Per­cor­re­re il tem­po del­lo spa­zio

"Percorrere lo spazio di tempo nel quale uno ha pensato, sentito, detto e scritto, in un certo momento e in un certo luogo, è un modo di viaggiare, e lo stesso spazio, gli stessi paesaggi visitati in altri tempi diventano un’esperienza diversa, nell’atto del ricordare e del riutilizzare."

Salomon Resnik 

Publikationsdatum
22-02-2016
Revision
29-02-2016

La riflessione di Salomon Resnik narra la genesi e la realizzazione della mia personale al Museo Cantonale d’Arte nel febbraio del 2013. Quando mi è stata proposta ho pensato a una mostra dove avrei potuto non solo esporre la mia produzione artistica degli ultimi dieci anni, ma ripensare a quei lavori in termini di spazio. Le mie opere, una accanto all’altra, potevano diventare, dunque, un’unica e complessa installazione della quale il visitatore stesso entrava a far parte. Erano loro che chiedevano di diventare spazio. In quel momento ho sentito la necessità di pensare a un lavoro nuovo, intriso di tridimensionalità.

Il Museo Cantonale è da questo punto di vista ideale. Già nel 2000 l’ala est aveva ospitato un’eclissi composta da sessantasei elementi, ciascuno di due metri per un metro e sessanta, montata in modo da comporre un viaggio. Lo spazio espositivo, stretto e lungo, era letteralmente invaso dall’opera, come se si fosse improvvisamente contratto. Ogni quadro segnava il lento crescere o decrescere del nero rispetto all’argento, e il costante mutare della loro proporzione nello spazio. La prospettiva suggerita dall’installazione conduceva a due pannelli, collocati sulla parete di fondo, in cui l’equilibrio perfetto tra le parti non era dato, come se l’unicità non potesse essere mai esplicitata. Lo spettatore procedeva a zig zag, costretto ad adeguare il passo e perfino il respiro al ritmo della mia opera.

Ancora tredici anni dopo, nella nuova mostra, il Museo non è un vuoto che l’artista deve riempire, ma uno strumento che offre al visitatore l’opportunità di guardare se stesso mentre guarda, ascolta, si sposta, pensa e, in ultima analisi, è.

Il Museo, fin dalla sua inaugurazione, ha sempre rappresentato per me il luogo dove gli artisti, con i loro lavori, mi hanno permesso di amare, gioire, emozionarmi e soffrire. Ogni parete era legata al ricordo di uno sguardo, di un’emozione: nulla era neutro per me. Ma questa volta toccava a me, era l’occasione per costruire un percorso che, oltre alla cronologia, potesse offrire uno stimolo per viaggiare in più direzioni all’interno del mio lavoro, in modo da definire nuove relazioni tra le mie opere e generare quindi nuove visioni.

Ho allestito la mostra occupando interamente i tre livelli del Museo, come se fosse un’opera unica, che richiedesse un’attenzione particolare per oltrepassare la soglia del visibile.

L’osservatore era partecipe delle relazioni che si creavano tra le opere esposte, come pure con i pensieri di altre discipline, citati nei lavori e sottolineati dall’allestimento. La mostra è stata progettata in modo che il visitatore potesse procedere tra le opere nella consapevolezza, rischiosa, di dover mutare, anche più volte, il punto di vista. Giunti all’ultima sala questa modalità sarebbe stata manifesta, dovendo ripercorrere a ritroso il percorso espositivo per uscire. Non era un tornare sui propri passi, piuttosto l’opportunità di rileggere il succedersi delle stanze, attraverso nuove soste e nuove interpretazioni.

Ho posto la questione dell’imitazione del reale fin dall’inizio del percorso esponendo un pappagallo, l’animale che riproduce suoni memorizzati e combinati, l’uno con l’altro, secondo meccanismi associativi. Ma l’arte è cosa diversa: è l’elaborazione complessa della realtà, è l’atto necessario per la sublimazione del dato reale in un pensiero del mondo. Il vero ingresso alla mostra era dato quindi da una soglia da oltrepassare, costituita da un’immagine sdoppiata, in modo speculare, di un elemento vegetale. Era un’immagine ingannevole, due Ali (2010) tra le quali il visitatore era costretto a procedere. Una metafora del passaggio dal livello terreno a quello dell’immaginazione.

