Fuori e dentro la montagna
Muri di calcestruzzo, architettura per la roccia
Nel rivolgersi alla comunità professionale degli architetti e degli ingegneri elvetici è certamente scontato osservare come il confronto con la pendenza rappresenti una questione progettuale complessa, che implica innanzitutto una profonda conoscenza del sito in cui s’interviene. Pertanto, è assodato considerare le fasi di raccolta dei dati inerenti alla natura geologica del terreno o di rilievo del suo profilo non come preliminari all’avvio del processo creativo e ideativo, ma quali sue componenti imprescindibili. Oltretutto, il progettista, quando è messo di fronte all’inserimento di un’architettura o di una infrastruttura su di un balzo di quota, non deve possedere solamente un bagaglio di informazioni tecniche tali da consentirgli di prendere decisioni coerenti col sistema di costruzione che si prefigura di adottare, ma ha soprattutto il compito d’integrare e applicare queste conoscenze in relazione a una sua soggettiva sensibilità nell’interpretazione dei luoghi che si accinge a trasformare. In questi termini, risulta ancora di grande attualità quanto ha affermato Vittorio Gregotti nel 1966 all’interno del suo scritto-manifesto Il territorio dell’architettura, ovvero che «dal punto di vista dell’architettura, il progetto è il modo con cui vengono organizzati e fissati, in senso architettonico, gli elementi di un certo problema»: tali elementi «sono stati scelti, elaborati e intenzionati, attraverso il processo della composizione, sino a istituire fra essi nuove relazioni il cui senso generale (strutturale) appartiene, alla fine, alla cosa architettonica, alla nuova cosa che noi abbiamo costruito per mezzo del progetto».1
La «cosa» che progettiamo e costruiamo per coprire un dislivello solitamente prende la forma dell’architettura solo dopo aver declinato sul piano strutturale, formale e compositivo un elemento che può considerarsi come fondativo: il muro di contenimento. Esemplari e paradigmatici, se letti criticamente in questi termini, sono i due setti in calcestruzzo a facciavista, inclinati e modellati a grandi pieghe così da far emergere dei contrafforti, progettati e realizzati da Pier Luigi Nervi a sostegno della scarpata ferroviaria alla stazione di Savona. Seppur figli, sul piano formale, delle celebri facciate progettate dallo stesso Nervi (insieme a Marcel Breuer e a Bernard Zehrfuss) per l’auditorium della sede dell’UNESCO a Parigi, si tratta di episodi costruttivi assai poco noti, tanto che per molti anni sono stati sepolti al di sotto di un fitto e incontrollato strato di vegetazione rampicante. Essi esprimono con grande chiarezza come l’elemento muro possa, di per sé, essere identificato come una vera e propria forma di architettura: non solo per la sua proprietà di originare una superficie ornata dai solchi e dalle impronte lasciate dalla cassaforma, ma in quanto vero e proprio generatore di spazio grazie alla sua peculiare configurazione tridimensionale.
Le grandi pendenze che caratterizzano diffusamente il territorio svizzero sono, pertanto, in grado di mettere alla prova con grande frequenza l’elemento muro nel rapporto che sussiste tra il suo ruolo formale e compositivo all’interno dell’organismo architettonico complessivo e i fattori costruttivi che ne determinano una sua effettiva realizzazione nello specifico contesto. Due celebri esempi, ormai ascrivibili a pieno titolo a pietre miliari della cultura progettuale elvetica, esemplificano due strategie progettuali connesse alla necessità di far fronte a una differenza di quota. I formalismi e i dispositivi spaziali esibiti attraverso le sequenze di setti che definiscono la successione di gradoni nel complesso residenziale terrazzato del quartiere Mühlehalde a Umiken del Team 2000 (1963-1971) e il sistema di risalita al Castelgrande di Bellinzona di Aurelio Galfetti (1981-1991) possono ormai venire considerate come due forme iconiche d’architettura, oggi ampiamente riconosciute come tali tanto dalla critica quanto dalla storiografia.2 Esempi così eclatanti di buone pratiche progettuali hanno il merito di aver messo a fuoco delle vere e proprie categorie spaziali, costruttive e distributive nella definizione di un’architettura che nasce dalla necessità di relazionarsi con un dislivello. Come conseguenza, essi rappresentano quei precedenti illustri necessari per meglio inquadrare e introdurre l’avvio di un ragionamento critico sul rapporto tra forma e costruzione in altrettanti casi di studio successivi: la stazione radar al Monte Lema di Pietro Boschetti (1991-1993) e il Gletschergarten di Lucerna (2012-2022), quest’ultimo completato da poco su progetto di Quintus Miller, Paola Maranta e Jean-Luc von Aarburg.
