Ser­gio Tami

Otto domande

Sergio Tami di IFEC ingegneria risponde alle Otto domande de "Lo spessore dell'involucro".

Date de publication
24-10-2016
Revision
24-10-2016

1. In che modo secondo lei l’evoluzione delle richieste energetiche e di «comfort» ha cambiato negli ultimi vent’anni il modo di concepire una facciata?

La modalità di concezione della facciata è cambiata in modo sensibile. La sfida oggi è quella di riuscire a fare ancora architettura coniugando tutte le esigenze legate al costruire, e non penso solo alle esigenze legislative/normative in campo energetico, ma anche a tutte le attese del committente non da ultimo il contenimento dei costi. Lo dico però subito: l’architetto è il primo «Bauphysiker», «Akustiker», ingegnere della costruzione: le sue scelte possono semplificare in modo sensibile tutte le soluzioni tecniche che faranno parte del processo di progettazione.

Più che le leggi e le normative, negli ultimi decenni sono cambiate molto le attese e abitudini delle persone: chi investe, esige!

L’edificio è un insieme di componenti: la scelta di una facciata dipende molto dal tipo di edificio che devo realizzare, dalla sua funzione e dai contenuti previsti al suo interno. Inoltre il tema della facciata dipende chiaramente anche da altri elementi costruttivi. Un esempio: in presenza di una gronda abbondante posso utilizzare determinati materiali in facciata, o anche «osare» dettagli costruttivi più sensibili in termini di tenuta all’acqua.

2. Ad una «Podiumdiskussion» tenutasi nel corso dell’ultima edizione della Swissbau, qualcuno dei partecipanti sosteneva che tra i fenomeni evolutivi negativi ai quali stiamo assistendo, ci sarebbe l’abuso del ricorso alle facciate interamente vetrate, indifferenti e uguali tra loro. Gli edifici realizzati in questo modo e ripetuti ovunque nel mondo, sarebbero poco a poco responsabili della perdita di identità e specificità dei luoghi. Condivide questa tesi? O come la declinerebbe? Le pare invece che siano nate nuove specificità locali negli ultimi anni?

Non sono un architetto e purtroppo non possiedo una base solida in storia dell’architettura. Agli studenti di architettura cerco solo di far capire l’importanza di saper «leggere» il luogo in cui verrà realizzato l’edificio, percependo da subito anche quello che non è visibile. Penso ad esempio al clima, sia esso in macro-scala che micro-scala: in Ticino ad esempio possiamo avere lunghi periodi caldi, ma pure periodi con temperature rigide, può piovere per giorni, come pure si sviluppano forti temporali con stravento. Quindi la facciata può essere sollecitata in modo estremo.

Agli studenti di architettura si chiede sovente negli atelier di progettazione di portare delle immagini/progetti di riferimento: peccato che sovente gli esempi riportati si riferiscano a costruzioni edificate a migliaia di chilometri di distanza, quindi con abitudini, esigenze, sollecitazioni climatiche ecc., completamente differenti.

Un progettista deve innanzitutto saper cogliere le attese del committente e, tramite la propria esperienza, tradurle in un disegno architettonico capace di rispondere a quanto desiderato.

3. È una tipizzazione grossolana ma la concezione di una facciata può, in fondo, contare su un numero relativamente ristretto di tipi, ovvero:

  • la facciata interamente vetrata.
  • la facciata a «cappotto», o isolata esternamente, con l’aggiunta di sottili rivestimenti applicati direttamente allo strato isolante (intonaco, tessere in mosaico, in qualche caso elementi più consistenti come mattoni o pietre)
  • la facciata ventilata, che tra lo strato isolante e lo strato «visibile» (più o meno consistente o pesante, che potrebbe arrivare ad essere anche un collettore di energia) prevede una camera d’aria.
  • la facciata isolata internamente rispetto allo strato portante. Cioè una facciata che prevede che l’appoggio delle solette avvenga con giunti speciali in grado di evitare il ponte termico (Tipo «Shöckdorne»), oppure che l’isolamento venga risvoltato per qualche metro all’interno, sopra e sotto la soletta. Questa costruzione consente di mostrare e rendere visibile all’esterno lo strato portante normalmente in beton faccia a vista.
  • la facciata sandwich, ad elementi prefabbricati, sia in legno sia di elementi pesanti in beton.
  • Il beton isolante

Le sembra che l’elenco vada ampliato? Tra queste varianti (sempre che non ne voglia aggiungere qualcun’altra mancante) si è fatto un’idea precisa dei vantaggi, del potenziale economico, della pertinenza architettonica, culturale o espressiva di ciascuna di esse? Ovvero nella sua prassi professionale che ruolo gioca ciascuna di queste diverse possibilità? Ce le potrebbe commentare o criticare dal suo punto di vista?