Una foto intitolata Pattinatrice, del 1967, un particolare preso da un collage di Jiri Kolar, ingrandita e stampata su tre lastre di alluminio, era posta su una parete in tre modi diversi: verticale, orizzontale e rovesciata. La pattinatrice e la sua ombra, nel suo movimento lineare, disegnavano sul ghiaccio un otto, che ruotato diventava simbolo dell’infinito per poi ritornare, dopo un’altra rotazione, a essere un otto, ma in una posizione diversa. Nel piano terra del museo l’oggetto della mia indagine erano il corpo e il modo in cui il segno cambiava significato. Il corpo genera immagini sia in modo consapevole che inconsapevole: la pattinatrice nel suo procedere nello spazio, i milongheri nelle figure dinamiche del tango, il bambino nello scarabocchio, l’oratore nella sua gestualità inconsapevole. Il pattinaggio era il soggetto, nello stesso piano, di altri due lavori: Arresto e Solido (entrambi del 1994/2012). Il visitatore si trovava in uno spazio le cui pareti erano composte da quattro gigantografie, immagini tratte da quattro video (Arresto), in cui alcuni giovani rifugiati, fuggiti nel 1994 dalla guerra nei Balcani, venivano ripresi nel loro incerto muoversi sul ghiaccio. I video rimandavano senza sosta le stesse immagini, fissandole in un presente senza tempo. I giovani erano anche i soggetti del lavoro esposto nell’ultima stanza del pianoterra. Ma qui il visitatore poteva solo affacciarsi da una finestra che sostituiva la porta, e guardare i giovani ritratti al di là di un’identica finestra nella fotografia appesa sulla parete di fronte. Nella stanza era percepibile un riverbero luminoso e il suono ripetitivo di un televisore che trasmetteva una sessione di tango. Esclusi era invece un’elaborazione dell’evento inaugurale della mia personale Percorsi, che fu messa in scena nella Villa Pavone di Lottigna nel 2003.

Il visitatore veniva accolto al primo piano da un video, necessario collegamento tra i due livelli. Mani, senza sonoro, presentava la gestualità, ripetuta e compulsiva, delle mani di Robert Wilson colte durante una sua conferenza a Zurigo nel 1980. L’opera metteva in evidenza la possibilità che il corpo si liberi dai logici freni comportamentali. Nella stanza adiacente campeggiava la foto di una giovane donna velata, la parola Lasciami risuonava, ripetuta continuamente, in un altro piccolo quadro erano dipinti su un lato il tempo infinito sbagliare, e sull’altro l’imperativo sbaglia. Il dolore latente degli Esclusi veniva introdotto in quest’ultima stanza, coincidente al pianoterra con il tema della mancanza e della perdita. La parete vetrata dello spazio centrale del piano era coperta da un tendaggio sul quale era riprodotto un segno continuo, la cui matrice era il Concetto Spaziale del 1951, realizzato in neon da Lucio Fontana per la IX Triennale di Milano. Il mio lavoro, dal titolo Ghirigoro Scarabocchio, era la prosecuzione iconografica dei segni sul ghiaccio del piano inferiore. Anche le tre formelle monocrome, poste di fronte alle grandi finestre, si prestavano a nuove riflessioni sui rapporti cromatici e sulla composizione della luce presenti nella mia precedente opera Eclissi, nell’ala est del Museo. I tre piccoli monocromi introducevano il visitatore nella stanza intitolata Cuore, fulcro pittorico della mostra. Avevo dipinto sulle pareti tre ampi rettangoli con tre colori secondari – viola, verde, arancione – e simmetricamente avevo collocato sei lavori, ognuno di un metro quadrato, proposti in tre dittici, sui quali avevo dipinto tre coppie di parole: image/magie, dolore/colore e tesori/storie: emergevano dalla pittura monocroma rivelata dal riflesso della luce colorata, e il binomio colore parola si fondeva nell’opera assumendo una marcata spazialità.

