Re­cen­sione a «Louis Kahn e Ve­ne­zia. Il pro­getto per il Pa­lazzo dei Con­gressi»

Catalogo della mostra al Teatro dell'architettura di Mendrisio, 2018

Date de publication
08-04-2019

Louis Kahn a Mendrisio

Nella letteratura architettonica esiste un genere di studi interamente incentrati sulla genesi di un singolo progetto, realizzato o meno. In ogni caso le strade che si possono intraprendere in questa direzione sono sostanzialmente due: la prima è quella degli storici dell’architettura, volta a riportare alla luce uno dei tanti «sentieri interrotti» novecenteschi. La seconda strada è invece quella intrapresa sull’onda di un’ossessione critica volta a legittimare la propria idea di architettura che è il caso di Peter Eisenman e del suo studio sulla Casa del Fascio di Como di Giuseppe Terragni,1 ma anche, in tempi più recenti, quello su Mies van der Rohe di Herzog & de Meuron.2

Il volume Louis Kahn e Venezia. Il progetto per il Palazzo dei Congressi e il Padiglione per la Biennale costituisce una terza via fra le due, perché è curato da due storici, Elisabetta Barizza e Gabriele Neri, che con le loro analisi circostanziate e differenziate bilanciano il saggio di apertura di Mario Botta, che è ovviamente il deus ex machina di tutta l’operazione. Bisogna tenere conto del fatto che il volume ha accompagnato la mostra omonima dove sono stati esposti per la prima volta tutti i materiali (schizzi, disegni, documenti, modelli ricostruiti) di circa mezzo secolo fa e che per l’occasione è stato inaugurato ufficialmente il Teatro dell’architettura, vale a dire lo spazio museale che completa il disegno del campus dell’Accademia di Mendrisio. Capita di rado di poter vedere una mostra dedicata a un solo progetto, potendone apprezzare da vicino tutte le evoluzioni e i ripensamenti in corso d’opera. Capita ancora più raramente che l’oggetto della mostra abbia influenzato la progettazione, per quanto indirettamente, dell’edificio stesso in cui è esposto come una reliquia. Nonostante il forte legame d’affezione rivendicato da Botta verso questo progetto kahniano e la sua volontà di ampliarne l’orizzonte critico dopo molti anni di oblio, i curatori hanno potuto offrire degli approfondimenti in linea con le proprie ricerche personali: Barizza ricostruendo il rapporto di Kahn con Venezia fin dalla sua giovinezza dopo aver in passato approfondito quello con Roma;3 Neri, in linea con i suoi studi sui rapporti fra architettura e ingegneria, ha messo invece in risalto la figura avventurosa di August Komendant (il quale lavorò fra l’altro agli ordini del generale Patton), strutturista estone di nascita e docente alla University of Pennsylvania, dunque legato da rapporti di natura professionale e biografici al maestro di Filadelfia con cui discuteva senza complessi d’inferiorità. Il volume, che per via della gabbia tarata sulla doppia lingua spesso sacrifica a un piccolo formato le illustrazioni, è impreziosito da due saggi conclusivi di Werner Oechslin e Fulvio Irace, quest’ultimo dedicato all’enorme influenza esercitata da Kahn sull’architettura italiana in generale e su quella romana in particolare – si veda il progetto di Ludovico Quaroni per le barene di San Giuliano a Mestre (1959) o il disegno di Franco Purini e Laura Thermes scelto per la copertina di Teorie e storia dell’architettura di Manfredo Tafuri (1968).

Ad ogni buon conto, la qualità migliore del volume consiste nel dialogo fra storici e progettisti, vale a dire fra gli scholar – che solitamente dialogano esclusivamente tra loro stessi – e un architetto come Botta che è doppiamente parte in causa sia come allievo di Kahn sia come mentore dell’Accademia di Mendrisio. Si ricrea così un contesto analogo a quello veneziano degli anni Sessanta, quando Bruno Zevi e Giuseppe Mazzariol discutevano di storia con Carlo Scarpa e Giuseppe Samonà senza rinchiudersi all’interno del proprio steccato disciplinare, tanto da impegnarsi anche sul piano politico e rivestire cariche pubbliche autorevoli. In tal modo esercitavano un’influenza netta sulla politica costringendola a consultare i migliori architetti disponibili, ma qui termina l’analogia perché questo circolo virtuoso sarà forse ancora possibile in Svizzera oggi, ma certamente non in Italia.

 

Note

  1. Peter Eisenman, Giuseppe Terragni Transformations Decompositions Critiques, The Monacelli Press, New York 2003; trad. it Giuseppe Terragni. Trasformazioni, scomposizioni, critiche, Quodlibet, Macerata 2004.
  2. Jacques Herzog, Pierre de Meuron, Treacherous Transparencies. Thoughts and observations triggered by a visit to the Farnsworth House, Actar, New York 2016; i testi sono di Herzog e le fotografie della casa di De Meuron.
  3. Elisabetta Barizza, Marco Falsetti (a cura di), Roma e l’eredità di Louis I. Kahn, FrancoAngeli, Milano 2014.

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