Introduco qui, e lo riprenderò in seguito, un concetto basilare: disporre di una visione completa e globale per permettere una buona scelta. Ogni costruzione ha una sua genesi, ciò che rende impossibile automatizzare i processi costruttivi, come per contro è possibile in altri campi ad esempio nella fabbricazione di automobili.

Il tema è molto complesso: difficilmente una sola persona possiede tutte le competenze per operare la scelta migliore in funzione del contesto e dell’obiettivo posto.

Proprio per questo motivo è importante che il team di progetto sia ben amalgamato, dove ogni figura professionale possa portare le proprie esigenze e competenze, senza tuttavia imporsi in modo riduttivo sugli altri.

Rimane tuttavia centrale la figura dell’architetto: la capacità di considerare tutte le esigenze, senza subirle, permetterà di identificare per ogni progetto una buona soluzione, frutto di un buon compromesso tra le diverse specifiche che devono essere rispettate.

Un ruolo importante lo gioca chiaramente anche il committente, non limitando tutte le scelte a una questione puramente economica. Questo rappresenta sovente il vincolo principale che non permette una piena espressione architettonica e, perché no, tecnologica dell’edificio come tale.

4. In che modo nella composizione di una facciata o più in generale nella definizione del limite che separa il dentro dal fuori, si riesce ancora a istituire un legame con la tradizione storica o, se vogliamo, con gli esempi di alcuni maestri del passato? 

Per spiegare meglio il tema sul quale le chiediamo una riflessione, prendiamo un elemento architettonico specifico, ad esempio il «marcapiano» o la griglia strutturale. Negli edifici degli anni Cinquanta ma anche precedenti (pensiamo ad esempio al municipio di Göteborg di E.G.Asplund) questo elemento segnava in facciata la presenza della soletta «portante», separata dagli elementi di tamponamento «portati». Un riferimento contemporaneo a questa immagine dovrebbe realizzarsi necessariamente in modo costruttivamente diverso. 

E dunque, è ancora possibile, nel concepire facciate, un riferimento alla storia, oppure le nuove necessità costruttive devono farci rinunciare ai tentativi di istituire analogie con il passato?

Come detto bisogna cogliere la sfida del momento: non è più possibile proporre soluzioni che non tengano conto anche delle esigenze energetiche e, soprattutto, delle attese di chi poi vivrà all’interno dell’edificio. Il benessere delle persone non deve essere demandato alla tecnica: l’involucro – e la facciata è la parte principale – deve fungere da filtro, così come fa l’atmosfera con la terra. Proprio per questo è fondamentale saper cogliere le specificità climatiche del luogo. In tal senso, pensando alla nostra latitudine, il periodo estivo diventerà sempre più determinante per il dimensionamento tecnico della facciata. 

Prendo ad esempio il tema delle vetrature: sappiamo tutti quali sono le funzioni delle vetrate: eppure vediamo edifici interamente trasparenti, con vetri scuri e le luci interne sempre accese. Un altro esempio: nelle lezioni di fisica della costruzione si insegna che la parte alta della vetrata è quella che più contribuisce a portare la luce naturale anche in profondità nel locale, mentre la parte bassa ha poca incidenza sull’illuminazione naturale. Se ciò corrisponde al vero, vero è anche che proprio la parte bassa della vetrata può migliorare molto la qualità spaziale interna e garantire un miglior contatto visivo con l’esterno.

5. I sistemi di facciata sviluppati negli ultimi anni sono secondo lei esclusivamente soluzioni «tecniche» per conciliare architettura e requisiti di legge (termici/acustici -di comfort) o stanno creando una nuova architettura? A metà Novecento si è passati dalle facciate rivestite a quelle in calcestruzzo «faccia-vista», ritiene che ci sarà una nuova proposta architettonica che creerà una nuova «scuola» dell’architettura?

