Gio­va­ni in­geg­ne­ri emer­gen­ti

Il ruolo dell’ingegnere strutturista all’interno del processo progettuale è da sempre oggetto di interesse e discussione. Ma come percepiscono oggi il proprio ruolo i giovani ingegneri emergenti? Ne parliamo con Roberto Guidotti, dello studio ingegneri Pedrazzini Guidotti di Lugano.

Publikationsdatum
05-12-2022

Per comprendere il lavoro che svolgi mi piacerebbe innanzitutto approfondire la tua cultura progettuale. Come si è articolata la tua formazione? E quali sono le ragioni che ti hanno avvicinato alla progettazione strutturale?

Non ricordo esattamente quando ho iniziato a interessarmi a questa professione, ho la sensazione che per me sia una attitudine innata. Dal mio punto di vista l’ingegneria non si riduce all’analisi statica ma è orientata chiaramente alla costruzione nella sua totalità. Sono da sempre affascinato dal patrimonio costruito che mi circonda. Osservo e interpreto oggi oggetto che vedo perché mi interessano tutti gli aspetti che lo caratterizzano: la statica, la tecnica esecutiva, l’inserimento nel contesto, il rapporto con la forma.

Il rapporto tra spazio e struttura è un tema molto importante. Tu come ti poni rispetto a questo argomento? Cosa ne pensi?

Non ho dubbi che la struttura sia essa stessa lo spazio, generandolo e declinandolo in funzione del progetto specifico.

Non comprendo la possibilità di scindere questi due aspetti e non penso sia corretto lasciare all’architetto il compito di concepire la forma e il volume per poi coinvolgere successivamente l’ingegnere al fin di validare staticamente l’idea.

Credo che la struttura non si relazioni solo con lo spazio originato ma anche con quello preesistente, inserendosi in esso, modificandolo e rapportandosi dunque con qualcosa che già c’è.

Questa attitudine interpretativa non si acquisisce solo a scuola ma penso derivi da una immersione in un contesto culturale e costruttivo specifico, dove la formazione diventa qualcosa di individuale e autocostruita, non subita, ma fabbricata dal professionista.

Il mio percorso non è mai stato lineare, proprio come l’evoluzione di un progetto. Ho sempre alternato periodi di studio a momenti di pratica fino al conseguimento del dottorato e poi all’ingresso nello studio ingegneri Pedrazzini nel 2012.

Devo dire che ho imparato a progettare davvero le strutture negli anni in cui ho ricoperto il ruolo di assistente presso l'Accademia di architettura di Mendrisio. Un periodo di transizione tra la laurea bachelor alla SUPSI e quella specialistica a Losanna. Qui ho assimilato l’approccio tipico dell’architetto: intervenendo nel progetto fin dalle prime fasi e concependo le strutture in riferimento a un'idea e un modello.

Quali sono i tuoi modelli di riferimento?

Per me indubbiamente i professionisti di riferimento più importanti sono Robert Maillart, Pier Luigi Nervi e Villanova Artigas, ma non solo. Sono però convinto che l’eredità che ci hanno lasciato sia da interpretare, non tanto in termini di oggetti o costruzioni a cui riferirsi, ma bensì in quanto insegnamento di un approccio progettuale adottato.

Quest’ultimo ha permesso loro di realizzare strutture estremamente efficienti in relazione a determinati contesti.

Si tratta di una metodologia che va capita e studiata in quanto è sempre attuabile, mentre l’opera singola, dal mio punto di vista, non è ripetibile in quanto ogni progetto è unico.

La professione dell’ingegnere si basa comunque, e sempre, su una base tecnica molto solida, che a volte viene data per scontata oppure sottovalutata. Mi riferisco anche al tema della responsabilità. Senti questo peso?

Penso sia molto importante questa consapevolezza. È necessaria per sviluppare un progetto coscientemente, dal primo passaggio e in tutti gli aspetti successivi, non solo quelli tecnici.

Il processo progettuale è uno sforzo immenso, frutto di tante discussioni, ripensamenti, attimi di entusiasmo, intuizioni e talvolta paure. L’ingegneria in questo ambito ha un ruolo preciso. Come detto, la struttura si rapporta con l’architettura, lo spazio e la forma, ma senza mai perdere di vista il valore tecnico della materia.

Un’ultima considerazione la vorrei dedicare all’importanza delle maestranze e dell’esperienza in cantiere.

La progettazione non si ferma quando si arriva ai piani esecutivi ma continua sempre, fino alla posa dell’ultimo elemento.

In questa fase, il confronto con le logiche del cantiere e con chi realizza quanto noi abbiamo disegnato è essenziale, si tratta di un importante bagaglio d’esperienze, utile per i futuri progetti. L’ideale sarebbe coinvolgere gli esecutori molto prima dell’inizio lavori in modo da arricchire il processo con la loro esperienza.

In tal senso si riuscirebbe a prevedere meglio le fasi esecutive e la realizzazione dei relativi dettagli nelle fasi precedenti al cantiere.

Sembra quasi che si stia riscoprendo l’importanza dell’azione manuale e pratica, che per diverso tempo è stata disgiunta dalla progettazione teorica. Come vedi il futuro della professione?

Personalmente cerco di portare avanti il mio lavoro secondo i principi in cui credo e che ho acquisito nel mio percorso.

Anche se non sempre è facile perché talvolta ci si scontra con logiche che non lasciano spazio alla riflessione e sono indifferenti all’evoluzione del contesto sociale.

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