Abitare alla Corte dell'Inglese
Risalgono all'aprile del 19681 i primi studi di recupero di una casa a corte nel nucleo di Riva San Vitale, con un bel giardino che si prolunga verso i campi irrorati dal torrente Bolletta. Il complesso, in stato di abbandono, è acquistato da Giuseppe Roncati, su segnalazione della figlia Flora, che allora si dedicava alla seconda fase del progetto per il centro scolastico di Riva con Aurelio Galfetti e Ivo Trümpy, e che assume il compito di riattarlo. La Corte dell'Inglese appariva costituita di tre corpi visibilmente differenti, che fin dall'origine avevano associato la funzione abitativa a quella produttiva e commerciale e che si erano costituiti a partire dal periodo medievale, quando fu edificata la manica che dalla via dell'Inglese si sviluppa verso il torrente e che nel XVII secolo ricevette i caratteri di nobiltà con l'aggiunta d'un portico, con pilastri in luogo di colonne, capitelli semplificati e archi ribassati, sormontato da un loggiato su due piani della medesima foggia. Ma fu nel secolo dei Lumi che la corte ricevette la sua attuale configurazione con la costruzione dell'ala residenziale attestata lungo la strada e quella dirimpetto, rivolta a est, sorta di «barchessa» che integrava il roccolo medievale.2
La configurazione della fabbrica, che l'architetto aveva paragonato a una «cascina lombarda»,3 manifesta un carattere eterogeneo, risultante dagli imperativi d'ordine funzionale che avevano sovrinteso al disegno dei prospetti e alla disposizione planimetrica degli ambienti. La realizzazione del muro sulla linea di confine verso la canonica e il battistero romanico, il cui tiburio ottagonale spicca tuttora nel paesaggio percepito dall'interno della corte e dal giardino, le conferisce un marcato carattere di introversione. Chiusi i portoni di accesso dalla strada e ai campi, la fabbrica si isola intorno al cortile che appare come centro genetico sebbene, al contrario, sia stato generato dalle addizioni successive. Quella corte viene assunta come punto di partenza d'un progetto di ristrutturazione che contempla soprattutto il recupero delle facciate con alcune puntuali modifiche alle aperture, di cui una più importante che si innesta organicamente sulle preesistenze, di cui parleremo nel seguito, il consolidamento delle strutture e la risistemazione degli interni con minimi interventi. Grazie alla realizzazione di un secondo piccolo ponte, il progetto si prefigge di rafforzare la relazione fra il giardino al di qua della roggia e i campi al di là, miracolosamente sottratti all'aggressiva espansione edilizia, che fin dall'inizio i nuovi proprietari avevano deciso di preservare.4
Flora Ruchat-Roncati aveva a cuore anche la condivisione della Corte dell'Inglese con una comunità di amici architetti, che qualche anno dopo vi avrebbero trasferito residenza e studio professionale,5 riabilitando così la primitiva destinazione mista della fabbrica, produttiva e residenziale. Ancora oggi, quando si entra in questo luogo, ci si sente proiettati in un tempo altro, fermo alla storia di qualche secolo fa, come se l'architetto avesse lavorato più sulla relazione dell'architettura al tempo che allo spazio, sulla conservazione d'una temporalità diacronica, d'una memoria genetica delle forme degli elementi che si sono venuti raccogliendo intorno alla corte; come se al genius loci che Flora Ruchat-Roncati ha saputo ripristinare e rendere percepibile, sia stato associato un genius temporis.
«Come la trasformerei… se…»
La genesi si apre con un confronto fra due visioni diverse della residenza familiare. Quella di Giuseppe Roncati che immagina un nuovo edificio esitante fra la villa di campagna e il palazzo di città, composto da un corpo centrale, di cui conserva il portico e i loggiati preesistenti (gli unici elementi che nobilitano la fabbrica), stretto fra due ali leggermente in aggetto che si prolungano al piano terreno in due verande con tetto a terrazza annesso alle camere del «piano nobile».6 La corte viene aperta verso il sagrato e il battistero per ripristinare quella continuità urbana, ma anche sociale, che era appartenuta alla primitiva configurazione dell'insieme: nella prospettiva di Giuseppe Roncati, cortile, giardino e campi si susseguono senza soluzione di continuità né distinzione fra pubblico e privato. Dal canto suo, Flora parrebbe anch'ella contestare la morfologia ereditata, ma con fini diversi.