In parte è vero, la soluzione del sistema di facciata è puramente tecnica. È però altresì vero che sovente viene demandato alla tecnica la risoluzione di problemi non risolti adeguatamente a livello concettuale/architettonico. Penso che un bravo architetto sia comunque in grado di gestire tutte le esigenze poste dalle diverse discipline, riuscendo comunque ancora a «fare architettura», a trovare soluzioni adeguate secondo la tipologia di edificio che sta realizzando. Bisogna in ogni caso, cogliere questa nuova sfida e riuscire a dare nuovi sviluppi al modo di costruire. Non dimentichiamoci infatti che un ruolo fondamentale è pur sempre dettato dagli aspetti economici: tutte le nuove richieste, anche a livello di risparmio energetico, non possono semplicemente portare a un aumento dei costi d’investimento, ciò che sovente avviene se appunto si demanda alla tecnica la risoluzione del problema.

6. Come giudica la spinta più tecnologica verso le facciate «attive» in grado di produrre energia? È una moda passeggera o ci sono i presupposti per rendere l’integrazione dei sistemi solari una soluzione di massa, accettabile dal progettista e adattabile alle diverse soluzioni?

Vista la tendenza dei costi legati ai pannelli fotovoltaici, l’utilizzo di questi sistemi anche in facciata può diventare una variante costruttiva percorribile, soprattutto se confrontiamo tale soluzione nell’ambito delle realizzazioni con facciate ventilate.

Un’ulteriore spinta potrebbe essere data proprio dai produttori di pannelli PV: sul mercato sono già presenti pannelli con celle colorate e con texture praticamente non visibile, fornendo quindi una colorazione omogenea. Ciò si avvicina quindi molto alle facciate con pannelli standard utilizzati per le facciate ventilate.

Tuttavia chi ci ha preceduto, penso alla Germania, mostra come anche in questo caso sia fondamentale disporre di una visione globale. Sappiamo che un nuovo tema è legato alla sovrapproduzione di corrente elettrica nel periodo di mezzogiorno durante i periodi estivi, con tutto ciò che questo comporta. 

In tal senso una più omogenea distribuzione dei pannelli fotovoltaici non solo sulla copertura dell’edificio ma anche in facciata potrebbe in parte aiutare a risolvere questo problema: in facciata infatti la produzione maggiore è nel periodo invernale e non estivo (la resa dipende infatti dall’angolo di incidenza dell’irraggiamento solare sul pannello), e anche durante la giornata non necessariamente la produzione massima sarebbe nel periodo di mezzogiorno (se pensiamo alle facciate est e ovest). A fronte di una minore resa annuale, si avrebbe per contro il vantaggio di una migliore distribuzione della produzione di elettricità nell’arco della giornata e dell’anno.

7. Le normative sul fabbisogno energetico stanno tecnicizzando notevolmente il processo di progettazione della facciata; le pare che il mondo dei progettisti sia assente dalla discussione, e dunque che si stia andando verso l’iper-specializzazione dei compiti nell’edilizia, oppure l’architetto possiede realmente ancora tutte le leve di progetto?

A suo giudizio gli architetti si stanno svincolando dallo studio di nuove soluzioni di facciata demandando il compito a specialisti, produttori di sistemi, fisici della costruzione? Se sì, secondo lei, perché?

Di fatto il primo consulente energetico è proprio l’architetto: con le scelte di base si può condizionare molto il comportamento energetico dell’edificio. Ma forse il problema è proprio nelle nostre abitudini: ogni specialista tendenzialmente vuole risolvere in modo adeguato e ottimale la tematica di cui si sta occupando, ottenendo nell’insieme un edificio che in tutte le sue componenti sarà dimensionato con un certo grado di sicurezza. Oggigiorno non è più possibile vedere l’edificio nelle sue singole parti: è necessario pensare al «sistema edificio», individuando anche eventuali compromessi tra struttura – involucro – impianti.