Denominatore comune a questi progetti è la ricerca di una relazione materica col suolo risolta per mezzo di un impiego in chiave espressiva del calcestruzzo gettato in opera, lasciato a facciavista. Sulla scia delle riflessioni maturate osservando quanto fatto da Nervi a Savona e, dunque, intendendo l’elemento muro quale componente edilizia potenzialmente in grado di assurgere, da solo, al ruolo di una vera e propria forma di architettura possono così venire sistematizzate due distinte modalità progettuali di porsi nei confronti della montagna. Dunque, se a Umiken e al Monte Lema il muro sancisce la definizione formale complessiva, appalesandosi per le sue peculiarità di farsi apprezzare dall’esterno quale sistema basamentale e dispositivo scultoreo in grado di risolvere questioni strutturali e di distribuzione, tanto a Bellinzona quanto a Lucerna il conglomerato cementizio diventa lo strumento progettuale principe che dà forma a quelle strutture portanti e di rinforzo che permettono d’instaurare un vero e proprio rapporto sensoriale e di sinergia figurativa con la nuda roccia, operando direttamente dall’interno delle viscere della montagna.
Si assiste così a una diversa declinazione del medesimo tema progettuale, che consiste nella risoluzione del rapporto col dislivello attraverso l’esibizione di muri cementizi: la «costruzione di una montagna» (artificiale e gradonata) del Team 2000, il «costruire nella montagna» esplorato dall’ormai celeberrimo intervento di Galfetti, il «costruire in continuità con la montagna» rappresentato dall’edificio-basamento di Boschetti e, infine, il «costruire attraverso la montagna» come ci dimostra il recente intervento di Miller & Maranta.
La concezione della stazione radar è, infatti, la materializzazione in chiave architettonica di un ricercato e rispettoso confronto instaurato da Boschetti col profilo del Monte Lema: un riguardo che prende la forma di un muro severo, anch’esso (al pari di quello di Nervi) dal profilo inclinato, opportunamente sagomato per assumere le sembianze di un bastione cementizio massiccio e allungato, adagiato al di sopra dell’imponente sperone roccioso su cui s’imposta e indirizzato verso la valle sottostante.
Il nuovo monolite, dunque, è costruito in continuità con la cima della montagna e viene posizionato perpendicolarmente alle curve di livello. Sul piano formale (e, successivamente nell’organizzazione del cantiere, pure su quello pragmaticamente costruttivo), è l’esito dell’unione di due volumi che si saldano tra loro: una lama appoggiata sulla roccia per mezzo di una struttura a gradoni (come si evince con chiarezza dalla sezione longitudinale dell’edificio) e un avancorpo a pianta quadrata, rivolto verso valle e ruotato di 45° rispetto all’asse del volume retrostante. Ed è proprio questa rotazione a fornire, grazie agli effetti di luce e ombra che ne derivano, l’aspetto scultoreo desiderato.
«Guardando il profilo della montagna mi sono subito immaginato l’edificio e, su di una cartolina del Monte Lema, ne ho schizzato direttamente il profilo»,3 racconta oggi Boschetti che rivela di essere giunto a questa soluzione avendo ben chiare in mente le architetture rurali che contraddistinguono i paesaggi della Liguria e della Sardegna. Come ha già scritto Sandra Giraudi, qui «pensare l’ultimo limite fra terra e cielo con il solo riferimento d’una roccia è il tema»:4 un limite che il progettista non vuole superare con la sua architettura, mantenendo il monolite cementizio un metro e mezzo più basso dalla cima della montagna.
Il bastione funge da supporto a un radar meteorologico posizionato a cinque metri al di sopra della vetta, sorretto da una struttura in acciaio e contenuto all’interno di una sfera bianca di protezione.5 La sfera che domina la valle è, dunque, sistemata sulla copertura piana dell’edificio, adibita a terrazza belvedere, a conclusione del sentiero che conduce alla cima del monte. Al di sotto, una sorta di grande muro abitato contiene i quattro livelli destinati ad accogliere tutti i locali tecnici e le attrezzature necessarie al funzionamento della stazione radar: la serie di piccoli oblò posizionati al piano sottostante al belvedere dà luce e aerazione naturale al piano che ospita un piccolo alloggio, completo di cucina, camera e bagno. Gli ambienti interni della stazione radar si pongono dunque come i vuoti esito di un ideale svuotamento, dal di dentro, del grande muro cementizio monolitico: un’impressione alimentata dall’impiego di blocchi BKS di rivestimento, che creano una continuità visiva e materica con le superfici esterne in calcestruzzo a facciavista. Questo processo di erosione interna, seppur simbolico, ben si confà con la pragmatica razionalità con cui sono state distribuite le diverse funzioni, al punto da dover progettare una scala ribaltabile, così da poter utilizzare il medesimo cavedio che la ospita anche per permettere la corsa di un montacarichi.
