An­co­ra sull’ar­chi­tet­tu­ra del­la den­si­tà

Editoriale archi 06/2013

Il tema dell’inversione della tendenza insediativa dalla dispersione territoriale di abitazioni unifamiliari, alla progettazione di nuove densità basate sull’abitazione collettiva e sulla qualità dello spazio pubblico – è il filo rosso che archi continua a tessere.

Publikationsdatum
13-12-2013
Revision
12-10-2015

Uno dei problemi più difficili dell’architettura consiste nel plasmare lo spazio circostante l’edificio alla scala umana.
(Alvar Aalto, 1963)

In archi 6/2013 offriamo ai lettori, insieme a una selezione di progetti di residenze collettive, due testi, di Sergio Rovelli e di Paolo Fumagalli, che contribuiscono direttamente al tema con riflessioni e proposte operative, che si possono configurare come elementi per una politica territoriale alternativa a quella che sta compromettendo il paesaggio dei fondovalle ticinesi. Misure di regolamentazione edilizia, misure finanziarie e di divulgazione e comunicazione, e piattaforme di intenti pubblico/privato, costituiscono gli strumenti utili a favorire l’inversione, insieme alla consapevolezza culturale della necessità di superare concezioni individualistiche dell’abitazione per costruire nuove e condivise occasioni di complessità residenziale. 

Anche se con strumenti tra loro diversi, sia a Zurigo che a Ginevra hanno successo le politiche dirette a promuovere il «ritorno in città», a costruire luoghi dotati di forte urbanità, a densificare periferie, offrendo opportunità abitative prima inesistenti, che garantiscano la privatezza di alloggi rispondenti ai bisogni delle nuove famiglie, insieme alla dotazione di spazi sociali e culturali di qualità cittadina. Politiche alla base delle quali c’è una mobilitazione delle energie progettuali degli architetti e degli ingegneri che, attraverso le molteplici sfide dei concorsi, sono massicciamente impegnati nella ricerca e nell’invenzione delle tipologie urbanistiche e architettoniche adeguate al perseguimento di quelle politiche.

Tra i progetti ticinesi pubblicati, vogliamo segnalare quello di Casa Pico, che introduce in quella parte dell’abitato luganese situato alla base della collina di Viganello, e caratterizzato da abitazioni dense e isolate, un modo di insediare l’edificio sul terreno e di articolarlo nello spazio, diverso da quelli più consueti in Ticino e che può sollecitare riflessioni e spinte al rinnovamento. Innanzitutto il basamento dell’edificio è costituito dal suo terreno: completamente artificiale, il terreno è un percorso libero e pubblico tra via Pico e via Vicari, disegnato per catturare il passante e condurlo piacevolmente ad attraversare l’isolato.

C’è, in questo raffinato disegno, una concezione della civitas come un insieme di percorsi, di spazi di incontro, di nodi significativi, non di vuoti ritagliati in negativo tra i progetti delle enclave private. L’architetto brasiliano Angelo Bucci (che ha redatto il progetto con il supporto del progetto-guida preliminare di Baserga e Mozzetti) ha vissuto l’avventura di lavorare in un contesto diverso come un’occasione stimolante, ed ha inventato una morfologia straordinaria per il paesaggio urbano luganese, utilizzando il poligono dei confini del lotto come un materiale importante del progetto. Il perimetro del fabbricato, partendo dal nucleo ortogonale precisamente individuato dalla struttura portante, è stato aperto e distorto fino ad aderire alla linea di arretramento. Sulla matrice rettangolare ha innestato una matrice morfologica a ventaglio asimmetrico, che fa pensare alle opere di Alvar Aalto.

Aalto ha utilizzato l’unione di matrici diverse in numerose variazioni sul tema, offrendo soluzioni di volta in volta conformi allo specifico luogo e inventando spazi interni fluidi e trasparenti. Il condizionamento della geometria irregolare del confine, più spesso vissuto come un ostacolo alla progettazione, è diventato una risorsa inventiva. Nicola Baserga ci ha confermato come l’atteggiamento di Bucci nei confronti, in generale, delle condizioni reali date – certi requisiti richiesti dal committente, la forma del lotto, i limiti normativi e regolamentari ecc. – è stato quello di raccogliere e acquisire le condizioni in modo inclusivo nel progetto, come stimoli necessari alla costruzione della soluzione positiva, diversamente dall’atteggiamento difensivo e insofferente, più tipico della nostra cultura professionale.

Nell’attuale condizione di ricerca e transizione dell’architettura ticinese, quest’opera di Bucci dimostra la possibilità di riferimenti e scenari inconsueti, offre aperture culturali da cui possono sortire esiti imprevedibili. La condizione territoriale così critica attende dagli architetti ticinesi un impegno progettuale straordinario, di proposte insediative radicalmente innovative. Esse possono venire alla luce se la realtà, così come storicamente ha preso forma, diventa oggetto, certamente, di una presa di distanza concettuale relativa ai modi della sua formazione, ma diventa anche materiale con cui misurarsi, perché il progetto assuma la forza necessaria alla effettiva trasformazione del territorio.

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