Soprattutto a livello energetico è assolutamente necessario avere una visione globale. Negli ultimi venti anni sono state emanate diverse leggi e direttive che hanno inasprito soprattutto le esigenze a livello di perdite termiche dell’involucro. Se in un edificio degli anni Settanta-Novanta il fabbisogno termico per il riscaldamento costituiva l’80-85% dei consumi energetici dell’edificio, in uno stabile a basso consumo energetico – quindi con l’involucro fortemente isolato – questa percentuale può scendere anche al di sotto del 20%, con il maggiore consumo legato alla produzione di acqua calda sanitaria, e di energia elettrica per l’illuminazione, per gli apparecchi e per tutte le pompe di circolazione. Di fatto la «torta» energetica dell’edificio presenta oggi più voci di consumo e una suddivisione molto più variegata, non essendoci più un fabbisogno energetico che prevale in modo sensibile sugli altri. Il problema è che oggi ci sono esigenze proprie sempre maggiori, che comportano gioco forza – anche se abbiamo sistemi sempre più performanti – un aumento costante dei consumi. Ad esempio in un soggiorno non c’è più una lampadina a 80 W, ma molte lampadine a 4 W, magari accese per un periodo maggiore. Senza pensare ai televisori, smartphone, tablet, ….

Proprio perché è necessario avere una visione globale, ritengo fondamentale che tutte le figure professionali, con le loro sensibilità, partecipino alle discussioni in atto che porteranno alle regole tecniche del futuro prossimo. È però fondamentale che anche il legislatore abbia un approccio globale, evitando di porre unicamente esigenze in materia di involucro termico, proprio perché le voci di consumo non sono legate solamente all’involucro. Da questo punto di vista in Svizzera siamo sulla giusta strada, avendo da tempo capito che è necessario un approccio globale e non solo puntuale. Quanto in discussione negli istituti preposti a emanare le nuove regole va proprio nella direzione di considerare le diverse parti d’opera che incidono sui consumi energetici finali.

8. Le nuove tecnologie di involucro sono spesso ritenute «non realmente sostenibili» (a causa della quantità e qualità del materiale utilizzato e dell’energia grigia in esso contenuta – non sempre in linea con l’obiettivo della riduzione degli impatti energetici delle nuove costruzioni). Ritiene siano possibili dei miglioramenti in questo ambito in termini legislativi, normativi, tecnologici?

La necessità di disporre di una visione globale enunciata in precedenza, interessa non solo le voci di consumo dell’edificio durante la fase d’esercizio, ma deve essere estesa a tutte le fasi di vita conosciute. Da qui nasce la difficoltà principale: avere una visione globale di tutti i consumi legati all’edificio, in tutti i cicli di vita dello stesso. La difficoltà è legata anche alle molteplici varianti presenti; gli stessi ragionamenti che si impongono a livello economico possono essere fatti anche a livello energetico: meglio un investimento maggiore oggi, nell’ottica di ridurre i costi di manutenzione ordinaria, oppure il contrario?

Ma questo è il bello del nostro mestiere: non c’è una ricetta standard, ogni progetto è un processo a sé stante, anche se vengono utilizzate le stesse soluzioni. Penso tuttavia che ci sia un contrasto di fondo: oggi viviamo nella società del consumo, tutto viene usato e poi gettato. Vi ricordate nel vostro paese il calzolaio, che permetteva di ridare vita più volte a un paio di scarpe?  Questa attitudine del «sostituire invece che recuperare» si sta estendendo anche nella costruzione: non sempre sono convinto che il produttore ricerchi la soluzione più duratura, non sempre l’architetto persegue lo studio di dettagli sicuri e duraturi, non sempre l’utilizzo di svariati materiali permette di aumentare la durata di vita della costruzione, anzi. 

Dipende in buona misura quindi anche dagli obiettivi che committenti e progettisti si pongono. Spesso infatti si preferisce dedicare i soldi a ciò che si vede e non a ciò che rende più duraturo lo stabile. Ma penso che ciò rientri nella normalità delle cose. Una casa non sempre è un investimento razionale, ma – essendo il sogno della propria vita – diventa anche un investimento irrazionale per soddisfare i propri gusti. La sfida per il team di progetto è soddisfare le esigenze del cliente senza tuttavia che ciò vada a scapito della robustezza della costruzione.

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