Due studi datati aprile 19687 mi sembrano particolarmente preziosi, non solo perché fra i pochi conservati, ma in quanto manifestazione dell'immaginazione produttiva come intesa da Paul Ricoeur: «L'immaginazione produttiva per poter agire deve trasformare categorie esistenti; non può esistere totalmente al di fuori e separatamente da esse. Questo suggerisce che ogni finzione trasformatrice – ogni utopia, ogni modello scientifico, ogni poema – debba avere elementi di immaginazione riproduttiva, debba prendere dalla realtà esistente elementi sufficienti affinché la sua distanza produttiva non sia eccessiva. Per esempio, l'impressionismo è produttivo ma anche, in quanto figurativo, comunque in parte riproduttivo. In ogni caso il punto importante resta che l'immaginazione produttiva introduce una finzione, un'immagine senza un originale, qualcosa dal nulla. Solo in questo modo è trasformativa della realtà esistente».8
Nel primo, vergata dalla mano di Flora, la frase: «Come potrebbe essere trasf[ormat]a» riferendosi alla sistemazione al pianterreno di un grande studio di architettura – soluzione ripresa dal progetto di suo padre –, frazionato in uffici per architetti e stanze per disegnatori che si estende lungo l'ala ovest attestata sulla via dell'Inglese, la manica padronale e su una piccola parte della «barchessa», la cui sagoma non viene neppure tracciata. Il secondo, intitolato «Come la trasformerei… se…»9 replica l'occupazione delle prime due ali da parte di una sorta di casa ideale aperta sulla corte, orientata verso il parco, visibile dalla zona notte, e soprattutto dal generoso soggiorno-studio che si sarebbe concluso in una veranda, tesa fra due paratie laterali, tutta protesa verso il Monte Generoso. Il corpo orientale è disegnato come un resto archeologico fatto di muri affioranti: è una barriera visiva e va attenuata, ma come? Riducendola in altezza, oppure sistemando la casa dei sogni su un terzo piano, sopra i tetti? Lo schizzo al riguardo è muto, ma i due studi elaborati lo stesso giorno confortano l'ipotesi dell'eliminazione di quella che viene compresa come una diga visuale, anche a costo di importanti e onerose trasformazioni ai corpi che sarebbero stati conservati. La casa immaginata non ha un impianto originale: si sviluppa ad angolo retto, fra la zona notte e quella giorno poste agli estremi, collegate da un disimpegno ai servizi e all'ala degli ospiti, tuttavia denuncia la volontà di diradare la massa e aprire la corte, non verso l'area sacra come nella soluzione paterna, ma verso il giardino e l'orizzonte scolpito della catena del Generoso, con visione libera sul paesaggio campestre, geologico e naturale.
