La scuola: spazio di identità e relazione
Intervista a Sandra Giraudi
L’intervista a Sandra Giraudi esplora il rapporto tra pedagogia, architettura e contesto nel progetto scolastico in Ticino: un dialogo profondo tra valori educativi, qualità dello spazio e responsabilità pubblica, oggi minacciato da modelli standardizzati e semplificazioni normative.
The school: a space of identity and relation english version
Luca Cardani: Molti pensano che la qualità di un progetto coincida con il grado di maturazione di un’idea di architettura nella cultura di una società. In base alla tua esperienza, quanto credi sia aumentata la consapevolezza dell’idea di scuola negli ultimi anni e quanto incide sul progetto di una nuova scuola?
Sandra Giraudi: Il grado di maturazione di un’idea è un tema che ritengo centrale, è l’indicatore della qualità e della coerenza del processo progettuale. È qualcosa che cerco sempre, lo spessore, cioè il grado di profondità in un progetto, che si raggiunge solamente in un intenso dialogo con la cultura della società, quindi all’insegna della continuità. Una scuola è un edificio pubblico, un punto di riferimento per il contesto e la vita sociale, e come tale dovrebbe essere riconoscibile e dotata di una propria identità. Inoltre, una scuola genera altri spazi pubblici, ovvero luoghi di transizione verso altre aree collettive, percorsi, strade e piazze. Pertanto, una scuola non può essere ridotta a un semplice involucro che risponde a un programma funzionale, per quanto questo possa essere aggiornato ai più recenti criteri didattici e ambientali.
Oggi, questa consapevolezza è in crisi: la diversità di una scuola, rispetto a un qualsiasi altro edificio, sta proprio nelle relazioni specifiche con il contesto sociale e ambientale in cui essa si inserisce. Credo che oggi il valore di queste relazioni sia dato per scontato e si sia impoverito, anziché essere la priorità nella ricerca dell’idea di progetto.
Negli ultimi decenni il Canton Ticino come l’Alto Adige hanno riformato il tema architettonico della scuola grazie al riconoscimento di un aumentato valore dell’orientamento o progetto pedagogico, dove esistono elementi fissi e fondamentali ma il loro rapporto va rifondato ogni volta e non può seguire una standardizzazione. Come si può descrivere il rapporto necessario tra pedagogia e architettura nel progetto e nelle sue fasi? Quali gradi di contaminazione e quali di autonomia esistono nel progetto della scuola?
Direi che, a partire dagli anni Sessanta, in Ticino si è iniziato a percepire un cambio di registro nell’architettura scolastica, influenzato dagli architetti dell’epoca, che hanno visto nella scuola un’opportunità di sperimentazione e di ricerca tipologica, mostrando che esistono molteplici modi di organizzare gli spazi collettivi e le unità didattiche, aprendo quindi nuove prospettive. Possiamo quindi dire che l’architettura scolastica non si è limitata a rispondere a esigenze pratiche, ma ha contribuito a plasmare nuovi orientamenti pedagogici, ampliando il modo di intendere e vivere gli spazi dedicati all’educazione.
Oggi, l’edilizia scolastica in Ticino pare ancora reggersi sulla scia delle sperimentazioni passate. È forse un’impressione, ma questa tendenza ad accogliere acriticamente ciò che è già stato comporta il rischio di un impoverimento culturale senza precedenti, con costruzioni più o meno corrette ma sterili.
La qualità architettonica degli spazi scolastici è un elemento fondamentale della formazione. Una scuola è un luogo di trasmissione di nozioni ma soprattutto il luogo in cui si impara a vivere nella collettività, a rispettare le persone e l’ambiente. È quindi essenziale mantenere alta l’attenzione sui valori perché la scuola incide profondamente sulla formazione culturale e sociale delle nuove generazioni. Se questi valori mancano o sono trascurati, la formazione viene compromessa, perché uno spazio anonimo o squalificante genera indifferenza e l’indifferenza, in un luogo dedicato alla crescita, è il primo passo verso la perdita di valore dell’educazione stessa.