Il percoso proseguiva con l’invito al visitatore a rinnovare l’uso del corpo come strumento percettivo, per essere artefice e partecipe – con l’opera Sguardi – del meccanismo della visione messo in atto da un lavoro composto da un quadro luminoso, privo di qualsiasi immagine, e da una moltitudine di piccoli visori colorati nei quali erano riprodotti dei collages digitali, combinazioni di fotografie tratte dalla mia storia privata. Il visitatore era invitato, anche nelle due stanze successive, a esercitare la visione monoculare, propria dell’osservazione degli astri, del microcosmo naturale e del campo fotografico, indirizzando l’immagine interna al visore verso la luce di altrettante scatole luminose. L’analisi della collocazione delle opere rivelava il disegno di ipotetiche costellazioni, questa volta non bidimensionali come in altre mie installazioni, ma tridimensionali. Il ripetersi di immagini, parole, colori, temi, insieme ai riferimenti più nascosti e trasversali, mettevano in comunicazione tutti i lavori, ponendo il visitatore nella condizione di usare l’immaginazione per proporre nuove associazioni. Un esempio di controcampo spaziale era dato da una fotografia a colori di giovani alla finestra, connessa con quella simile presente nella Stanza degli Esclusi al pianterreno; la ragazza aveva il capo reclinato sulla spalla del compagno e sembrava indicare un momento di riposo, ma anche una fuga nell’universo onirico, dove l’immaginazione è meno vincolata e controllabile. Nell’ultima stanza del piano, l’opera intitolata Città presentava ancora parole abbinate a ipotetiche mappe dipinte. La mia intenzione era quella di proporre un cambio di prospettiva. L’osservatore era invitato a toccare l’opera intitolata Prière de toucher, composta da quarantanove elementi differenti, disposti a comporre una cittadina, con strade e vedute urbane. L’immagine immediata che le forme bianche poste sul tavolo proponevano era quella di una città, dove l’aspetto vagamente nordafricano contrastava con il rigore della disposizione viaria. Lo sguardo poteva cercare identificazioni delle forme in edifici religiosi, templi, case e capannoni, come in un gioco di simulazione su un plastico per bambini. Il contatto tattile rivelava però l’aspetto fallace dei calchi di elementi del packaging commerciale, e rimarcava la mancanza dell’oggetto del desiderio consumistico, riconducendo la scultura all’atto di semplice riproduzione, attuata mediante la meccanicità dello stampo. 

Assenze e vuoto erano trasformati in volumetriche presenze le cui valenze metafisiche accentuavano la distanza dall’oggetto reale.

Mentre il corpo era invitato al contatto, lo sguardo dal di fuori, reso possibile dalla conquista dello spazio evocato dalla scienza e dalle discipline meditative, diventava condizione prima della lontananza, intesa come condizione di perdita di un univoco modello ideale di riferimento. La banalità del calco di ciò che era oramai inutile scarto metteva in moto il meccanismo, e il semplice rovesciamento della forma mimetica. 