La danza delle scale e delle scatole
«Il rapporto con il luogo è egemone in ogni intervento nello spazio, costruito o no. Tra chi progetta e il luogo, prima, tra l'edificio e il luogo, poi, si genera una sorta di empatia, di compenetrazione viscerale».10 Così, alla fase di distacco dal luogo segue quasi subito quella del rispetto della tipologia della casa a corte chiusa, forse anche per ragioni di ordine economico, e per la fretta di rendere una parte del bene redditizia e procedere così al recupero dell'insieme. Le scelte progettuali si orientano quindi verso interventi minimi atti a dividere la fabbrica in nove appartamenti di diverse dimensioni, alcuni su due livelli, e a ricavare un generoso studio professionale al secondo piano. L'osservazione degli elaborati grafici ci rende spettatori della buffa danza dei disimpegni verticali, che cambiano forma e posizione nello spazio, trascinando con loro le scatole dei servizi che traslocano da una parte all'altra delle piante in cerca di una buona collocazione. Il gioco fra una preesistenza difficile da addomesticare e la pervicacia dell'architetto che non si arrende a facili compromessi è a volte teso. L'ala orientale, quella che rischiava l'abbattimento, diventa il terreno di gioco prediletto, dove le scale a chiocciola in ferro, disegnate fin nei dettagli come elementi d'arredo, sono sistemate dapprima in linea, poi sulla diagonale, e a un certo punto estromesse in facciata, in una capsula trasparente, lato corte poi anche lato giardino. Era il momento in cui sovente gli architetti propendevano per l'estromissione delle scale in facciata per le loro qualità plastiche e per il potenziale di passeggiata panoramica.11 Ma anche questa volta, come sotto l'egemonia d'un sentimento di deferenza verso la Corte dell'Inglese, Flora Ruchat-Roncati opta per la conservazione quasi integrale dei prospetti, e riporta le modifiche all'interno. In origine collocati sopra alle stalle e ai depositi per gli attrezzi, gli ambienti a doppia altezza per la conservazione del raccolto e il fienile, che si estendevano su una buona parte dell'ala est, vengono provvisti di un solaio intermedio in struttura metallica e impiantito in legno, e trasformati in due duplex e nell'appartamento dell'architetto, su cui ci concentreremo a partire da questo suo racconto:
«La residenza (…) è stata per la sottoscritta un'esperienza marginale, pertanto densa di implicazioni autobiografiche, proprio perché all'interno di questo compito progettuale fluisce inevitabilmente una quasi totale identificazione tra ricerca di spazio e esperienza quotidiana. Mentre si progetta si ripercorrono gesti, finzioni, riflessi pavloviani, luci, colori, percezioni tattili e olfattive. Sono energie che si intrecciano alla logica razionale delle piante-alzati, nella geometria delle relazioni, delle sequenze funzionali-formali, dei piani prospettici. Case fatte e distrutte, case fatte e abitate, case rifatte, case progettate».12 Questa dimora testimonia della capacità di Flora Ruchat-Roncati di entrare in simbiosi con il luogo, ch'ella riscopriva appropriandosi del suo spirito, tanto da restituirlo in quello che sarà il suo spazio familiare per elezione, la casa a lettere maiuscole,13 sotto forma di mise en abyme.
Affacciarsi
Fa parte dell'esperienza quotidiana degli abitanti di una casa a corte l'affacciarsi su un nucleo vuoto che tiene insieme le ali; affacciarsi per partecipare alla vita comunitaria, che intanto rinasceva con l'arrivo dei primi colleghi e amici inquilini, alloggiati nella manica occidentale, la prima a essere riattata. Intanto la casa dei sogni subisce qualche trasformazione topologica: dall'estensione orizzontale su un unico piano che attornia due lati della corte, alla condensazione in un blocco verticale di due piani dove la relazione visiva con il cortile è limitata a due sole finestre per piano. Ma essa si apre decisamente verso il paesaggio naturale che si dispiega sul lato opposto, volgendo le spalle al cortile, e strutturandosi intorno a una piccola corte centrale ad altezze variabili, stretta fra il roccolo – dove sono posizionate due camere da letto – e la testata della medioevale manica settentrionale che in basso ospita una generosa cucina, e al secondo piano un'altrettanto generosa camera da letto padronale. Se la analizziamo nelle sue relazioni di vicinato, l'appartamento non presenta spazi di transizione dall'esterno all'interno (nessun atrio di disimpegno, o ambiente d'accoglienza dell'ospite). L'immissione è diretta: dal loggiato del primo piano, arredato come una sala da pranzo esterna con un lungo tavolo a disposizione degli inquilini, si entra direttamente nella grande cucina che è subito percepita come il suo prolungamento. Al piano superiore, dove è collocato lo studio di architettura, un secondo ingresso, più privato, immette nella camera da letto. Le soglie di transizione sono ridotte allo spessore delle porte in vetro infrangibile e opaco, che denotano una certa permeabilità fra gli spazi comuni e privati, di cui tutti gli appartamenti con ingresso dal loggiato sono provvisti. Il desiderio di abitare in una comunità, che prendeva corpo sempre più mentre i lavori di riabilitazione procedevano, induceva l'eliminazione dei protocolli borghesi dell'accoglienza e del gioco dei ruoli fra la maitresse des lieux e l'ospite (o l'inquilino), considerato ormai come un familiare.