Pedagogia e architettura sono due discipline strettamente connesse. Se la pedagogia definisce gli intenti educativi, l’architettura li traduce in spazi concreti creando ambienti che favoriscono la concentrazione, il benessere e lo sviluppo cognitivo, emotivo e sociale degli studenti. Nel progetto di una scuola il rapporto tra pedagogia e architettura si ripresenta nelle diverse fasi. Nel concorso gli architetti interpretano e traducono le esigenze pedagogiche in un concetto, in rapporto anche al contesto e alla normativa. Le due discipline, pedagogia e architettura, sono già contaminate ma senza ancora confrontarsi con l’utenza. Segue lo sviluppo del progetto di massima e definitivo, dove si stabilisce un coinvolgimento attivo con la committenza e l’utenza, inclusi i direttori scolastici. I direttori sono i portavoce delle esigenze scolastiche e della comunità locale, svolgendo il ruolo fondamentale di tradurre le esigenze educative in scelte progettuali concrete, in questa fase in cui si affinano le qualità pedagogiche e architettoniche del progetto. Questo passaggio consente di adattare il progetto alle specificità del luogo, soprattutto negli spazi collettivi, garantendone un uso condiviso e inclusivo. Infine, durante il progetto esecutivo e la realizzazione si definiscono i dettagli costruttivi, i materiali, l’acustica, l’illuminazione naturale e artificiale, nonché le scelte cromatiche e di arredo. Il dialogo tra pedagogia e architettura rimane costante e dinamico, garantendo coerenza tra il concetto iniziale e la sua materializzazione. Tutto questo rischierebbe di andare perso se le scuole venissero progettate secondo un modello standardizzato e ripetitivo.
Per concludere, se per «contaminazione» intendiamo l’influenza reciproca tra pedagogia e architettura, io credo che questo sia un processo necessario di arricchimento per entrambe le discipline, in cui una spinge l’altra verso nuove esplorazioni. Il confronto permette di chiarire e concretizzare le intenzioni teoriche, trasformandole in una costruzione reale. Non si può progettare una scuola basandosi esclusivamente sulla teoria pedagogica; alla fine bisogna prendere decisioni concrete e questo spetta al progetto di architettura. Ciascuna disciplina deve quindi mantenere una propria autonomia. In sintesi, la scuola è il luogo in cui pedagogia e architettura si incontrano e si fondono, coerentemente con l’identità del territorio in cui si colloca; da qui nasce la sintesi finale del progetto.
Vorrei fare, però, un esempio anche della permanenza fisica e teorica del rapporto tra pedagogia e architettura: un'occasione di riflessione emersa durante il progetto per il rinnovamento del Collegio Papio di Ascona (cfr. Archi 2/2022, pp. 66-73) con lo studio Giraudi Radczuweit. Si potrebbe ritenere che una struttura conventuale del Cinquecento non sia certo pensata per la didattica moderna, ma invece credo l’esatto contrario. Penso, ad esempio, alla struttura intorno al chiostro: non ci sono solo corridoi come nelle scuole tradizionali, ma i percorsi sono soprattutto i portici che collegano gli spazi comuni. Questo cambia il modo di vivere la scuola, perché si è costantemente avvolti da uno spazio condiviso, aperto, in cui il passaggio diventa anche incontro. Il chiostro ha poi un fortissimo valore simbolico: è uno spazio centrale, verde, silenzioso, che può essere interpretato anche in chiave educativa come richiamo alla lentezza, alla riflessione, alla serenità, ma anche alla relazione. È uno spazio che può diventare aula a cielo aperto, luogo di dialogo, di osservazione, o semplicemente di respiro.
