Dia­rio del­l'­ar­chi­tet­to, dal­la Bi­en­na­le di Ve­ne­zia 2014

Condannati ad essere moderni

Publikationsdatum
12-08-2014
Revision
08-10-2015

Rem Koolhaas

Da molti anni frequento la Biennale di architettura, e raramente è stata così coerente come quella di quest’anno, malgrado la sua vastità e l’eterogeneità dei partecipanti. Merito dell’olandese Rem Koolhaas, che non ha scelto né un tema vago nel quale ci si può mettere tutto – con la conseguenza che ognuno propone quello che vuole – né un tema caro alle iperboli architettoniche – con la conseguenza che ognuno mostra le invenzioni formali dei propri grattacieli e la Biennale si trasforma in una fiera delle vanità. Koolhaas invece ha fissato un tema stretto e preciso – Fundamentals – e definito tre sezioni: Absorbing Modernity 1914-2014 per tutti i padiglioni nazionali, Elements of architecture per il padiglione centrale ai Giardini e Monditalia per il vasto spazio dell’Arsenale. Il suo obiettivo è proporre un bilancio «... una verifica dell’architettura, ponendo i seguenti interrogativi: che cosa abbiamo?, come siamo giunti a questo punto?, ora cosa possiamo fare e da qui dove andiamo ».

Absorbing modernity 1914-2014

È seguendo questo tema che i 66 padiglioni nazionali costituiscono la parte migliore di questa Biennale: tutti a raccontare la storia del proprio moderno attraverso i cento anni del secolo scorso, il secolo difficile, quello delle utopie, delle avanguardie, delle invenzioni e delle nuove tecnologie; ma anche quello delle rivoluzioni e delle rivolte (storiche e artistiche), del dramma delle due guerre mondiali e le loro devastazioni, del risorgere pure dalle macerie, del ricostruire e – da ultimo – della globalizzazione. Ed è proprio la modernity che si infila dentro le pieghe – straordinarie, contraddittorie, drammatiche – di questi cento anni di storia. Una modernità che ha dato molto ma che ha anche tolto, ha sradicato e annullato identità, ha sconvolto modi di vivere e di relazionarsi nel sociale, ha travolto l’idea stessa di città. Come tutto questo è accaduto e cosa ha prodotto lo racconta ogni Nazione – ovviamente a modo suo.

Sono anche dei racconti molto diversi: vi sono nazioni che su questa modernità hanno costruito la propria identità, fondata su nuove architetture e città intere, talvolta integrando anche i valori del passato. Altre nazioni invece l’identità l’hanno smarrita, dove opere e realizzazioni di valore si sono sovrapposte o hanno distrutto testimonianze e equilibri storici, generato disfunzioni di carattere sociale e urbano. Le prime di queste nazioni cavalcano ancora oggi questa modernity e vedono il futuro in senso positivo, le seconde invece vivono prevalentemente nella nostalgia del passato.

Mi limito a qualche esempio. Con Modernidade como tradicão il Brasile mostra con fierezza non solo la quantità e la qualità delle architetture realizzate, ma in parallelo anche la costruzione – nel vero senso della parola – di una nuova nazione, che dai 20 milioni di abitanti del 1914 è passata agli attuali 200 milioni. Certo, nasconde i molti problemi e contraddizioni che l’affliggono, come quando definisce «architettura vernacolare» le favelas che circondano le città. Vuole insomma mostrare il meglio di sé e con orgoglio elenca le opere di architetti come Lucio Costa, Vilanova Artigas, Alfonso Eduardo Reidy, Oswaldo Bratke, Lina Bo Bardi, Paulo Mendes da Rocha, Angelo Bucci. E Oscar Niemeyer, ovviamente. 