Ma l'atrio non è stato soppresso, solo rivisitato e spostato al centro della casa come dispositivo dell'«abitare attorno»;14 è lo spazio dove sono riuniti il collegamento verticale al soppalco e i disimpegni orizzontali, è il luogo dove soggiornare, da cui affacciarsi, su cui guardare. L'arredamento è predisposto per caratterizzarlo come un belvedere: a questo ambiente è stato infatti interamente asportato il quarto lato (il sogno si realizza) perché assumesse, in forma iperbolica, la funzione della primitiva veranda; il divano, integrato al mobile in legno che definisce un piccolo corridoio, è posto di fronte alla grande vetrata, opportunamente distanziato per godere di ciò che al di là si disegna; la scala a chiocciola, dopo aver girato e voltato, nelle varianti progettuali successive, da una parte all'altra di questa piccola corte – in compagnia della scatola del bagno –, viene addossata al muro opposto, in prossimità dell'accesso alla cameretta, e diventa dispositivo di esplorazione della spazialità del soggiorno-atrio.
La corte, intorno a cui l'appartamento si snoda, è attraversata da passerelle abitabili (uno studio-biblioteca, un bagno), luoghi dell'appartarsi e dell'affacciarsi che ripristinano, in basso come in alto, le altezze singole, alternandole a tre pozzi di spazio. La posizione di questi elementi è astuta: non essendo addossati ai muri maestri, lo sguardo può spaziare sulle fasce perimetrali dall'alto verso il basso e viceversa. Da una parte, attraverso due finestre che come due quadri sono disposte col margine superiore all'altezza degli occhi, si coglie la corte interna; dall'altra ci si affaccia sull'angolo ricreativo – discoteca e pianoforte – ma in verità si è calamitati verso il paesaggio della campagna che si apprezza dietro una parte della grande membrana trasparente. L'effetto calamita è anche determinato dall'unico serramento tipo finestra-balcone verso cui la passerella conduce, alimentando la sensazione di proiezione del corpo verso l'esterno.
La disposizione degli elementi che formano il soppalco determina inoltre una nuova centralità, decentrata verso l'angolo nord-occidentale: il pozzo di spazio principale non è oggetto d'affaccio dall'alto. Si abita attorno ma lo sguardo non passa; sono le funzioni di queste piccole stanze del ritiro poste in alto a lasciarsi indovinare: una teoria di libri come sineddoche della piccola biblioteca al di là, una parete dipinta di un bel colore azzurro, schermo opaco d'un luogo più intimo, la sala da bagno. Questo colore atmosferico, aereo ma anche acqueo è steso in verticale come riflesso, all'interno dell'abitazione, del cielo e degli specchi d'acqua che irrorano la campagna annessa alla corte, mentre l'intradosso delle passerelle dipinto in verde richiama le pergole, ma anche il viale principale punteggiato dalle lastre verticali in gneis che sarebbe stato ripristinato durante la successiva tappa di ricostituzione dei parterres.
L'atrio è allora il soggiorno dove la comunità familiare, ma anche quella più ampia della corte di Riva, si riunisce, profilandosi come un ambiente ibrido, luogo dello stare in una compresenza d'«objets-sentiments»15 che appartengono al mondo affettivo dell'architetto, cui si aggiungono i riverberi del mondo esterno, quei segni che rinviano alla Natura, che la casa interiorizza e verso cui si protende. Il blu è poi anticipato nelle mattonelle di rivestimento della cucina in muratura,16 che come il grande camino, risulta laterale rispetto all'ingresso all'abitazione. Questa condizione ne accentua il carattere di ambiente di passaggio, piuttosto che di permanenza, verso il vero soggiorno, il cuore della casa, mediante due anditi.