Questi aggiornamenti dei temi e dei programmi progettuali della scuola sono stati accompagnati da una riforma delle normative di riferimento che ha riguardato negli ultimi decenni molti paesi europei. Quali sono a tuo avviso i punti più importanti del nuovo quadro normativo entro cui operi e il valore aggiunto che portano al progetto della Scuola? I cambiamenti delle normative spesso riflettono anche istanze esterne al mondo dell’architettura, come si fa a garantire un grado di libertà da quello che viene prescritto?
In Ticino, il quadro normativo – dalle schede tecniche al più recente documento Standard logistici dell’Amministrazione cantonale (cfr. Archi 2/2022, pp. 32-33) – fornisce strumenti utili per la progettazione scolastica. Oltre a costituire una base tecnica per i concorsi, queste normative garantiscono che ogni proposta sia valutata in modo omogeneo, evitando confronti tra approcci didattici di qualsiasi tipo, così da permettere di valutare un rinnovamento pedagogico già condiviso in parallelo all’architettura. Ma il vero valore aggiunto di un quadro normativo ben strutturato è il riconoscimento che la scuola non è solo un luogo di apprendimento, ma anche un pilastro nella costruzione dell’identità individuale e sociale. Ad esempio, si sottolinea che l’aula è lo spazio di riferimento per l’allievo, un luogo che egli riconosce come proprio.
Inoltre, il documento valorizza la diversificazione dei setting didattici, ossia la possibilità di configurare spazi flessibili all’interno delle aule e negli ambienti comuni. Conferma anche la visione di una scuola aperta alla comunità, ribadendo un principio che ritengo essenziale: un buon progetto scolastico deve basarsi su una rete di relazioni con il territorio. Le normative sono aperte, rappresentano un vincolo ma non un limite alla libertà progettuale, con l’obiettivo di sensibilizzare i progettisti all’approccio al progetto «scuola». Paradossalmente, l’assenza di vincoli non sempre favorisce il progetto: spesso sono proprio i limiti più stringenti a suggerire soluzioni uniche e innovative.
La sintesi del progetto è quindi fondata sui «valori» e non sulle «condizioni». L’architetto non si limita a risolvere un problema funzionale, ma sviluppa un’idea che va oltre la mera conformità alle regole. Per questo, le normative devono essere integrate fin dall’inizio, evitando ostacoli che potrebbero emergere nelle fasi avanzate e frenare la creatività. Vorrei fare un esempio virtuoso di un progetto di concorso a cui ho partecipato come membro di giuria.
Si tratta del Centro Scolastico di Leutschenbach del 2002 progettato da Christian Kerez (cfr. Archi 2/2007, pp. 18-29) che rappresenta un manifesto di innovazione architettonica e pedagogica, anche citato nel documento Standard logistici dell’Amministrazione cantonale del 2020. Si basa su un nuovo concetto di spazio didattico con le aule più ampie per permettere attività diversificate. Ogni piano raggruppa nove aule attorno a un grande spazio centrale multifunzionale.
La normativa credo agisca in due direzioni: da un lato riflette l’evoluzione della società, si aggiorna lentamente in relazione ai cambiamenti culturali, sociali e tecnologici; dall’altro può anche agire d’anticipo, ponendo le basi per trasformazioni future.
Cosa pensi del concorso come strumento di ricerca per l’architettura? Intendo dire, la pratica del concorso quale valore può dare a un progetto e più in generale alla ricerca sul tema della Scuola? Se in generale lo strumento è assolutamente positivo, talvolta – nelle condizioni attuali della pratica architettonica – non spinge a uniformarsi verso risultati ampiamente accettati o per così dire vincenti?
Il concorso di architettura è essenziale per selezionare il progetto con maggiore qualità e dovrebbe essere lo strumento che stimola il confronto, spronando a uno sforzo in più nella ricerca progettuale, per imparare a distinguere valori e priorità da criticità e compromessi, e per interpretare il significato di una «scuola» in un determinato contesto. Il concorso rappresenta quindi un’opportunità per esplorare modelli innovativi di didattica e relazioni tra gli spazi, approfondendo soluzioni che non si limitano alla semplice ripetizione di schemi consolidati, andando oltre la teoria attraverso la sperimentazione diretta nel progetto.
