De­ni­se Bert­schi

Le tracce invisibili dell’oro tra Svizzera e Sudafrica

«Per approfondire il tema dei rapporti della Svizzera con il Sudafrica dell’apartheid, sono andata alla sede degli archivi nazionali del Sudafrica e ho fatto una semplice ricerca inserendo il termine Svizzera nel loro catalogo. È saltato fuori un dossier intitolato Oro. Vendita di oro semilavorato all’Unione di Banche Svizzere. Agente Zehnder, 1953». L'artista e ricercatrice Denise Bertschi racconta il suo progetto multimediale.

Publikationsdatum
02-04-2020

Denise Bertschi (Aarau, 1983) è un’artista e ricercatrice con base a Losanna. Nel 2017 le è stata assegnata una borsa di studio dalla Pro Helvetia di Johannesburg, Sudafrica, da cui è nata un’opera in cui la ricerca storica si tramuta in un’installazione video-fotografica. Negli archivi nazionali sudafricani, Denise ha infatti trovato due scatole contenenti lettere che documentano l’acquisto di oro dal Sudafrica da parte della Swiss Bank Corporation (oggi UBS) negli anni Cinquanta. Sono tracce che provano il rapporto economico tra i due paesi, continuato nonostante le sanzioni delle Nazioni Unite dovute all’apartheid. Tracce parziali, quasi invisibili, a cui l’artista ha dato un volto fotografando gli edifici di Pretoria e del Central Business District di Johannesburg, una «New York City africana» pensata per soli bianchi e poi, dopo la fine dell’apartheid, in buona parte abbandonata. L’abbiamo intervistata.

Gabriele Neri – Sei stata a Johannesburg per una residenza d’artista. Com’è nato il tuo progetto?
Denise Bertschi – Ho vissuto in un appartamento al sedicesimo piano di un edificio art déco, che negli anni Trenta ospitava un grande magazzino, sito nel Central Business District (CBD) di Johannesburg. Il quartiere, lo stesso in cui si trova il famoso Mining District, ha la massima densità di grattacieli di tutta l’Africa: l’architettura di questa zona è stata costruita con l’oro. Johannesburg sorge al margine dei più grandi giacimenti auriferi del pianeta, che negli ultimi decenni sono stati quasi completamente sfruttati. Durante l’apartheid il CBD era classificato come area per soli bianchi e dopo la fine ufficiale del regime segregazionista nel 1994, e la conseguente fuga della popolazione bianca, è stato occupato dai sudafricani di colore.
Per approfondire il tema dei rapporti della Svizzera con il Sudafrica dell’apartheid, sono andata alla sede degli archivi nazionali del Sudafrica e ho fatto una semplice ricerca inserendo il termine «Svizzera» nel loro catalogo. È saltato fuori un dossier intitolato «Oro. Vendita di oro semilavorato all’Unione di Banche Svizzere. Agente Zehnder, 1953». Conteneva la corrispondenza, relativa solo a un anno, tra diversi personaggi coinvolti nelle trattative per la creazione di un flusso commerciale dell’oro tra Sudafrica e Svizzera. C’erano le lettere di A.C. Nussbaumer, direttore della Società di Banca Svizzera (oggi UBS), che voleva ottenere maggiori quantità di once d’oro dalle miniere di Johannesburg rispetto ad altre banche e riuscì a creare un «canale diretto» esclusivo, che in certi periodi assicurò all’enclave alpina fino all’80 percento del prezioso metallo. Alcune lettere erano firmate da Zehnder, un agente della banca svizzera che dirigeva un piccolo ufficio a Johannesburg prima che l’istituto di credito avesse una sede ufficiale in quella città.

Come funzionava questo business?
Una volta trovato il compratore, l’oro si trasforma in flussi di denaro. La Svizzera, nella fattispecie le sue banche, è stata per decenni un’assidua acquirente di oro sudafricano. Si trattava di un’attività controversa: mantenendo il riserbo sull’evasione delle sanzioni imposte al regime segregazionista, lo Stato proteggeva le operazioni delle banche che, attraverso l’organizzazione d’acquisto chiamata Zurich Gold Pool, hanno fatto diventare la Svizzera uno dei più grandi mercati dell’oro del pianeta.