Il vero soggiorno è allora una corte aperta sui campi, mise en abyme della corte in basso, ma modificata e riportata a una temporalità antecedente, quando era ancora dischiusa verso la campagna; a sua volta il soggiorno è esso stesso mise en abyme nel vuoto decentrato che ne fa parte, in un gioco telescopico di spazialità, che, pur variando di dimensione, di scala e di posizione, conservano affinità funzionali (in quanto centralità e luoghi dell'affaccio) e assonanze formali.
«Il paesaggio in vetrina: l'interiorità ha preso la via dei campi»17
A partire dall'estate del 1970, la composizione della facciata verso la campagna, in particolare della parte destinata a fienile che presentava tre aperture irregolari non integrate nel disegno complessivo, diventa un assillo. È la parte debole che può essere cancellata, la superficie suscettibile di diventare il segno contemporaneo di quella diacronia che qualificava la costruzione temporale dei corpi, ma che appariva ferma al Settecento, anche dopo l'intervento di ristrutturazione, particolarmente rispettoso. Per conferire alla fabbrica quella profondità temporale che l'avrebbe resa un palinsesto aggiornato agli anni Settanta del XX secolo, si susseguono alcune soluzioni, dalle più timide, dove la grande vetrata non occupa ancora interamente la campitura fra il roccolo e la testata del primo corpo di fabbrica ed è studiata in relazione alla posizione interna della scala a chiocciola e della zona soppalcata, a quella più coraggiosa, dove la porta-finestra si proietta all'esterno in un balconcino aggettante sorretto da profilati metallici sottili e alti. Il disegno delle campiture vetrate, teso a cercare la migliore aggregazione, passa da un semplice quanto fitto quadrillage a un complicato montaggio di rettangoli e quadrati, superficiali e profondi, più o meno opachi, impostati su di una griglia regolare di 4 x 4 moduli di forma quadrata che dà la misura della superficie investita, sebbene in alcune parti questa regolarità sia solo suggerita.
La soluzione finale ingloba, nella trama geometrica mantenuta in sottofondo, la varietà ed eterogeneità delle campiture, che si distinguono per i profili dei serramenti più o meno spessi – condizione che crea rientranze e sporgenze –, per la finestra alla francese, provvista dello stesso tipo di ringhiera dei soppalchi, che perturba la purezza del disegno rompendone la modularità, per le tende bianche a trama larga che come garze appannano ma non oscurano forme e colori del paesaggio naturale e urbano, opacizzano il verde della campagna, accogliendo, come sopra un piedistallo, in effige, il blu del cielo e delle cime del Monte Generoso. L'operazione è simile a quella di estrazione di un fotogramma, messo in cornice fra il muro laterale in aggetto e il corridoio superiore che determina un'interruzione nell'apprendimento della scena paesaggistica, poi frazionata in quattro campiture, e offerta allo sguardo degli spettatori assisi nel divano o che abitano l'eccentrica piccola corte della casa. Il rapporto visivo al paesaggio è variamente declinato proprio perché la vetrata non è l'affaccio all'esterno d'un ambiente unico ma frazionato e ad altezze variabili: dalla passerella superiore che si conclude nella porta-finestra, si colgono dapprima le chiome degli alberi più prossimi all'abitazione, poi i campi. Il profilo dello spiovente del tetto taglia via le lontananze, i monti, il cielo; che spariscono anche in basso, quando si sta o ci si muove sotto le zone soppalcate. Così a essere magnificati sono il verde della natura e della vegetazione che i serramenti, alcuni dei quali pivotanti, riflettono (fig. 16).18 Queste diverse situazioni, spaziali e percettive dall'interno, rievocano le vedute prospettiche della sala da pranzo e del salone nel primo progetto per la Villa a Cartagine di Le Corbusier, pubblicate nell'Œuvre complète (1910-1929), dove due piccoli balconi, posti in corrispondenza delle gallerie dell'ammezzato che si distendono intorno a una sorta di corte a doppia altezza, si proiettano all'esterno sfondando la parete vetrata.