Allo stesso tempo, da diversi anni si assiste a una progressiva standardizzazione verso soluzioni «ripetitive» e quindi sterili. Si avverte una sorta di ansia nel proporre soluzioni che evitino incidenti funzionali, condensate in involucri già premiati e pertanto ritenuti non criticabili, spesso motivate da ragioni energetiche e affidate all’immagine del contenitore. Merita un accenno il tema delle questioni energetiche, una condizione che giustamente richiede risposte adeguate ma che rappresenta anche un’opportunità di indagine approfondita. Nel campo degli edifici scolastici, non è raro che si dia per scontato che un «corpo compatto» sia più sostenibile dal punto di vista energetico. Dal punto di vista pedagogico, questa ovvietà risulta problematica. La progettazione scolastica non può basarsi esclusivamente su criteri tecnici, ma deve considerare anche la qualità dell’ambiente di apprendimento, la flessibilità degli spazi e il benessere degli studenti. Un corpo unico e compatto può avere vantaggi, ma rischia di sacrificare aspetti essenziali per la didattica contemporanea, come la flessibilità e modularità, il comfort ambientale, la relazione con l’ambiente e il territorio, la vivibilità e l’orientamento. Un volume molto denso può risultare caotico per gli studenti, soprattutto se privo di spazi di decompressione, aree comuni ben integrate e una suddivisione chiara delle diverse funzioni.
Il ripensamento dell’orientamento pedagogico ha inciso sul ruolo dell’aula, ossia l'unità minima della scuola, spesso rinominata home base per dar seguito a questo cambio di intendimento. Assieme a questa ridefinizione di significato, anche gli spazi secondari o accessori hanno assunto nuovi ruoli. Da un punto di vista tipologico quanto incide questo cambiamento nel progetto della scuola? È possibile riconoscere una continuità o una totale discontinuità con i modelli tipologici precedenti?
Dal punto di vista tipologico, una scuola è un sistema di unità didattiche che si ripetono, ma che nel tempo si sono evolute nelle relazioni e nei requisiti. Oltre alle aule, ci sono spazi collettivi come mense, palestre, aule magne e talvolta aree didattiche all’aperto, come orti scolastici o zone protette dal sole e dalla pioggia. I principi di aggregazione e interazione di questi spazi sono molteplici, e proprio in questa varietà risiede la ricchezza dell’architettura scolastica. Oggi la società sta cambiando rapidamente, il Ticino non fa eccezione: le scuole sono sempre più luoghi di incontro tra culture diverse. Questo scenario, tra gli altri fattori, rende indispensabile progettare spazi scolastici flessibili e trasformabili, con aree comuni che favoriscano l’interazione e lo scambio culturale, valorizzando la diversità come un’opportunità.
In ambito scolastico, i progetti con i quali ci siamo confrontati erano per certi versi tutti particolari, dove la tipologia è il risultato di una relazione di sintesi tra tema, pedagogia e valori del contesto. Nel 1998, nell'allora studio Giraudi Wettstein (cfr. Archi 5-6/1998, pp. 42-43 concorso; Archi 4/2002, pp. 42-47 realizzazione), abbiamo partecipato a un concorso per un edificio sperimentale del Campus Ovest dell’Università della Svizzera Italiana. Il concetto d’insieme del Campus prevedeva una sequenza di nuovi edifici tematizzati in relazione a una precisa funzione, legati da un parco urbano. La destinazione originaria dell’edificio era quella di creare postazioni di lavoro informatiche non fisse, un luogo dove gli studenti, al margine delle lezioni, potevano liberamente recarsi per studiare al computer. L’invenzione è l’inversione della tipologia per la quale la circolazione per accedere ai posti di lavoro, anziché centrale come da tradizione, è invertita, cioè organizzata lungo il perimetro dell’edificio per stabilire continuamente un rapporto diretto con il contesto del parco urbano del campus e del fiume Cassarate, collocando gli spazi di lavoro più intimi, al centro della pianta, all’interno di nicchie in legno nelle quali ritirarsi.
