L’ar­chi­tet­tura come stru­mento di pace

Intervista a Alejandro Aravena

Per la Biennale Architettura, il Premio Pritzker Alejandro Aravena ha proposto un padiglione – ospitato all'Arsenale, nella sezione «As Emerging Communities» – che è un invito concreto a negoziare la pace tra cileni e mapuche: l'architettura si fa, qui, mediazione politica. Silvia Berselli ne ha parlato con lui.

Date de publication
03-06-2021

L’architetto cileno Alejandro Aravena (1967) ha un legame preferenziale con Venezia, dove ha seguito i corsi post-laurea dello IUAV e l'Accademia di belle arti. Leone d'Argento all'XI Biennale di Architettura, nel 2016 è curatore della XV, che intitola «Reporting from the front» nell’intento di ampliare gli orizzonti del progetto, includendovi questioni sociali, politiche e ambientali che sono al centro della sua ricerca e della sua produzione. Nello stesso anno riceve il Pritzker Prize, a cui fanno seguito numerosi altri riconoscimenti, tra cui il RIBA Charles Jencks Award nel 2018, dedicato a un contributo eccezionale in grado di unire teoria dell’architettura e pratica progettuale. Professore all'Università Cattolica del Cile dal 1994 a oggi e all'Università di Harvard dal 2000 al 2005, dal 2006 è il direttore esecutivo di Elemental S.A., organizzazione con fini sociali che realizza progetti flessibili ed evolutivi per alloggi, spazi pubblici e infrastrutture.

Incontriamo l’architetto negli spazi del suo padiglione, costruito all’Arsenale di Venezia: si tratta di una struttura in legno dal profumo esotico e intenso, costituita da una serie di cavalletti disposti in cerchio e rastremati verso l’alto, una rielaborazione di forme costruttive della tradizione mapuche. La struttura genera all’esterno una galleria ad anello impiegata come spazio espositivo e all’interno una piazza circolare.
 

espazium – Architetto, siamo a distanza e all’aperto, può togliere la mascherina.

Alejandro Aravena – Posso, ma non voglio. Se tolgo la mascherina, questo gesto viene visto in Cile e interpretato come una prevaricazione, una mancanza di rispetto delle regole comuni. Il risultato è che si perde la simmetria di potere, portando al fallimento della negoziazione che stiamo avviando. Noi architetti non dobbiamo approfittare della nostra situazione, ma rimanere sullo sfondo, perché i protagonisti hanno una storia così complicata che basta un niente a rovinare un lavoro basato su equilibri delicati. In questo momento storico il Cile presenta un clima politico molto sensibile, perché stiamo votando i rappresentanti incaricati di redigere una nuova Costituzione a sostituzione di quella vigente, scritta durante la dittatura e non più in grado di rappresentare le regole per vivere insieme. Forse in questa situazione togliere la mascherina può essere legale, ma non è legittimo, e c’è una grande differenza.

Allo stesso modo, l’intervento che abbiamo proposto alla Biennale richiede una grande sensibilità, perché bisogna sapersi mettere al posto dell’altro e riconoscerne il valore o non funziona nulla. La differenza può essere culturale o economica, ma l’altro viene sempre visto come una minaccia, partendo da presupposti di paura, rabbia, desiderio di rivalsa, e questo non può portare a nulla di positivo.

«Venezia rappresenta il territorio neutrale in cui instaurare un dialogo pacifico – come vuole l’antica tradizione mapuche – tra mapuche e cileni. Mancava un’architettura adatta ad accoglierlo, e noi abbiamo voluto contribuire»

Qual è il programma del vostro intervento alla Biennale e come interpreta le proposte del curatore?

Abbiamo cercato di rispondere al tema generale di questa Biennale, How will we live together?, attraverso un progetto in due fasi che porta alla costruzione di un luogo in cui viene negoziata la pace tra cileni e mapuche. I due popoli hanno un lungo passato di conflitti legati alla questione della terra, scontri risalenti alla fondazione della repubblica nei primi decenni del XIX secolo e recentemente divenuti più intensi. Secondo le tradizioni dei mapuche, per iniziare una trattativa di pace è necessaria una minima simmetria di conoscenza tra le parti: prima di andare al tavolo di negoziazione bisogna conoscersi reciprocamente. I mapuche conoscono i cileni, mentre i cileni non hanno idea di chi siano i mapuche, quindi la prima fase del progetto ha portato alla costruzione di un centro culturale nel sud del Cile, con alloggi, uno spazio per le cerimonie e uno per il gioco. I mapuche pensavano a un grande edificio, ma noi abbiamo proposto una piccola città, che in quanto tale richiedeva un atto di fondazione. Per questa cerimonia abbiamo concepito un’architettura basata su tracce di elementi rituali, che abbiamo chiamato Künü, ovvero il luogo in cui intraprendere un percorso di reciproca conoscenza.

Il video ufficiale del progetto

Creati i presupposti per avviare le trattative di pace, siamo passati alla seconda fase costruendo alla Biennale questo edificio destinato ad ospitarle. Venezia rappresenta il territorio neutrale in cui instaurare un dialogo pacifico, come vuole l’antica tradizione mapuche: c’è un “parlamento”, il Koyaü-we (luogo in cui mettere a frutto), un incontro testimoniato dalla storia orale e da incisioni storiche che abbiamo raccolto in questo padiglione. L’incontro avveniva nella natura; mancava un’architettura adatta ad accoglierlo, e noi abbiamo voluto contribuire a questo riavvicinamento tra i due popoli usando il progetto come un’opportunità per rendere tangibile questo avvenimento. Speriamo che nell’arco di tempo di apertura della Biennale la condizione pandemica migliori e sia possibile viaggiare, in modo da iniziare qui le trattative; in ogni modo il padiglione verrà smontato al termine della mostra e verrà rimontato in Cile per continuarle.

«In questo spazio esploreremo un percorso alternativo alla violenza, portando al tavolo delle trattative i soggetti coinvolti: un’organizzazione territoriale mapuche e un’impresa forestale cilena che vivono nello stesso luogo»

Cosa accadrà in questo spazio?

Esploreremo un percorso alternativo alla violenza, portando al tavolo delle trattative i soggetti coinvolti: un’organizzazione territoriale mapuche e un’impresa forestale cilena che vivono nello stesso luogo, vogliono restarvi e hanno sofferto lunghi scontri inefficaci generati da conflitti di interessi. Lo scontro non ha risolto il problema, pertanto i due popoli hanno accettato di avviare trattative pacifiche per arrivare a una convivenza non violenta. 

All’interno dello spazio circolare era prevista una seduta perimetrale, che doveva essere realizzata intrecciando una corda sui supporti in legno che ora sporgono dalla struttura e hanno perduto la loro funzione. A causa dell’emergenza sanitaria questo elemento non è stato realizzato per evitare assembramenti, ma verrà reintrodotto in Cile, come elemento funzionale e allo stesso tempo simbolico, rappresentazione di un’assemblea che sceglie di sedersi vicino per conoscersi e decidere le regole per vivere insieme domani. 

Per conoscere meglio il lavoro di Elemental rimandiamo al volume di Alejandro Aravena, Gonzalo Arteaga, Juan Cerda, Victor Oddó e Diego Torres, Elemental: The Architecture of Alejandro Aravena, Phaidon, 2018.

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