L'attenzione al disegno dei dettagli dei serramenti (fra l'altro orgogliosamente pubblicati in prospetto e sezione),19 maniglie comprese, e le numerose riprese fotografiche, finanche degli anelli a cui la tenda è assicurata, attestano che come diceva Le Corbusier: «Le finestre sono il mio assillo principale, assillo di tecnico e di esteta»20 e che questa dimora è pensata in funzione del grande schermo vetrato, scelto come immagine della copertina del primo volume monografico alla cui realizzazione Flora Ruchat-Roncati partecipa,21 offerto come epigrafe del suo pensiero progettuale. Incorniciata dalla vite americana, come alcune parti delle facciate sulla corte, dietro gli arbusti d'un glicine e i folti rametti di una mimosa, la vetrata appare ritrosa, deferente verso quelle presenze imponenti che si specchiano su di essa, e la consustanziano d'una sinfonia di profili e di toni celesti. Come per la Petite Maison a Corseaux: «L'interiorità ha preso la via dei campi: la natura, il paesaggio e, correlativamente, i significati che convogliano, i valori che incarnano, prendono il posto dell'intérieur. Impossibile “tenere a distanza" la finestra a nastro – nel nostro caso il quarto muro trasparente del soggiorno-atrio – difficile sottrarsi all'ascendente di un paesaggio, di un "sito [che] è qua, come se stessimo in giardino"».22
Ma in condizioni di luce e di fruizione differenti, la vetrata disvela l'interiorità della corte domestica, esposta in vetrina come contraltare al paesaggio campestre. Non possiamo non pensare alla parete vetrata della hall di Villa La Roche che, come quella di Riva, si dilata sempre più fino a estendersi da muro a muro, fra il corpo ortogonale concavo della galleria e quello rettilineo adiacente dell'abitazione, costituendosi come elemento di transizione. E nemmeno trascurare l'influenza che potrebbe aver esercitato la grande vetrata del Padiglione dell'Esprit Nouveau del 1925, che presentava, nella parte bassa, lo stesso dispositivo tessile teso a escludere l'immediato intorno, in una logica di selezione delle vedute paesaggistiche ammissibili all'interno d'un Immeuble-villa.
Così la fabbrica di Riva, non solo continua a manifestare una propria temporalità storica, difficilmente databile con precisione, ma vi affianca un tempo contemporaneo, la cui componente principale è quella membrana su cui gli opposti si densificano: è schermo cangiante nella stasi dei corpi circostanti, è interruzione della compagine muraria in pietra intonacata, alterazione del disegno della cortina che suggerisce ancora l'originaria funzione di fienile e la sua doppia altezza ventilata da grandi aperture, è il dopo nell'ordine del prima e del poi, tappa finale d'un processo diacronico che racconta la Storia. Una storia che assume come archetipo della dimora la corte «elemento generatore di una delle forme più valide di aggregazione abitativa»,23 che narra di voci, suoni, odori, della vita delle cascine, dei materiali e delle tecniche artigianali che hanno concorso a realizzarle, che si tinge dell'attrazione per il razionalismo che permane nella diacronia progettuale di Flora Ruchat-Roncati: l'impiego del clavier de couleurs de Le Corbusier, la rappresentazione concettuale del paesaggio che sottende il progetto della Petite Maison a Corseaux, chiaramente citato, insieme all'intérieur del Cabanon, nella costruzione dello Stöckli vent'anni dopo, sul bordo della roggia, sopra preesistenti strutture in rovina.
