«Ques­to com­pi­to spet­ta ai pro­get­tis­ti»

Nell’intervista, l’architetto Stefan Cadosch traccia un bilancio del movimentato decennio in cui ha tenuto le redini della SIA in veste di presidente e volge con ottimismo lo sguardo al futuro. Perché spetta ai progettisti migliorare la vita di noi tutti.

Publikationsdatum
23-06-2021

TEC21 – Signor Cadosch, in che misura è cambiato il ruolo della SIA, in quanto associazione professionale, in questi ultimi dieci anni? 

Stefan Cadosch – Ci sono stati, a mio modo di vedere, due cambiamenti cruciali. In primis, la SIA ha rafforzato la propria presenza sul piano politico. Ed è una buona cosa, visto che numerose questioni che concernono il nostro settore sono anche temi di interesse politico. Come professionisti del ramo, possiamo fornire preziosi input. Anzi, direi proprio che la sfera politica si aspetta da noi una concreta presa di posizione. La prima volta che ci siamo recati a Palazzo federale per discutere, con le autorità, di pianificazione del territorio e di cultura della costruzione, tutti, e a prescindere dal colore politico, hanno commentato all’unisono: finalmente fate sentire la vostra voce! La SIA è conosciuta e gode di grande credibilità. Ciò è legato alla competenza specialistica che l’associazione incarna e, certamente, anche alla sua lunga tradizione. Sono ormai infatti quasi due secoli che contribuisce a forgiare il settore edilizio svizzero. Si aggiunge il fatto che la nostra Società non si è mai fatta inquadrare in schemi di destra o di sinistra. Il nostro è un approccio pragmatico, orientato alla ricerca di soluzioni. Non andiamo a caccia di sovvenzioni. Ora la SIA comincia a mettere a frutto questo capitale politico.
 

E il secondo grande cambiamento, qual è?

In secondo luogo, la SIA ha intensificato la propria collaborazione con le altre associazioni. Dieci anni fa, le associazioni erano tutte slegate le une dalle altre, portavano avanti ognuna il proprio lavoro in modo autonomo, guardando ai propri interessi. All’epoca, si sognava di poter contare un giorno su un organo mantello che riunisse tutte le professioni che concernono il settore della progettazione. Oggi le sfide da affrontare si sono fatte più complesse, per avere risonanza a livello politico è indispensabile stringere alleanze. Ecco perché la SIA si impegna in seno a costruzionesvizzera, l’associazione mantello del settore edile svizzero che raggruppa ben 70 associazioni attive nell’ambito della progettazione, della costruzione, della produzione e del commercio. Costruire è un’opera collettiva, un lavoro di squadra. È così sin dall’antichità. L’immagine del grande pensatore che, in solitaria, progetta ogni cosa, incaricando gli altri dell’esecuzione, è ormai da tempo acqua passata. Oggi tutti sono coinvolti nella riflessione. Va detto che ai giorni nostri è anche più semplice intessere alleanze. All’epoca, le associazioni erano dirette con accorata passione, certo, ma anche in modo direi quasi autocratico. Spesso si facevano battaglia. Ormai i tempi sono cambiati. Tutti sono diventati più concilianti e pronti a collaborare. Il lavoro di squadra ora è necessario.
 

Anche la SIA è cambiata in quest’ultimo decennio?

La SIA è diventata più «femminile». Parlare di una vera e propria femminilizzazione è una parola forse troppo grossa in un’associazione in cui la quota di donne, in ambito formativo e professionale, resta comunque piuttosto bassa. La SIA tuttavia ha delineato con più chiarezza la volontà di promuovere una maggiore partecipazione femminile, e ciò grazie anche alla «Rete donna e SIA». Il Comitato SIA è ora composto in modo paritario, per metà da donne e per metà da uomini. Anche in seno alla Direzione e nei vari gremi la quota di donne è aumentata. Naturalmente resta molto lavoro da fare. Quello delle pari opportunità è un tema che va seguito, monitorato. Chi pensa che l’argomento sia ormai archiviato e vi si possa apporre accanto un visto, rischia di ricadere nei soliti schemi. E questo, purtroppo, è uno scenario che si vede spesso.
 

Anche le aspettative dei soci sono cambiate?