Con Condenados a ser Modernos il Messico cita lo scrittore Octavio Paz: «... modernity, for the last one hundred years has been our style. It is the universal style. Wanting to be modern seems like madness, we are condemned to be modern...». E sempre poggiandosi sui suoi testi, il padiglione messicano cerca di dimostrare quanto sia necessaria la storia e indispensabile un ponte tra tradizione e modernità: altrimenti rimangono reciprocamente isolati, la tradizione ristagna e la modernità evapora. Emerge allora il nitore delle opere di Félix Candela, l’integrazione delle sculture e dei mosaici di Diego Rivera, fino alla verticalità delle torri di Luis Barragan.

Con La modernité: promesse ou menace? la Francia – con la guida dello storico Jean-Louis Cohen – sviluppa un discorso ben più problematico, mostrando le due facce opposte della modernità: all’immaginazione costruttiva di Jean Prouvé, che disegna e realizza con la leggerezza del metallo architetture prefabbricate – in coerenza del resto con le parallele ricerche automobilistiche sfociate nella Citroën 2CV – è contrapposto il film Mon Oncle di Jacques Tati, dove il sogno della modernità funzionale e architettonica della Villa Arpel si traduce in una farsa autodistruttiva. E il tema della modernità da farsa si trasforma in dramma nel «racconto» della storia della Cité de la Muette, realizzata a Drancy nel 1934, un bel progetto di Beaudouin e Lods: a causa della sua remota ubicazione, dopo pochi anni fu dapprima trasformata in una caserma per le forze di polizia, per poi diventare nel 1940 un campo di concentramento, tragico luogo di passaggio verso Auschwitz.

Così, di padiglione in padiglione si attraversano le utopie, le teorie, le realizzazioni, i fallimenti, i recuperi o i successi della modernity. Il (difficile) padiglione svizzero valuta, indaga e dibatte due personalità come Cedric Price e Lucius Burkhardt, a sapere se le due anime della teoria (Price) e della sociologia (Burkhardt) hanno trovato una sintesi nell’architettura. Del passaggio tra teoria e realtà urbane si occupa la Gran Bretagna, dagli scritti e disegni delle visioni urbane di Ruskin alle Garden City e alle New Town degli anni ’60, dall’architettura brutalista del Dopoguerra a ciò che è diventata oggi la New Town di Cumbernauld, fino alle rovine della Bank of England.

Un cenno particolare va fatto al Padiglione dell’Italia Innesti/grafting, specie per l’interessante sezione curata da Cino Zucchi: la città di Milano è scelta per illustrare l’originalità di una cultura progettuale caratterizzata da «... una modernità anomala – come scrive Zucchi – marcata dalla capacità di innovare e al contempo di interpretare gli stati precedenti. Non adattamenti formali a posteriori del nuovo rispetto all’esistente, ma piuttosto innesti capaci di agire con efficacia e sensibilità in contesti urbani stratificati». Ne segue una scelta precisa di documenti, che oltre ai progetti per la facciata del Duomo e per l’ex Ospedale Maggiore, concentra l’attenzione sugli architetti del Dopoguerra, e il loro dialogo – anche critico – con il passato, opere di Asnago e Vender, Gardella, Caccia Dominioni, BBPR, e così via.

Elements of architecture

Per chi ricorda le Biennali passate, proiettate verso le visioni progettuali degli (abili) Maestri contemporanei, gli Elements of architecture avrebbero dovuto prefigurare gli strumenti del design della loro architettura: invece, in questo padiglione centrale ai Giardini, Koolhaas mette assieme altri elements, quelli banali di cui sono composti gli edifici: le finestre, i corridoi, i pavimenti, i balconi, le pareti, le scale, e così via, fino ai gabinetti. Per mostrare quanto l’evoluzione della tecnica abbia influito sulla loro composizione costruttiva, sulla loro sostanza, sul loro aspetto. E sottintendere quanto il loro mutare nel tempo abbia comportato – inevitabilmente – il mutare dell’architettura stessa: e per questo ne costituiscono gli elements. Un tema interessante, ma riuscito a metà. Certo, la collezione di finestre antiche è interessante, così come il ruolo del balcone non solo nella composizione architettonica delle facciate, ma anche nella storia, luogo per mostrarsi in pubblico, per arringare le folle, fino a deputarlo come amplificatore per dichiarare guerra. Ma non tutte le sale hanno lo stesso valore, e talvolta sono ridotte a una banale esposizione di materiali, quasi fosse una Mustermesse.

