L’ar­chi­tet­tu­ra del pia­no

Ipotesi progettuali per gestire la complessità

«Per gli urbanisti in ogni modo deve risultare chiaro [...] che è necessario utilizzare il progetto di architettura come vera e propria verifica del piano nel suo farsi, che istituzionalmente e temporalmente gli interventi del piano e del progetto devono correre paralleli ed agire tra loro dialetticamente, che le priorità nella gestione del piano si risolvono in azioni architettoniche durevoli, che l’architettura è l’unica misura finale della qualità del piano, della sua effettiva capacità di costruire un ambiente migliore e più ampiamente significativo». – Vittorio Gregotti, 1983

Publikationsdatum
06-12-2021

Mandato di studio. È questo il concetto chiave per comprendere l’importanza di questo tipo di procedura interdisciplinare – regolamentata dalla norma SIA 143 e applicata nei casi di programmi complessi – il cui obiettivo finale è la qualificazione urbana e territoriale.

Le prossime pagine spiegano ogni aspetto di questa forma particolare di messa in concorrenza basata su un ventaglio di proposte: «visioni strategiche» che vengono discusse tra i partecipanti e i membri del collegio di esperti in quanto rappresentanti della committenza, coinvolgendo anche i cittadini in un processo partecipativo. Una metodologia che interpella la relazione tra pianificazione e architettura in un momento cruciale di incertezza e di mutamento, in cui si evidenzia la pressante necessità di trovare risposte sostenibili incisive, adatte a rispondere a livello globale alla crisi climatica e alla transizione ecologica.

Proprio per questa ragione, riguarda anche il ruolo del progettista in quanto intellettuale critico in grado di agire direttamente sull’attività di pianificazione tutelando l’interesse collettivo: analizzare, discutere, mediare e modificare i rapporti di produzione attraverso il proprio mestiere diventa un impegno etico-politico nel senso più ampio del termine, ovvero di indirizzo e di gestione della polis e della cosa pubblica.

Già alla fine degli anni Settanta la critica registrava il superamento di normative e modelli operativi inefficaci e dalla contestazione al planning tradizionale del funzionalismo moderno nascevano nuovi strumenti di pianificazione. Il testo di Croset accenna al lungo dibattito a cui attinge la genealogia del MSP, focalizza alcuni momenti importanti della riflessione della cultura progettuale europea sul rapporto piano/progetto, e rintraccia le sue articolazioni nel contesto ticinese del periodo. Il contributo teorico di Vittorio Gregotti e Bernardo Secchi (che ebbero il merito di rinnovare il dialogo tra architetti e urbanisti nell’Italia dell’ultimo ventennio del Novecento), i «piani di terza generazione» che introducono la nozione di intensità differenziata sulle diverse aree del territorio comunale e cambiano le priorità dei Piani Regolatori Generali delle città italiane (privilegiando la città consolidata contro il paradigma della crescita omogenea e continua), cosi come le esperienze rivoluzionarie di Madrid e Barcellona nella Spagna postfranchista, il «Salzburg-Projekt» o il paesaggismo francese, il primo a vincolarsi alle pratiche urbanistiche, sono capitoli rilevanti di questa narrazione. Sebbene con risultati differenziati, questi episodi costituiscono un background significativo per il disegno urbano e territoriale della Svizzera italiana.

Oltre alle considerazioni di Colombo concernenti il quadro legislativo generale in cui si inserisce l’attuazione di questa prassi, tratti positivi e punti critici dei MSP emergono dal proficuo dialogo che si instaura nella tavola rotonda tra alcuni degli specialisti implicati nell’iter procedurale (il teorico, il pianificatore, l’architetto, il paesaggista, il rappresentante del Comune). L’argomento è già stato trattato a grande scala con la pubblicazione dei MSP per il Masterplan di Mendrisio (Archi 6/2018), ora invece il campo si allarga a dei «casi studio» – a Paradiso, Lugano, Locarno e Biasca – che illustrano alcune delle tante varianti dei MSP portate avanti recentemente per affrontare le problematiche di comparti specifici e circoscritti.

Aurelio Galfetti ricordava nel 2014 che il territorio-laboratorio costituisce «uno spazio dove è possibile, ogni giorno, verificare ciò che si discute», terreno concreto in cui il progetto trova applicazione. Questi esempi hanno permesso infatti di valutare e negoziare alcuni punti cruciali – il «progetto di suolo», lo sviluppo insediativo centripeto, la rete di mobilità e infrastrutture, i rapporti tra pieni e vuoti, la possibilità di incrementare gli spazi pubblici e le aree verdi proteggendo il paesaggio, l’uso sostenibile delle risorse economiche, sociali e ambientali – nel tentativo di definire soluzioni ottimali quali linee guida, tese a esplorare le potenzialità di ogni luogo. Nondimeno, queste ipotesi progettuali rappresentano innanzitutto un patrimonio disciplinare valido in se stesso: un catalogo di possibilità che sono espressione di una tradizione di ricerca insita nella cultura del territorio, qualsiasi sia l’esito conclusivo del processo.

Ci auguriamo quindi che anche questo numero di Archi possa diventare un riferimento utile per diffondere la conoscenza e il corretto utilizzo di questa procedura innovativa e versatile, aperta alle sfide urgenti che attendono la «Città Ticino» nei prossimi decenni. Se la politica e i suoi tecnici aspirano a costruire un futuro in sintonia con le esigenze del pianeta, bisogna essere consapevoli della necessità di agire senza indugi, anche saggiando nuovi strumenti di trasformazione.

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