Fi­ne­stre sul fu­tu­ro

Data di pubblicazione
22-08-2023

Dall’inizio della guerra, in Ucraina milioni di finestre sono andate in pezzi, frantumate dall’onda d’urto delle bombe anche a molta distanza dall’impatto. Sono vittime secondarie, ma fondamentali per tenere al riparo – specie nei mesi invernali – chi abita le case non totalmente distrutte.

Un aiuto in questo senso, non l’unico ma peculiare, arriva dalla Svizzera. L’architetta Barbara Buser, con l’associazione Re-Win, ha lanciato l’iniziativa «Windows for Ukraine», immaginando un’equazione semplice e ambiziosa. Siccome nella ricca Confederazione si buttano via migliaia di finestre ogni settimana, perché non portarle in Ucraina per curare queste speciali ferite? Produrre nuovi serramenti costerebbe più tempo e denaro, anche il quadruplo di prima del conflitto.

L’intuizione è stata approfondita con studi di precisione elvetica su ogni aspetto. A parità di spesa, si ottiene un numero di finestre cinque volte superiore rispetto a prodotti ex novo, e si inquina di meno. Centinaia di finestre svizzere hanno già trovato una seconda vita in Ucraina, grazie a donazioni e crowdfunding.

A prima vista, tale iniziativa sembra la tipica storia di un approccio emergenziale all’architettura, in cui gli scarti dei paesi più fortunati vengono impiegati come «cerotti» in situazioni di precarietà. Tuttavia, approfondendone le ragioni si può intravedere un movimento ben più robusto, che potrebbe riguardare il futuro (edilizio) di tutti noi.

Barbara Buser, che negli anni Novanta portava finestre sane nella Sarajevo bombardata, si occupa da quarant’anni di economia circolare e riuso intelligente. Laureata nel 1979 a Zurigo, svolse un intero decennio di apprentissage in Africa alle prese con un’architettura basata su ciò che è a portata di mano. Al ritorno, Barbara Buser si è adoperata per seguire tale principio anche in Svizzera creando la prima Bauteilbörse, sorta di mercato di materiali da riutilizzare, in cui si incontrano l’offerta (chi butta via) e la domanda. In questo modo, il ruolo dell’architetto si allarga a «ricettatore» e mediatore tra clienti, imprenditori e istituzioni.

Nel 1999 ha fondato il «baubüro in situ», studio che negli anni ha dimostrato come un’architettura del riuso non sia solo auspicabile ma anche conveniente. Attenzione: riuso, o ancora meglio «upcycling», e non riciclo: quest’ultimo implicherebbe lavorazioni aggiuntive con ulteriore sperpero d’energia. A Basilea, con il suo studio ha sostituito la facciata di una fabbrica con un «collage» di finestre di seconda mano, tutte diverse. A Winterthur, l’operazione si è allargata alle strutture in acciaio, alle scale e a molto altro, con risparmio economico ed ecologico.

Siamo di fronte a un aggiornamento – in chiave sostenibile – della cultura (e dell’estetica) della prefabbricazione; ma potrebbe ricordare anche, concettualmente, l’architettura di spoglio del passato, con serramenti in PVC e manufatti industriali al posto di colonne, capitelli e cornici.

In concreto: è un metodo allargabile o, necessariamente, marginale? Entrambe le cose. Da un lato sta aumentando l’attenzione per tale approccio (si veda il recente Reuse in Construction. A Compendium of Circular Architecture, edito da Park Books); dall’altro, gli ostacoli burocratici e culturali sono ancora fortissimi. Tra frustrazioni e successi – nel 2021 ha vinto il Global Gold Award della Holcim Foundation – Barbara Buser insiste con testardaggine, predicando l’etica del riuso come unica ricetta lungimirante per cambiare il mondo a partire dall’edilizia, su ogni possibile fronte.

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