L’ab­it­are mi­gran­te: il ca­so ita­lia­no nel con­tes­to eu­ro­peo

La vicenda dell’abitare migrante in Italia, che abbraccia ormai oltre un trentennio, si presta ad essere storicizzata e sistematizzata in una riflessione. Cosa possiamo imparare da circa tre decadi di insediamento dei migranti? In che cosa il caso italiano si differenzia da analoghe vicende europee? In queste pagine proviamo a ripercorrerne sommariamente la vicenda al fine di evidenziare le specificità che la rendono per molti versi peculiare. Una peculiarità che non manca tuttavia di presentare aspetti che rischiano di interessare, certo in forma trasversale e con sfumature diverse, anche altri paesi europei, tra i quali la Svizzera.

Publikationsdatum
06-02-2019
Revision
06-03-2019

Quello dell’insediamento e della stabilizzazione abitativa dei migranti nel «bel paese» è infatti un percorso estremamente tortuoso e contraddittorio, in cui a lenti progressi seguono repentini e bruschi arretramenti, e che finisce per configurare situazioni complessive per molti versi sempre più difficili e in alcuni casi drammatiche. Dalla rapida carrellata che proponiamo emerge una sorta di ciclicità dei processi, in cui tendono costantemente a riproporsi le condizioni originarie.

Ma procediamo con ordine…

 

I primi anni

Nella prima fase di stanzializzazione dei migranti in Italia, tra il finire degli anni Ottanta e i primi Novanta, emergono due tendenze contrastanti: da un lato per molti nuovi arrivati si profilano le condizioni abitative classiche del Gastarbeiter, del lavoratore-ospite, una condizione cioè di precarietà abitativa estrema pur in presenza di un lavoro stabile (qualcuno ricorderà ancora le baracche in cui vivevano gli emigrati in Germania negli anni Cinquanta),1 dall’altra il mercato della casa offre ancora in quel periodo delle possibilità di inserimento: si tratta in genere della parte peggiore del patrimonio abitativo, o di spazi residuali e rimasti vuoti, sia per il declino demografico sia per i processi, già operanti all’epoca di deindustrializzazione.2 Insomma la scelta è per molti migranti tra una condizione di working homelessness, risolta con alloggi di fortuna e occupazioni (celebre quella del pastificio abbandonato La Pantanella a Roma,3 in cui arrivano a vivere quasi 2000 migranti, poi sgomberato) o l’ingresso in un «mercato speciale» dell’abitazione ad essi riservato con costi diversi rispetto al mercato «normale». Si tratta nel primo periodo prevalentemente di case in affitto, che vengono messe sul «mercato speciale» a prezzi maggiorati circa del 30% rispetto alle altre.4 I migranti rimangono dunque in questa fase iniziale confinati in un «triangolo della vulnerabilità» definito da povertà, homelessness e immigrazione, in cui la sovrapposizione dei tre elementi genera situazioni di volta in volta diverse.5

Contribuisce ad alimentare questa condizione di provvisorietà e indeterminatezza anche la completa assenza di politiche governative mirate a risolvere la questione abitativa dei migranti. Il tema è poco pagante in termini elettorali e in ambito politico si coltiva l’illusione che sia tutto sommato una questione marginale in un contesto italiano caratterizzato dalla trasformazione degli italiani in «proprietari di casa» che coincide con la conclusione della stagione dell’edilizia popolare e addirittura – a seguito della legge Nicolazzi – con l’avvio di un processo di cessione del patrimonio di proprietà pubblica.

 

I lunghi Novanta (1994-2005)

Nel periodo immediatamente successivo, che definisco i «lunghi Novanta», abbiamo diversi fenomeni: da un lato dopo la legge Martelli sono cominciati i ricongiungimenti familiari, con un aumento della pressione e della domanda abitativa da parte dei migranti, dall’altra si vanno definendo a partire dalla caotica situazione iniziale quelle che i sociologi chiamano «carriere abitative» vale a dire percorsi di miglioramento della situazione abitativa iniziale.