La costruzione di un tale bastione, posizionato sul pendio della cima di una montagna ha comportato la gestione di un cantiere assai complesso, durato circa un anno e condotto da esperti operai valtellinesi. Per il trasporto dei materiali da costruzione, l’impresa ha allestito una teleferica temporanea che partiva dal fondovalle da uno slargo della strada cantonale che collega Novaggio con Miglieglia, giungendo direttamente (grazie all’installazione di un solo appoggio intermedio) ai piedi dello sperone roccioso su cui s’imposta l’edificio; un elicottero ha invece portato una betoniera sulla vetta. Tutto il calcestruzzo è stato così confezionato in altura. Proprio con l’obiettivo di ferire il meno possibile la montagna con lo scavo delle fondazioni, il progetto ha previsto la realizzazione di quattro strutture gradonate: esse corrispondono ai livelli interni dell’edificio, che seguono il naturale declivio della montagna; i tondini d’armatura sono stati tra loro saldati, a formare una «gabbia di Faraday» che convoglia a terra le scariche elettriche dei fulmini catturate direttamente dal corrimano in acciaio inox posizionato a coronamento del parapetto della terrazza belvedere.
Anche l’apparato ornamentale dell’edificio è pensato in linea col pragmatismo che ha guidato l’intero progetto e corrisponde, sostanzialmente, con le impronte lasciate dalle casseforme sul calcestruzzo indurito. Visto da lontano, il grande muro continuo ripiegato nella forma del bastione si manifesta come scolpito orizzontalmente da tre solchi continui orizzontali che corrispondono alle linee di ripresa di getto e ai giunti di dilatazione della struttura. Unico vezzo espressivo può considerarsi la messa in rilievo della fascia marcapiano dell’ultimo solaio, a sezione triangolare, fatta fuoriuscire di qualche centimetro dal piano inclinato del muro, con l’obiettivo di creare una linea d’ombra più marcata: un espediente compositivo certamente opportuno per definire un coronamento all’edificio e meglio identificare il limite verso il cielo di questo sperone di roccia artificiale.
Le stesse impronte lasciate sul calcestruzzo indurito dalle commettiture tra i diversi pannelli che formano la cassaforma, inclinate però di 55° rispetto all’orizzontale, contribuiscono a rivelare il diverso rapporto instaurato dallo studio Miller & Maranta con la roccia arenaria di Lucerna per la costruzione della nuova risalita al Gletschergarten. L’intervento completa il parco di un museo, sorto nel 1873 a seguito del fortuito rinvenimento di singolari voragini nella roccia, divenute presto una vera e propria attrazione turistica: si tratta delle marmitte glaciali a tutt’oggi visibili percorrendo lo spazio aperto d’ingresso, che anticipa un caratteristico fabbricato costruito seguendo i dettami dello «stile svizzero» dell’epoca, e che contiene sequenze di Wunderkammer nelle quali sono esposti cimeli, carte topografiche e grandi modelli dei rilievi montuosi elvetici.
Nell’ottica di rivitalizzare l’intero complesso, Miller & Maranta progettano un vero e proprio dispositivo architettonico, contenuto all’interno della ripida parete rocciosa del parco, con l’ambiziosa finalità di rendere percettibile una storia geologica locale lunga ben 20 milioni di anni: «l’idea di ricavare un vuoto da un pieno ha origini ancestrali, ma in questo caso è il calcestruzzo armato che agisce da medium, guidando i sensi attraverso il labirinto di camere che prelude al pozzo verticale la cui risalita verso la sommità, e la luce, carica di ulteriori significati l’esperienza del ritrovato orientamento»,6 ha scritto Federico Tranfa. Il tema progettuale è, infatti, la costruzione di uno spazio introverso che prende forma in totale sinergia con le caratteristiche geologiche della roccia all’interno della quale questo si sviluppa: si tratta di un complesso percorso sensoriale che il visitatore effettua attraverso la montagna, relazionandosi con essa per mezzo della materialità espressa dalla combinazione data dalle strutture portanti e di contenimento in calcestruzzo e dalle superfici rocciose, ma pure attraverso l’odore che esse sprigionano, le diverse condizioni di luce (artificiale e naturale), la percezione dell’umidità e, non ultimo, i significativi sbalzi di temperatura che, mano a mano, si succedono.