La prima stanza del secondo piano era posta in corrispondenza con quelle che, nei piani inferiori, ospitavano Esclusi ed Errare, e presentava ancora immagini di Ragazzi, opere realizzate in relazione al mio lavoro di psicopedagogista all’interno dei laboratori di Fare storie. L’opera intitolata Sedia era composta da ventotto stampe identiche di una fotografia dello studio dove venivano ricevuti i ragazzi, nel quale era presente una sedia appesa al muro. Sotto ogni fotografia era trascritta la frase pronunciata da altrettanti ragazzi o ragazze a commento della presenza della sedia sulla parete. L’idea dell’opera era quella di misurare la distanza tra il gesto che mima l’atto artistico – la sedia decontestualizzata e non più funzionale – e lo sguardo vergine e spontaneo dei ragazzi, che di fronte alla realtà modificata avevano le reazioni più varie, dalla sorpresa all’indifferenza. Nella stanza erano anche presenti alcuni disegni della serie Se ti ritrai, io ti ritraggo, prodotti sempre all’interno dei laboratori, così come uno spezzone del film di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino si prestava a creare un confronto con la tecnica proposta all’interno del metodo. La grande vetrata del secondo piano accoglieva anche in questo caso un’opera che, come quelle dei piani inferiori, Pattinatrice e Ghirigoro Scarabocchio, era l’elaborazione di un disegno, in questo caso quelli presenti in Ismaelis Bullialdi De lineis spiralibus demonstrationes novae del 1657, che a sua volta riprendeva il famoso Archimedis de lineis spiralibus. Lo studio della spirale proponeva il sottile rapporto tra pensiero scientifico e realtà, il rispecchiamento di uno nell’altra e il trovare la misura tramite l’esercizio di un’esperienza. La forma sferica, presente nei disegni spiraliformi, introduceva nella sala centrale del piano con opere raccolte nel titolo 10 sfere.

Dieci erano infatti le sfere presenti nello spazio. Di differente misura, otto appartenevano al lavoro L’immagine del mondo è nella mia mente?, presentato a Martigny nel 2008. 

Catene di parole erano adagiate su sfere specchianti: si trattava di una trentina di domande che non richiedevano risposte, fatti che assumevano una consistenza oggettuale che contrastava con il loro essere poste su immagini cangianti e instabili del mondo reale. Una nona sfera era presente in una gigantografia nella quale mi ponevo all’interno di un noto quadro di Magritte, La baigneuse du Clair au Sombre del 1935-1936. La decima sfera era presente come astro – luna o sole – nella marina presente nella fotografia e nel quadro di Magritte alle spalle del nudo femminile. Nella stanza era pure presente un piccolo quadro bianco, nel quale il numero 10 si poteva interpretare come il pronome personale IO. 

L’atto del corpo necessario nel passaggio dal concetto al pronunciamento fisico della parola era presente nelle tre opere Respiro, che concludevano un percorso segnato dal richiamo all’atto del respirare anche come gesto del corpo presente nell’attività sportiva, nel ballo, nella recitazione e nel verso mimetico dell’animale. 

Nell’opera Biancospino (2002) si presentava la scrittura della parola con l’ombra per introdurre il tema già trattato in Pattinatrice: è l’ombra che richiama la nascita della pittura. Plinio il Vecchio narra che la pittura ebbe origine quando una donna, per conservare la memoria dell’amato, tracciò il profilo dell’ombra proiettata dal suo viso sul muro. La questione dell’ombra introduceva alla stanza successiva, dove era esposta l’opera Enoisullillusione, il palindromo che dava il titolo alla mostra. 

Sul pavimento un trenino elettrico, dal moto continuo e circolare, sui cui vagoni avevo collocato le lettere del palindromo che veniva svelato proprio dall’ombra proiettata sulle pareti. L’opera si poteva interpretare come un invito alla consapevolezza dell’illusione, che permette di superare la tragedia e la paura. La stessa intenzione era presente nella stanza finale della mostra, dove l’opera Recitare la paura era un semplice spazio bianco, rischiarato da una luce diffusa posta oltre un muro. Un piccolo quadro, con le parole man weiss, era esposto accanto a un testo, recitato da una voce maschile con echi, ripetizioni ed effetti spaziali, che il visitatore poteva ascoltare in cuffia. La frase iniziale era ripetuta alla fine da una voce falsamente infantile che ne modificava il senso, invertendone l’interpretazione. L’ironia permetteva il rovesciamento del senso, rendendo possibile lo sguardo già richiamato nelle opere Viceversa e Città, presenti nei piani inferiori.

Ripercorrendo la mostra a ritroso, il visitatore poteva riappropriarsi del mondo fino all’iniziale, ormai disillusa, mimesi.

Camminando a destra e sinistra e guardando sopra e sotto, dal 2011 a oggi.

 

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