«Le opere di architettura non se ne stanno immobili ai bordi del fiume della storia, ma sono trascinate da esso»:24 il tempo le degrada ma solo mani sapienti sanno preservarne i segni che ne costituiscono la stratificazione temporale, assumerli come guida per interventi di attualizzazione del genius temporis ch'esse custodiscono, rendere operativa l'«immaginazione produttiva», come seppe fare Giovan Battista Piranesi nell'Ichnographia Campi Martii 25 la cui riproduzione, collocata dietro la scala a chiocciola, nel soggiorno a corte dell'architetto, appresa per parti come richiederebbe il suo consistere di frammenti policronici, è uno di quegli «objets-sentiments» che Le Corbusier avrebbe approvato in quanto opera d'arte,26 e ancor più in quanto metafora d'un pensiero progettuale, allegoria della vita: «Et ces investigations de l'esprit, cette introspection qui peut aller un peu ou beaucoup profond, c'est précisément cela la vie, la vie intérieure, la vraie vie».27
Note
1 Ad Anna Ruchat, a Ivo Trümpy e a Cristina Göckel desidero esprimere la mia gratitudine, per avermi generosamente aiutata nella ricostruzione di questo progetto e per i preziosi suggerimenti. Stando alla documentazione conservata all'Archivio del Moderno, nel Fondo Flora Ruchat-Roncati, il progetto sarebbe steso dagli «Arch[itetti] ass[ociati] Galfetti – Ruchat – Trümpy» con sede a Bedano. Ivo Trümpy conferma che l'unica responsabile del progetto e del cantiere è stata Flora Ruchat-Roncati.
2 In mancanza di documenti storici che attestino la precisa datazione dei tre corpi di fabbrica e del muro di chiusura verso la canonica, la ricostruzione cronologica sopra riportata si basa sulle informazioni riportate in P. Carrard, D. Geissbühler, S. Giraudi (a cura di), Flora Ruchat-Roncati, catalogo della mostra (12 dicembre 1997-22 gennaio 1998, ETH-Zurigo), gta, Zürich 1998, pp. 42-43.
3 Ibidem, p. 42.
4 Solo una piccola parte del parco fu venduta all'architetto Giancarlo Durisch che vi costruì due prismi triangolari sistemati vis-à-vis, adibiti ad abitazione e a studio professionale. Nella scheda dedicata al recupero del complesso si legge che l'edificio «appare come una scultura» (ibidem, p. 43).
5 Su questo aspetto rimando al testo di A. Ruchat, La corte di Riva, in questo stesso numero e a quello di I. Davidovici e E. Perotti, A collective Archipelago: Flora Ruchat-Roncati's Cortile in Riva San Vitale, Switzerland, in I. Doucet, J. Gosseye (a cura di), Activist at home. Architects dwelling between politics, aesthetics, and resistance, Jovis, Berlin 2021, pp. 181-191. Lo studio professionale Ruchat-Roncati - Trümpy è attivo dal 1971-1972.
6 Mi riferisco a una prospettiva assonometrica accompagnata dagli schizzi del piano terreno, destinato a un grande ufficio, e del piano superiore che avrebbe accolto una parte degli spazi domestici. Sono riconoscente a Nicola Navone per avermi segnalato la presenza di questo importante documento grafico conservato nel Fondo Giuseppe Roncati dell'Archivio del Moderno.
7 Alle due piante se ne aggiunge una terza conservata nel Fondo Giuseppe Roncati, che reca la medesima data (20 aprile 1968) e partecipa della serie in quanto prima variante.
8 George H. Taylor, Ricoeur's philosophy of imagination, «Journal of French Philosophy», primavera 2006, vol. 16, 1-2, pp. 97-98, web ultimo accesso: 25 aprile 2022, http://jffp.pitt.edu/ojs/index.php/jffp/article/viewFile/186/1822006, dove l'autore riassume il contenuto delle Lectures on imagination tenute da Paul Ricoeur all'Università di Chicago nel 1975.