Una qualunque descrizione di tale spazio risulterebbe didascalica e incompleta: lirico, probabilmente, è l’unico aggettivo che gli si addice. Un portale monolitico, sagomato attraverso la composizione di blocchi di calcestruzzo (inclinati a 55°) segna l’ingresso: segue un percorso a zig zag caratterizzato da un suolo in leggera discesa, da pareti sghembe (anch’esse orientate secondo angoli di 55°) e da sequenze di spazi di altezze variabili, che fanno perdere l’orientamento. Il visitatore penetra il buio e incomincia a sentire grande freddo: giunge quindi a un lago artificiale, collocato al centro della montagna. Da qui, un’ulteriore declinazione in chiave spaziale dell’elemento muro lo trasforma in un volume verticale cavo, ancora come fosse eroso dall’interno per renderlo percorribile, così da contenere la scala: si sale, la temperatura progressivamente aumenta, e il calcestruzzo e la roccia incominciano così a interagire con la luce naturale proveniente dall’alto.
Staunen! 7 Si rimane stupefatti tanto dalla potenza della natura che ha plasmato, nei millenni, le superfici interne alle viscere della montagna quanto dall’abilità di Miller&Maranta di relazionarcisi attraverso l’impiego del calcestruzzo. Una volta in cima la scala sbarca all’interno di un altro dispositivo spaziale risolto nella forma di scultura cementizia: da qui, finalmente, si vede Lucerna dall’alto.
La definizione finale degli spazi è avvenuta, per forza di cose, solo a mano a mano che il cantiere procedeva e che la dinamite creava i vuoti attraverso i diversi strati rocciosi, la cui inclinazione naturale a 55° ha quindi sancito la decisione progettuale di orientare secondo la medesima direzione i nuovi settori di muri inclinati e tutti i segni lasciati dalle casseforme sul calcestruzzo indurito: ogni tre settimane di lavori si è dovuto pertanto procedere con una scansione tridimensionale dello spazio ottenuto, sia per comprenderne la qualità sia per perfezionare progressivamente la progettazione esecutiva. Si tratta, dunque, di un progetto che è stato «dedotto direttamente dalla roccia» in maniera letterale, come afferma oggi Miller: una deduzione spaziale resa possibile anche grazie alla natura liquida del calcestruzzo, che gli ha permesso di venire gettato dall’interno della montagna e d’insinuarsi attraverso la stratificazione geologica di una roccia che, nella notte dei tempi, fu il fondale sabbioso di un mare.
Ecco, dunque, che il conglomerato cementizio quando prende la forma del muro utilizzato in chiave architettonica per risolvere un problema compositivo o spaziale derivato dalla presenza di un balzo di quota nella roccia assume un ruolo che va al di là del suo essere mera materia, ma assurge a strumento progettuale ideale per mitigare il confine tra il naturale e l’artificiale, tra realtà e finzione: un composto alchemico informe che, solo grazie al tempo, si fa esso stesso pietra monolitica capace, proprio al pari della roccia, di mutare ed evolvere tanto nelle sue componenti superficiali quanto nella sua intrinseca essenza.
Note
1. V. Gregotti, Il territorio dell’architettura, Feltrinelli, Milano 2018 (I edizione 1966), p. 11.
2. A titolo puramente esemplificativo, si veda: L. Stieger, Terraced hillside housing architectures. When vineyards gave way to Swiss families, in S. Aprea, N. Navone, L. Stalder (a cura di), Concrete in Switzerland. Histories from the recent past, EPFL Press, Losanna 2021, pp. 89-104 (per quanto concerne il progetto del Team 2000) e Restauro di Castelgrande, Bellinzona, in F. Werner, S. Schneider, La nuova architettura ticinese, Electa, Milano 1990, pp. 104-107 (per quanto concerne il progetto di Galfetti).
3. L’interpretazione critica qui fornita è anche l’esito di un’intervista effettuata dall’autore a Pietro Boschetti il 24 luglio 2023 e di una visita all’edificio effettuata con l’architetto stesso il 25 agosto 2023.
4. S. Giraudi, Stazione radar / Radar station Monte Lema 1993, in S. Milan, G. Zannone Milan (a cura di), Pietro Boschetti 1971-2011. Opere e progetti / Works and projects, Tarmac, Mendrisio 2011, p. 103. Su questo edificio si veda, inoltre il n. 1-2/95 di «Rivista tecnica. Mensile della Svizzera italiana di architettura e ingegneria» dedicato quasi interamente alla stazione radar al Monte Lema.
5. A qualche metro di distanza è stato installato anche un ripetitore a pennone per il controllo del traffico aereo.
6. F. Tranfa, Utile e dilettevole / Useful and delightful, «Casabella», novembre 2021, n. 927, p. 87.
7. Espressione utilizzata da Quintus Miller nel corso di un’intervista effettuata dall’autore il 26 maggio 2023 per esprimere la sensazione provocata da questo spazio: nell’impiego di questo termine da parte di Miller, Staunen! [che bello!] pare assurgere al ruolo di vero e proprio strumento di progetto.