Sì. Da un lato la SIA, come la maggior parte delle altre associazioni, è confrontata con il fatto che sempre meno persone si dicono disposte a collaborare in virtù del sistema di milizia, cioè a titolo onorifico. Dall’altro i soci si aspettano che la SIA salga sulle barricate e che, a livello politico, difenda a spada tratta i loro interessi professionali. 
 

Che tipo di interessi professionali?

Un problema è la crescente densità di norme e direttive. Una democrazia che funziona è una vera e propria macchina che produce nuove regolamentazioni: ogni parlamentare vuole profilarsi, e lo fa proponendo leggi su leggi. In più le abrogazioni sono rare. La conseguenza? I progettisti devono districarsi tra sempre più disposizioni, richieste e compiti. Questo è uno dei motivi per cui la situazione sul fronte degli onorari, malgrado l’elevata congiuntura, non si appiana, ma continua a peggiorare. Oggi il semplice fatto di dover presentare una domanda di costruzione è diventato estremamente complicato e richiede molto più tempo ai progettisti di quanto non fosse due o tre decenni fa. Gli onorari però sono rimasti uguali. La SIA deve quindi contribuire a snellire i processi. Inoltre, i soci si attendono, e a ragione, che la Società si batta per una retribuzione più equa delle prestazioni di progettazione.
 

E lei personalmente, che cosa si aspetta dalla SIA?

Anche le mie aspettative sono cambiate. Ho sempre pensato che alla SIA mancasse un po’ di dinamismo, e proprio per questo a suo tempo avevo deciso di candidarmi per prendere in mano le redini presidenziali. Oggi però vedo le cose diversamente perché conosco l’ampiezza e lo spessore di certe tematiche con cui la SIA si vede confrontata. Insomma, le mie aspettative si sono ridimensionate. Sono diventato più realista e prima di affrontare una questione mi chiedo che cosa sia concretamente fattibile, e come. Prendiamo il caso degli onorari. La SIA deve lottare per garantire onorari equi, questo è chiaro. Eppure, nel 2018, quando la segreteria della Commissione federale della concorrenza (COMCO) aveva espresso il dubbio che le raccomandazioni SIA per il calcolo degli onorari potessero contemplare degli accordi potenzialmente anticoncorrenziali, non avevamo avuto alcuna possibilità di difenderci sul piano giuridico. È stato scioccante rendersi conto di quanto velocemente un’associazione professionale come la nostra potesse rischiare di finire nel mirino della giustizia per il semplice fatto di aver chiesto che venissero retribuiti onorari più equi. Si è subito sospettati di violare la legge sui cartelli e questo mero sospetto rappresenta già di per sé un pericolo, dato che in questo caso non vale il principio di presunzione d’innocenza. L’onere della prova, infatti, è capovolto: si è considerati colpevoli e si viene pesantemente multati se non si può dimostrare la propria innocenza. Ecco perché ci siamo visti obbligati a stralciare dagli RPO le disposizioni per il calcolo degli onorari.
 

La SIA è stata vista quindi come una nemica della libera concorrenza?

A dire il vero è un’assurdità. La COMCO si considera, in generale, garante della concorrenza in senso economico, così come la SIA si considera garante della concorrenza nel settore della progettazione. In questo contesto, la COMCO parte del presupposto che tutti cerchino di deformare il sistema e di infrangerne le regole. Questo atteggiamento mi sembra sconcertante e soprattutto di corte vedute. È evidente che gli onorari troppo bassi pregiudichino l’affermarsi di una sana concorrenza, danneggiando sul lungo periodo anche la situazione delle giovani leve. Se le cose continueranno ad evolvere in questa direzione, la COMCO dovrà presto intervenire, sempre in veste di garante della concorrenza, ma questa volta per fare in modo che il mercato non affondi, in ragione degli onorari troppo bassi!
 

Il settore della progettazione è messo fortemente sotto pressione, visti gli onorari in discesa, l’intervento della COMCO, la digitalizzazione forzata, la crisi sanitaria. Eppure, nonostante tutto, per lei la professione dell’architetto continua a rivestire un ruolo cruciale e a esercitare grande fascino.