Quanto incidono i caratteri del luogo nel progetto degli spazi e della forma della scuola? Quanto prevalgono o modificano l’idea astratta di rapporto tra progetto pedagogico, programma architettonico e idea tipologica? Il luogo ha a che fare con la città o meglio la città influisce su come si struttura il progetto della scuola o l’oggetto singolo tende a prevalere sull’insieme?
Il legame tra pedagogia, architettura e contesto dimostra come questi tre elementi siano in continua interazione e profondamente interdipendenti. Il luogo in cui si insedia una scuola non è mai neutro, ma condiziona le relazioni tra spazi e paesaggio, il suo ruolo nella comunità locale, i ritmi della giornata educativa e delle attività che seguono l’orario scolastico. Progettare una scuola significa quindi ascoltare il territorio, condividerne la quotidianità, comprenderne le caratteristiche fisiche, sociali e culturali, e trasformarle in valori attivi. Il luogo e la sua storia hanno così un ruolo determinante nel progetto scolastico. Ritengo che ogni traccia lasciata nel tempo, se selezionata per il suo valore, rappresenti l’opportunità di generare relazioni che a loro volta garantiscono una «continuità» culturale. Per quanto si possa avere un’idea astratta e ben definita di progetto pedagogico, del programma architettonico o di una tipologia scolastica, è sempre lo spazio concreto, con la sua storia, la sua luce, i suoi limiti e le sue possibilità, a fare sì che ogni progetto di scuola sia unico. Le preesistenze, all’apparenza, possono sembrare dei limiti; di fatto sono l’esatto contrario: rappresentano opportunità, un valore aggiunto che nei «non luoghi» non ci sarà mai.
Ogni luogo è parte di una città e quindi di un territorio, così come le scuole sono edifici destinati alla collettività e quindi punti di riferimento per la vita sociale e culturale. La scuola è una città e la città è scuola: dovrebbe esserci una costante interazione fra scuola e città e viceversa. Per questo la scuola è un progetto urbano, oltre che pedagogico, che dovrebbe nascere dalla lettura della città, dalle peculiarità e priorità del contesto. Fra il 2007 e il 2017, con lo studio Giraudi Radczuweit e insieme ai colleghi Durisch Nolli, ci siamo occupati della ristrutturazione e ampliamento del comparto scolastico di Nosedo a Massagno (cfr. Archi 3/2020, pp. 46-51), risultato di un concorso pubblico. Alla base del progetto abbiamo posto la scuola esistente, realizzata fra gli anni Sessanta e Settanta dall’architetto Alberto Finzi, fondato sulle relazioni con un luogo caratterizzato da spazi verdi e da un’idea di trasparenza dove il bambino può in ogni momento relazionarsi verso l’esterno. Così, il primo passo del progetto di adeguamento alle più moderne esigenze pedagogiche è stato la presa di coscienza dei concetti già esistenti sia in ambito pedagogico che architettonico cogliendone i potenziali già presenti. Il progetto è il risultato di una lettura ampliata del territorio di Massagno, proprio per completare e rafforzare l’identità del comune. È un progetto che nel concetto appartiene al suolo, ai livelli del terreno, una trasformazione del «paesaggio costruito» fatta di spazi interni ed esterni, piccoli e grandi, che si adagiano su diversi livelli in continuità. L’intento era proprio quello di «accompagnare» il territorio conquistando nuovi spazi, ampliando i percorsi e collegando nuovi luoghi, in stretto dialogo con riferimenti vicini e lontani nel paesaggio.