Monditalia

Qui la Biennale di Koolhaas si unisce alle altre Biennali di Venezia – di Arte, di Cinema, di Danza – per rappresentare l’Italia, proposta quale paradigma del contemporaneo, dove problemi, invenzioni, assenze, realizzazioni, sconfitte, progetti, contraddizioni, sciagure e bellezze si incrociano in un inestricabile nodo impossibile da sciogliere. Dal sud di Lampedusa con le migrazioni dall’Africa nel raccontare il dramma di un Mediterraneo sconfitto, al nord delle Alpi con i confini tra le nazioni che si «spostano» nel raccontare i mutamenti climatici e lo sciogliersi dei ghiacciai. Tra questo sud e questo nord si svolgono altri trentanove racconti: come Pompei, luogo senz’altro di assenze e di incuria, ma anche straordinario laboratorio di scavi, di recuperi, di restauri; come l’edonismo – storico – di Capri, dalla villa di Tiberio a quella di Malaparte, con Brigitte Bardot e Jack Palance a rincorrersi sul tetto più famoso del mondo; come la Biblioteca Laurenziana, dove per Koolhaas «... ogni cosa, ogni parte, ogni dettaglio non ha senso, ma il tutto funziona. Lo spazio interno con le sue quattro pareti sono quattro facciate, dove ognuna è l’accesso a un mondo diverso. E la (famosa) scala di Michelangelo non è una scala, ma una scultura». Come le opere assurdamente dimenticate del Moderno, oramai abbandonate, tra cui – per citare un solo esempio – la Cartiera Burgo a Mantova di Pier Luigi Nervi, capolavoro architettonico, costruttivo, strutturale, funzionale: oramai morto con la fine della sua funzione, quella di fabbricare, appunto, carta.

Ma questo Monditalia non funziona: i temi sono solo quelli che interessano o ama Koolhaas, ma troppi sono quelli trascurati. E nel lungo spazio delle Corderie manca una continuità logica, un filo conduttore. Non solo, ma le altre arti che si volevano integrare sono ridotte a semplici intermezzi, a dei momenti di pausa per gli stanchi visitatori.

A mo’ di conclusione

È una Biennale criticata da molti. Perché anomala rispetto alla tradizione, che la vuole vetrina del contemporaneo e prospettiva del futuro. Assenti sono i protagonisti, le grandi «firme» che da sempre hanno occupato i padiglioni nazionali e il lungo spazio dell’Arsenale con i disegni e fotografie e modelli delle loro invenzioni architettoniche. Per sapere dove stiamo andando, Koolhaas invece propone – per certi versi con gli stessi obiettivi di quella, oramai storica, della «Strada novissima» di Aldo Rossi e Paolo Portoghesi – una riflessione sull’architettura, un ritorno al passato degli ultimi 100 anni per fare un bilancio, una rilettura. Per una «storicizzazione» di quel secolo lungo che è stato il Ventesimo. Gli inevitabili passi falsi – in una manifestazione di così grandi proporzioni – sono coperti e annullati dalla risposta straordinariamente coerente da parte di tutti i partecipanti nazionali. In questo senso è esemplare l’enorme biblioteca circolare che occupa l’intero spazio del Bahrein: la necessità di fermarsi un momento per leggere quello che è stato fatto, per verificare se restano dei valori, delle continuità culturali, se è possibile un ponte tra il passato e il presente. Del futuro questa Biennale non dà risposte. Né vuole darle.

Dossier sulla Biennale di Venezia qui.

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