È in assoluto una delle professioni più belle al mondo! Essere architetto significa rendere visibili le proprie idee, nel concreto. Quello che costruiamo resiste idealmente anche per un centinaio di anni. Giorno dopo giorno, siamo osservatori dei nostri successi e anche dei nostri insuccessi. Questo confronto con il processo creativo è razionale, rigoroso e senza mezzi termini, ma incredibilmente arricchente. Fare l’architetto è anche un lavoro comunicativo. Per concretizzare un’idea ci vogliono committenti, alleati, esecutori. Tutti devono tirare fuori la loro passione e credere in quello che stanno facendo. E, non da ultimo, è una professione che può apportare un contributo a livello sociale. Soprattutto nei momenti di crisi appare evidente quanto sia importante contare su buone infrastrutture. Quando vedo che una costruzione funziona e che le persone la utilizzano proprio così come era nei miei progetti, quando vedo che un’opera è apprezzata e ben accolta, la soddisfazione è immensa!
 

Signor Cadosch, lei dirige anche uno studio di medie dimensioni attivo sia nell’ambito della progettazione che dell’esecuzione lavori. Insomma, rappresenta la figura «classica» dell’architetto svizzero che considera il processo, dalla fase della progettazione all’esecuzione dei lavori, come un tutt’uno, come un unico mandato. Che futuro ha questa visione?

Lo spauracchio temuto da ogni architetto, ovvero la prospettiva di vedere la propria professione ridursi a quella di qualcuno che si occupa soltanto della parte estetica e ornamentale, lasciando ad altri le decisioni e la gestione dei processi, è presente. E lo è soprattutto nell’area anglosassone. Di fatto, quella dell’architetto-designer è ormai una realtà, anche alle nostre latitudini. Ci sono diversi studi che affidano a terzi la direzione lavori, rinunciando così alla metà del loro onorario. Certo, credo nel modello classico, ma non penso che sia l’unica via percorribile. D’altro canto, ci sono anche diversi studi rinomati e competenti che continuano a gestire anche gli aspetti esecutivi, e non solo in Svizzera, anche a livello internazionale. Gli architetti svizzeri sono conosciuti per la loro precisione e puntigliosità, ma non sono i soli. Ci sono ancora gli artisti della costruzione che, con grande sensibilità e passione, vogliono avere in mano le redini dell’intera opera, avere sott’occhio tutti i dettagli. È vero, non sono più la maggioranza, ma neanche una rarità. Secondo me la digitalizzazione non è in contraddizione con questa esigenza. Al contrario: se impiegati correttamente, gli strumenti digitali possono persino promuovere una visione olistica dell’opera. Dato che le fasi di progettazione e costruzione si sovrappongono, alcune decisioni possono essere anticipate, aprendo così nuove porte da cui far confluire la competenza di chi esegue il lavoro. Evidentemente ci sono ancora questioni irrisolte, scetticismo, ma fondamentalmente vedo la digitalizzazione come una vera e propria opportunità.
 

Pensa che in futuro il mercato si differenzierà al punto che il fatto di porre requisiti elevati sotto il profilo della cultura della costruzione diventerà una sorta di bene di lusso anziché una tendenza diffusa? 

Il mercato è da sempre differenziato. Le grandi opere di architettura e di ingegneria costituiscono, lungo il filo dei secoli, non più del 10% dei progetti realizzati. Quello che rimane oggi di una città medioevale, e ciò che desta tutta la nostra ammirazione, in verità non è che un frammento di tutto ciò che era stato costruito all’epoca; solo che la maggior parte di quelle costruzioni erano strutture rudimentali in legno che, col tempo, sono crollate. Le opere che testimoniano un’elevata cultura della costruzione sono, da sempre, prodotti di nicchia. Pertanto, ci sono anche al giorno d’oggi edifici e infrastrutture ordinari che non attestano nessun’altra qualità se non quella di adempiere il loro scopo, nulla di più. Nei dibattiti condotti tra esperti del settore e nella stampa specialistica non ne facciamo quasi mai parola, perché noi progettisti ci interessiamo di tutto ciò che è straordinario, esemplare. Sono queste le opere che ci ispirano, quelle da cui vogliamo imparare, che ci spingono a vincere, a essere tra i migliori. Ma non siamo solo noi a voler soddisfare questa esigenza legata alla cultura della costruzione. Anche i non addetti ai lavori dotati di spirito di osservazione possono riconoscere perfettamente la qualità architettonica, e renderle onore. Ciò vale anche per i committenti. Sì, ci sono anche i committenti esigenti, che puntano alla massima qualità.
 

Chi sono questi committenti che esigono l’eccellenza?

