame tra l’ottimizzazione da parte di Dario Franchini e Diego Calderon di un vuoto difficilmente edificabile, proprio sopra la stazione di Paradiso, che si appoggia letteralmente all’infrastruttura della ripida strada, assumendone addirittura la forma residuale sfruttando ogni metro quadrato disponibile, e la conservazione del parco di Villa Costanza, a pochi chilometri di distanza.

Da un lato, l’architettura si inserisce perfettamente in uno spazio libero inaccessibile e altamente improbabile – come nel caso del progetto di Guidotti e Frapolli sulle alture della stazione di Bellinzona. A Paradiso, gli architetti hanno radicalizzato il loro approccio aprendo l’edificio esclusivamente al paesaggio, collocando sul pendio una struttura perenne che potrebbe essere parzialmente modificata, trasformando il parcheggio in un giardino terrazzato con un belvedere sul lago; dall’altro, evidenziano lo spazio di respiro nel parco di una villa che, in un’altra epoca, avrebbe potuto essere occupato da nuove costruzioni.

Con grande sensibilità, il linguaggio utilizzato da De Molfetta e Strode rinnova anche l’immaginario e gli usi di questi paesaggi storici, con la ceramica e il legno che sostituiscono lo gneiss e il cemento, portando un’immaginazione in sintonia con nuove possibili appropriazioni.

Questa economia generale del territorio è all’opera anche in luoghi meno urbani ma altrettanto soggetti alla pressione fondiaria. Nei paesi della Valle Maggia, ai piedi delle strade che portano alle Cento Valli, Tegna e Verscio non fanno eccezione alla tendenza alla densificazione, spesso con case isolate inserite in un mosaico di vigneti e giardini coltivati. L’insistenza dell’Atelier Rampazzi sull’estrema compattezza di tre case contigue, progettate quasi come un’unica grande villa, è forse una risposta alla necessità di conciliare l’arrivo di nuovi abitanti con la conservazione del territorio aperto.

Perché la conservazione del suolo non è solo una questione di paesaggio, ovviamente. In un’area fortemente edificata, la perdita di biodiversità, l’impatto sui microclimi e i problemi idrologici cominciano a diventare critici. Sebbene questi aspetti possano essere affrontati caso per caso, è importante garantire che gli schemi si basino su una continuità e una scala inusuali per il Ticino.

A Sorengo, il Parco Casarico progettato da Attilio Panzeri con Strode e De Molfetta ha installato 117 abitazioni nel bacino idrografico del laghetto di Muzzano, creando un parco con molti alberi e una generosa piantumazione, il cui filo conduttore è la ritenzione e l’ottimizzazione dei deflussi. L’acqua è presente sotto forma di stagni e fossati, e il giardino così creato va a beneficio non solo dei nuovi residenti ma anche di tutti i vicini che potrebbero attraversarlo. Improvvisamente, la strada suburbana progettata per le auto non è più l’unico spazio comune possibile. Il «dono» di questo paesaggio fa bene anche alla qualità dell’acqua. Il lago di Muzzano soffre di una mancanza di acqua di ruscellamento depurata a causa dell’artificializzazione del territorio, che semplicemente impedisce all’acqua piovana di raggiungere il lago e la reimmette nel sistema fognario (cfr. gli schemi a p. 26). Ripristinando l’acqua, filtrandola e incanalandola lungo il Talweg come era prima dell’urbanizzazione, gli architetti del paesaggio dimostrano che l’edilizia non è necessariamente incompatibile con la conservazione degli ecosistemi.

In conclusione, va notato che questi esempi architettonici e paesaggistici forniscono risposte su piccola scala a questioni urbane di grande portata – la vita sociale, la conservazione del suolo fertile, la considerazione degli ecosistemi, lo stimolo alla mobilità attiva – che sono commisurate a interventi pragmatici nella costruzione quotidiana delle città: un lotto di terreno, un committente – spesso privato –, un architetto o un paesaggista si occupano di questioni che vanno al di là dell’ambito limitato della loro azione. In Ticino, ciò potrebbe essere legato alla debolezza, almeno negli ultimi decenni, delle politiche pubbliche in materia di urbanistica, e al rifiuto di prescrivere, anticipare, vincolare l’attività degli investitori con principi di interesse generale troppo assertivi.

Anche se il contesto sta cambiando con lo sviluppo dei piani regolatori comunali negli ultimi anni, è vero che il Cantone non ha ancora sviluppato una cultura di governance urbana in grado di gestire le sfide di un’intensa urbanizzazione, il che testimonia l’attrattiva e la ricchezza della regione. Tuttavia, se cerchiamo di trarre vantaggio da questa particolare situazione politica, possiamo avere grandi benefici: gli esempi architettonici che abbiamo citato sono riferimenti che mostrano percorsi alternativi a una pura logica di mercato. In un certo senso, se oggi le politiche pubbliche vogliono innalzare il livello di qualità urbana e paesaggistica nello sviluppo del loro territorio, possono contare su queste «evidenze»: sì, è possibile fare meglio, o anche molto meglio. In un certo senso, attraverso questi progetti, è la piccola scala che diventa responsabile della grande scala.

Note

1.. E. Keller, Ascona Bau-Buch, Oprecht & Helbling, Zürich 1934. Esiste un facsimile pubblicato a Zurigo nel 2001 per Antiquariat & Edition Peter Petrej. 

2. Questa distribuzione spaziale è stata magistralmente documentata nel lavoro di ricerca diretto da Michele Arnaboldi all’Accademia di Architettura di Mendrisio: PNR 65. Nuova qualità urbana, lo spazio pubblico nella Città Ticino di Domani, Atlante Città Ticino, Mendrisio Academy Press, Mendrisio 2010, 4 voll

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