Il tuo progetto non implica soltanto un’analisi storica, ma anche un’interpretazione artistica.
In qualità di ricercatrice e artista, ho prestato particolare attenzione sia al contenuto dei documenti sia alle loro qualità materiali – carta, consistenze, caratteristiche fisiche, segni grafici – ma sono stata colpita anche dalle assenze dell’archivio. Osservando attentamente le lettere alla ricerca di tracce, mi sono accorta che nelle intestazioni erano indicati degli indirizzi del CBD, il quartiere in cui abitavo, che avrei potuto facilmente raggiungere a piedi. In questo modo quelle tracce cartacee sono diventate una sorta di mappa da seguire durante le mie passeggiate per le strade di questa zona vivace, animata da mercati di frutta e alcune caffetterie alla moda che lentamente iniziano ad affermarsi tra gli edifici in parte abbandonati di un quartiere segnato da una storia complessa e stratificata. L’obiettivo era contestualizzare in senso spaziale gli accordi invisibili che avvenivano dietro le porte chiuse degli uffici, attraverso il ticchettio delle macchine da scrivere, e per i quali l’architettura stessa diventava un agente, indicando prossimità e distanze.

In che stato erano quegli edifici a distanza di tanti anni? Cosa ti ha colpito di più?
Alcuni edifici hanno cambiato destinazione d’uso, altri sono stati occupati abusivamente o abbandonati. Il palazzo in cui si trovava l’ufficio dell’agente Zehnder ha ceduto il posto a un parcheggio di otto piani dell’importante società mineraria Anglo American e pochi metri più avanti nella stessa strada si staglia il grattacielo della South African Chamber of Mines con la facciata decorata con immagini relative all’attività mineraria. Pochi passi più avanti altri rilievi in rame hanno attirato la mia attenzione: una maschera africana, un’antilope e, con mia grande sorpresa, un edelweiss, un fiore tipico della Svizzera. Sul portone d’ingresso di quel palazzo, lettere scintillanti compongono la scritta «Swiss House». Cosa ci fa una Swiss House in questo quartiere? Cos’è successo qui dentro? Ho dovuto mandare molte e-mail per ottenere il permesso di entrare nella Swiss House, che per la sua collocazione rappresenta una prova architettonica della vicinanza geografica di relazioni spaziali, economiche e strategiche. L’edificio che ospita gli uffici dello Swiss Council, della Swissair, della UBS e di una società di assicurazioni svizzera si trova proprio nel cuore del Mining District di Johannesburg.

Questo ti ha portato a ulteriori ricerche.
Nel suo libro illuminante (Apartheid Guns and Money: A tale of profit, Jacana Media, Johannesburg 2017), Hennie van Vuuren fa riferimento ad alcuni documenti che attestano i piani della UBS di trasferire la banca dalla Svizzera al Sudafrica – assicurandosi così un «posto al sole» – nel caso in cui la guerra fredda avesse avuto un esito drammatico in Europa. Tuttavia, prima che l’UBS aprisse una sede ufficiale, alcuni suoi rappresentanti lavoravano nel palazzo che in precedenza aveva ospitato la Borsa di Johannesburg. Dopo molte pressioni ho ottenuto l’accesso e il permesso di fare riprese e fotografie in quel luogo. Il custode mi ha mostrato la parte più segreta dell’edificio dalla facciata di vetro azzurrognolo: il sotterraneo con la sala delle contrattazioni. Le vetrate colorate, illuminate in controluce a creare un’atmosfera quasi sacra, rendono omaggio ai pilastri dell’economia sudafricana: l’agricoltura e le risorse minerarie. L’enorme sala era coperta da uno spesso strato di polvere, perché quasi nessuno vi entra più dagli anni Novanta, quando la Borsa è stata trasferita altrove.

Hai trasformato documenti materiali e immateriali in un’installazione.
Ho filmato e fotografato gli edifici coinvolti per contestualizzare e rendere visibile questa storia oscura, i depositi simultanei di una storia discreta che riguardava il coinvolgimento quasi invisibile nei modelli estrattivisti capitalisti. Sono i segni ottici di un complesso sistema multitemporale di relazioni economiche. Come scrive l’artista Joachim Koester, «La fotografia sembra riportare in superficie eventi che sono stati fatti sparire. Tutto diventa visibile anche se è nascosto». Ciò che è segreto viene rivelato da una produzione di immagini mute, che portano alla luce l’intreccio delle politiche commerciali svizzere su cui, per un periodo compreso tra gli anni Cinquanta e Ottanta, fu mantenuto il silenzio. Il silenzio mantenuto anche nelle immagini, in cui i movimenti sono ridotti al minimo. Nel saggio incluso nel catalogo della mostra (Denise Bertschi, Strata. Mining Silence, Aargauer Kunsthaus, Edition Fink, Zürich 2020) Anselm Franke scrive: «Niente qui è come appare. Piuttosto, è come se alle immagini sia stata fornita una doppia coscienza, la coscienza di ciò che in una società è ineffabile e invisibile». È evidente il richiamo al genius loci, lo spirito del luogo che fa coesistere il tempo e lo spazio, sedimenti di ciò su cui si fonda la ricchezza odierna della Svizzera.

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