Infine, vorrei parlare del carattere dell’architettura della Scuola, della riconoscibilità della sua forma e della sua immagine architettonica per una comunità di abitanti, sviluppando una cultura architettonica e una cultura del costruire. Quali sono i caratteri che emergono da questo rinnovamento? È ancora possibile parlare nel progetto della ricerca del carattere dell’architettura della Scuola o è meglio parlare di caratteri? E in questo senso intendiamo variazioni o alternative di modelli scolastici?
L’architettura delle scuole ha il potenziale di trasmettere un’identità; sono luoghi pubblici che devono essere riconoscibili come tali e devono comunicare un ruolo attivo nella comunità. La forma, i materiali, gli spazi, la luce, i colori e la disposizione degli ambienti dovrebbero essere pensati in modo da suscitare emozioni. In altre parole, l’architettura dovrebbe essere in grado di suscitare una reazione che vada oltre la sola funzione. Questi obiettivi si misurano nello spessore di un progetto di scuola. Negli anni Settanta e Ottanta un’idea di scuola era forte e presente, mentre oggi il Ticino, credo, che fatichi a rinnovarsi, nascondendosi dietro l’attenzione alle tematiche ambientali, che invece di stimolare l’innovazione vengono usate come giustificazione per soluzioni efficienti ma standardizzate e ripetitive, senza dialogo con il luogo e la comunità, al punto che mi chiedo se siano architetture pensate per l’uomo.
Il punto è quindi interrogarci sulla cultura che alimenta il tema della scuola e su quali siano i caratteri del rinnovamento. Questa cultura era presente negli anni Settanta e nel successivo ventennio, quando i cambiamenti erano vivi e motivanti e il senso del progetto architettonico non era solo il problema funzionale, ma il suo «secondo significato», cioè il senso nel luogo e l’idea trainante di un «paesaggio costruito» dalle scuole alle autostrade. Oggi affermerei che siamo in una fase involutiva. La reale impressione è che in Ticino la necessità di una buona architettura non venga più riconosciuta; viene sollevata solo in qualche normativa e, fortunatamente, queste norme esistono.
Mi risulta difficile parlare di un carattere dell’architettura della scuola. Una scuola non può avere un carattere, ma ne avrà diversi che saranno ordinati secondo un filo conduttore coerente ma diverso in ogni situazione. Questo perché ogni scuola, ogni progetto, ogni luogo porta con sé condizioni diverse, risolte e ordinate secondo valori differenti che vanno interpretati, trasformati e restituiti con precisione. L’idea stessa di partire da un foglio bianco non è un esercizio di forma, ma una questione di responsabilità verso il contesto e il bene collettivo. In questo senso, parlare di caratteri significa accettare la complessità e rinunciare a una forma di identità architettonica unica, rigida, assoluta. I caratteri di una scuola devono mutare in base al contesto urbano o naturale, alla scala territoriale, al tipo di comunità locale e alla visione pedagogica. È proprio da questa pluralità che può nascere un’architettura scolastica capace di innovare, con spessore e significato.
C’è una sottile differenza se si parla di variazioni o alternative di modelli scolastici, per me subito sensibile. Se per modello si intende una struttura tipologica rigida, uno schema replicabile, allora parlare di varianti mi lascia sempre un po’ perplessa: si intenderebbero forse modifiche minime di una medesima base che resta invariata. Questo approccio finisce per produrre architetture scolastiche ripetitive, senza spessore, incapaci di rispondere davvero al luogo, alla comunità, alla visione pedagogica, se non con adattamenti schematici. In questo senso, più che cercare «alternative di modelli», io credo nella capacità di ogni progetto di generare una risposta unica per aderenza e pertinenza di condizioni e valori che ogni volta sono diversi e quindi, nella sintesi del progetto, sono anche sempre diversi.