9 I due disegni, datati 20 aprile 1968 sono in Archivio del Moderno, Fondo Flora Ruchat-Roncati.
10 F. Ruchat-Roncati, La capanna d'Adamo è in Paradiso, e quella di Eva?, «Controspazio», 1996, 6, p. 36.
11 Ne sono esempi, in quegli stessi anni, la Villa Bloc à Antibes (1962-1966) di André Bloc e Claude Parent, e la Maison de l'Iran (1958-1969) degli stessi progettisti in collaborazione con Mohseine Foroughi e Heydar Ghiai. Già negli anni Venti Le Corbusier estrometteva le scalinate, o parti di esse, per renderle partecipi del valore plastico delle facciate e articolare la promenade architecturale dall'esterno verso l'interno.
12 F. Ruchat-Roncati, La capanna d'Adamo è in Paradiso, e quella di Eva?, dattiloscritto datato 15.7.1993, p. 2, fonte Archivio del Moderno, fondo Flora Ruchat-Roncati. Il testo è pubblicato con alcuni tagli in «Controspazio», 1996, 6, p. 36. La frase citata è una di quelle espunte.
13 A. Ruchat, La corte di Riva, cit.
14 «L'atrio della casa greca e italica era il luogo degli dei e l'abitare attorno l'atto di custodirli e celebrarli. Poi gli dei se ne sono andati, ma la corte si è affermata come permanenza tipologica, elemento generatore di una delle forme più valide di aggregazione abitativa» (F. Ruchat-Roncati, La capanna d'Adamo è in Paradiso, e quella di Eva?, cit., p. 36).
15 La definizione è di Le Corbusier, L'art décoratif d'aujourd'hui, G. Crès et Cie, Paris 1925.
16 Le piastrelle sono realizzate dalle sorelle Columberg, ceramiste di Biasca.
17 B. Reichlin, L'«intérieur» tradizionale insidiato dalla finestra a nastro. La Petite Maison a Corseaux, 1923-1924, in A. Viati Navone, Dalla «soluzione elegante» all'«edificio aperto». Scritti attorno ad alcune opere di Le Corbusier, Mendrisio Academy Press-Silvana editoriale, Mendrisio-Cinisello Balsamo, 2013, p. 109.
18 Diverse fotografie della vetrata appena realizzata, conservate nel fondo Flora Ruchat-Roncati, restituiscono questo effetto.
19 P. Carrard, D. Geissbühler, S. Giraudi (a cura di), Flora Ruchat-Roncati, cit., p. 45.
20 G. Baderre, Une visite à Le Corbusier-Saugnier, «Paris-Journal», 14 dicembre 1923, 2479, p. 6.
21 P. Carrard, D. Geissbühler, S. Giraudi (a cura di), Flora Ruchat-Roncati, cit.
22 B. Reichlin, L'«intérieur» tradizionale insidiato dalla finestra a nastro, cit., p. 109.
23 F. Ruchat-Roncati, La capanna d'Adamo è in Paradiso, e quella di Eva?, in «Controspazio», cit., p. 36.
24 H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, p. 193 (ed. originale 1960).
25 Si tratta della «Grande pianta topografica del Campo Marzio, in sei tavole di cm. 59 x 45 da riunirsi (135 x 117)», nello specifico della tav. 5 che reca incisa su una lapide di marmo la scritta in rilievo: «Roberto Adam Britanno Architecturae Cultori Ichnographiam Campi Martii Antiquae Urbis Joannes Baptista Piranesius in Sui Amoris Argumentum D. D. D». La tavola è inserita nel tomo decimo «Il Campo Marzio dell'antica Roma», in Le Antichità romane Opera del Cavaliere Giambattista Piranesi, Architetto Veneziano, Stamperia Salomoni, Roma 1784.
26 «Les objets-sentiments, ou objets d'art, ne sont que scories à côté de ce feu intérieur, léger charme et encombrement certain, peut-être bien futilités, pitres, fous du roi: éléments de distraction (on parle ici des objets d'art décoratif). L'objet-sentiment licite se situe bien ailleurs et plus haut, dans cette maison déblayée, sur un plan plus élevé; c'est alors l'œuvre d'art et c'est tout autre chose » (Le Corbusier, L'art décoratif d'aujourd'hui, cit., p. 74).
27 Ibidem.