Un tempo, la cultura della costruzione era al servizio del potere religioso e politico. Ciò valeva tanto per l’architettura quanto per l’ingegneria: le opera infrastrutturali, come i ponti o le centrali, possono limitarsi a soddisfare mere esigenze funzionali, ma possono anche attestare un’elevata qualità estetica e dispiegare un grande potere simbolico. Oggi ci sono anche multinazionali, così come altri attori dell’economia privata, che realizzano opere mirabili. Al riguardo sorge spontaneo chiedersi quanto ciò sia adeguato. Quali valori incarnano queste opere? Un’organizzazione privata, per quanto importante a livello statale, fino a che punto può dominare lo spazio pubblico? Questo stesso dibattito si è sollevato anche attorno alle torri Roche di Basilea, ma va oltre, è onnipresente. Alcuni edifici prestigiosi hanno qualcosa della Torre di Babele: si ha l’ambizione di lasciare un segno, ma man mano che si vola in alto il rischio di bruciarsi le ali c’è.

Noi progettisti siamo ambiziosi; eppure, anche al migliore non riesce sempre bene tutto. Nella nostra società individualista condurre un dibattito critico è oltremodo necessario. Purtroppo, nei nostri ambienti non è visto di buon occhio esprimere una valutazione critica sul lavoro dei colleghi. Invece di dire le cose apertamente, lo si fa a porte chiuse, il che non ci permette di migliorare le cose. Ci vuole un approccio schietto, aperto. A questo riguardo dobbiamo essere consapevoli che tutti noi possiamo sbagliare all’unisono, come categoria professionale. Prendiamo l’esempio della Tour Eiffel. L’idea era quella che, dopo l’esposizione mondiale del 1889, la torre sarebbe stata rimossa perché, così si diceva, deturpava la città. Poi invece, con il tempo, ecco che quell’«odiosa colonna di metallo imbullonato» ha finito per trasformarsi in icona. Vale però anche il contrario, a volte le icone diventano scempi paesaggistici.
 

Che ruolo rivestono le associazioni professionali in questa riflessione?

In linea generale direi, e lo so per esperienza, che le associazioni (e tra queste anche la SIA) sono motivate dalla volontà di apportare un contributo in favore del bene comune, e ciò a prescindere dalle motivazioni individuali dei singoli attori coinvolti. Una missione che implica anche una parte di lavoro svolto a titolo onorifico. Voglio pertanto rivolgere un appello a tutti i progettisti, esortandoli a impegnarsi per qualcosa che possa servire all’intera collettività. John F. Kennedy disse: «Non chiedetevi che cosa può fare per voi il vostro paese, chiedetevi che cosa potete fare voi per il vostro paese». Mi chiedo se sia un fenomeno legato al nostro benessere il fatto che ognuno di noi si focalizzi solo sui propri benefici. Anche in una società individualista dobbiamo riconoscere i valori che ci accomunano e impegnarci per farli valere. Questo è uno dei grandi insegnamenti della pandemia. La crisi ci ha pure mostrato che eliminando le zavorre creiamo nuove opportunità. La crisi sanitaria ci ha obbligati a fermarci e questa pausa forzata ha messo in evidenza quante cose superflue e inutili facciamo. Ora possiamo scegliere e concentrarci su ciò che conta davvero. Lo so, è una visione molto ottimistica, con un tocco di socio-romanticismo, ma è anche vero che sono i valori comuni il principale motore dell’umanità. Ed è qui che si chiude il cerchio delle nostre professioni: spetta infatti ai progettisti apportare un contributo per migliorare concretamente le nostre vite.

Stefan Cadosch è architetto dipl. PFZ e titolare di un postdiploma SUP in economia aziendale. Nel 1999 ha fondato insieme a Jürg Zimmermann lo studio di architettura Cadosch & Zimmermann Architekten ETH/SIA, con sede a Zurigo, che continua a dirigere a tutt’oggi. Negli anni 1993-2011, Cadosch ha lavorato presso la società Eternit (Svizzera) SA, dove era responsabile del settore sviluppi architettonici. È attivo anche in ambito accademico e insegna alle università di Friburgo e di Zurigo. Da novembre 2011 ad aprile 2021, Stefan Cadosch ha rivestito la carica di presidente SIA. In occasione dell’Assemblea dei delegati del 23 aprile 2021, la SIA gli ha conferito il titolo di socio onorario, per rendere omaggio ai suoi meriti straordinari. Di più in questo articolo

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