New York, We Have a Pro­blem

Publikationsdatum
05-05-2022

«Houston – oh, sorry, New York! – we have a problem». Mentre Elon Musk traghetta nababbi in giro per lo spazio, una ciurma di miliardari si è resa conto che vivere in paradiso – nel grattacielo al 432 di Park Avenue disegnato da Rafael Viñoly, alto 425 metri – può essere un inferno. Tanto da intentare una causa da 125 milioni di dollari contro il costruttore, ora sotto esame alla Corte Suprema di New York. Il problema? Dall’inaugurazione (2015) ad oggi, la vita in questa fetta di troposfera ha riservato non poche sorprese – le carte dicono oltre 1.500 – ai suoi inquilini: rumori assordanti per la spazzatura lanciata nei condotti di scarico («come una bomba»), ascensori che si bloccano diventando trappole da incubo (il giorno di Halloween), vibrazioni così forti da rendere impossibile il sonno, allagamenti e cortocircuiti. Ciò dipenderebbe da errori strutturali e impiantistici, tra cui l’errata valutazione delle oscillazioni per il vento di un edificio così alto e snello. Alcuni abitanti hanno dovuto lasciare casa per mesi, con ulteriori disagi e danni psicologici.

Se un sorriso sorge spontaneo, la storia apre interessanti riflessioni sul potere simbolico di questo grattacielo, il quale, pur già superato in altezza, rimane l’icona della nuova stirpe di torri altissime e sottilissime («pencil towers» o «superskinny») che stanno cambiando lo skyline di Manhattan. Il 432 di Park Avenue si distingue infatti per la purezza geometrica fondata sul teorema del quadrato, simile a un’opera di Sol LeWitt (in realtà l’architetto dice di essersi ispirato a un cestino di Josef Hoffmann), che lo rende ancora più snobisticamente alieno dal contesto limitrofo. Per questo, la notizia dei problemi «ad alta quota» degli abitanti ha eccitato una Schadenfreude collettiva, riaccendendo le critiche all’edificio: Louisa Whitmore, 16enne di Vancouver, ha addirittura creato un account Tik Tok dedicato all’odio per la torre: @432parkavehatepage.

Se il grattacielo è stato visto fin dal primo giorno come un dito medio verso la città, la sua capacità di rappresentare in forma così pura e astratta i cinici meccanismi che disegnano Manhattan evoca anche altro. Ad esempio il Monumento Continuo, quella straordinaria e inquietante visione che il gruppo toscano Superstudio immaginò – in una serie di storici collage – alla fine degli anni Sessanta. Basato anch’esso sull’estensione infinita di un modulo quadrato, il Monumento Continuo rappresentava la paradossale estremizzazione della razionalità moderna: una sublimazione concreta del positivismo occidentale, una struttura che assume la forma ideale del capitalismo industriale fino a dissolvere qualsiasi funzione in un nastro ininterrotto e inutile, la macchina perfetta che diviene una colossale e algida rovina. Rovesciando l’utopia nella distopia, Superstudio immaginava anche esiti antropologici: la deriva ideologica e materiale rimetteva in discussione l’uomo, traghettandolo in una dimensione pre e post moderna (il bon sauvage di Rousseau con la tecnologia della NASA). Un invito, ironico e disperato, a una catartica rigenerazione tra le macerie perfette della società occidentale.

Ma uno sguardo più ravvicinato al grattacielo di Viñoly ci riporta bruscamente a terra. Dietro alla scorza perfetta non si celano infatti (oltre alla vista mozzafiato) particolari rivelazioni o rivoluzioni progettuali: piuttosto, un’idea banale di lusso in una mera successione verticale di appartamenti oversize, spesso vuoti per buona parte dell’anno, da rivendere a prezzi maggiorati. Non un monumento ma un investimento continuo che, oggi come ieri, plasma la forma delle nostre città molto più dell’architettura.

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