La situazione, soprattutto nel Nord del paese, pare lentamente normalizzarsi. Non che scompaia il «mercato speciale», né che vengano ovunque superate le condizioni di working homelessness, ma le condizioni abitative divengono meno disperate che in precedenza, diminuiscono gli indici di coabitazione, comincia ad affacciarsi anche una quota, piccola ma significativa, di case in proprietà. I migranti colonizzano anche patrimoni abitativi antichi o abbandonati, dall’ormai famoso %%gallerylink:13048:Hotel House di Recanati%% fino al quartiere Zingonia di Ciserano, nella pianura bergamasca, con un processo definito un po’ sommariamente filtering down, un passar di mano verso il «basso» di abitazioni non più utilizzate dagli autoctoni.7

È un’epoca di illusioni. Ai ricercatori pare quasi che si vada lentamente definendo una «via italiana all’abitare migrante», con caratteristiche diverse da altri paesi europei. Una sorta di percorso spontaneo e non guidato dall’alto o centralizzato alla stabilizzazione abitativa.

Una «via italiana» alla casa fatta di piccoli passi, in cui incide profondamente la presenza del volontariato laico e religioso, del terzo settore, dell’associazionismo, di sperimentazioni locali.

Un testo pubblicato sul finire di questo periodo titola significativamente sintetizzando: Migrazioni globali, integrazioni locali.8

I tortuosi housing pathways dei migranti sembrano perciò in questa fase coronati da una maggiore stabilità e da un sensibile miglioramento qualitativo delle condizioni abitative.

Non che non esistano e resistano le baraccopoli, legate non solo allo sfruttamento della manodopera stagionale nell’agricoltura meridionale, ma sorta di «altro modello insediativo»: Villa Literno (nella provincia di Caserta) e Rosarno (comune della Piana di Gioia Tauro), sono veri e propri slum terzomondiali, in cui i migranti vivono in baracche autocostruite senza servizi e infrastrutture. 

Nonostante questo, sotto un profilo più generale, un vago ottimismo pervade chi si occupa del problema: la presenza dei migranti nelle città italiane pare meno ghettizzata che in altre realtà europee, in cui politiche dall’alto li hanno confinati in parti specifiche e circoscritte delle città. 

 

Common wisdom

Si diffonde dunque in ambito accademico un common wisdom, una visione della questione per cui nonostante l’assenza di politiche specifiche e pur in un contesto di generale mal-trattamento dei migranti sotto il profilo abitativo, non si sono però formati i «quartieri etnici» che caratterizzano altri paesi, e in genere i livelli di segregazione si danno principalmente sulla piccola scala, a livello di isolato e di quartiere.9 Certo emergono comunque realtà difficili, basti pensare alle vicende di via Anelli a Padova, di via Padova a Milano, o del Campasso a Genova, ma in contesti che rimangono segnati da una certa mixité, il che rende impossibile parlare di veri e propri «ghetti» come vorrebbe una comunicazione mediatica spesso superficiale. Continua inoltre a crescere la percentuale delle case in proprietà. Questo quadro di saperi condivisi comincia però a scricchiolare già prima della crisi del 2008, i cui effetti si ripercuoteranno pesantemente sugli housing pathways dei migranti.10

 

La crisi e il ritorno della precarietà

Già prima del 2008 i dati fanno segnare un rallentamento nelle percentuali delle case in proprietà, e il riemergere delle occupazioni abitative. Torna il «modello Pantanella» – non solo a Roma, dove le occupazioni a fini abitativi non interessano solo i migranti, ma anche fasce crescenti di popolazione autoctona che non riesce più ad accedere al bene casa –, ma anche nelle grandi città del nord, da Torino a Milano.11 La crisi del 2008 accelera ulteriormente il processo involutivo già in corso, ponendo fine a molte delle pur limitate «carriere abitative» avviate dai migranti negli anni precedenti, e riprecipitandoli nel circuito precarietà lavorativa/precarietà abitativa che aveva caratterizzato le prime fasi del loro insediamento. La perdita del lavoro stabile comporta una fragilizzazione della proprietà faticosamente raggiunta, che assume sovente la forma dell’incapacità di pagare i mutui contratti, si moltiplicano infatti i casi di morosità incolpevole e in molti casi gli alloggi tornano alle banche. Si avviano cioè meccanismi di «dispersione interstiziale» dei migranti. Meccanismi che non interessano solo gli ultimi arrivati in ordine di tempo, ma che finiscono per coinvolgere anche chi in passato aveva conseguito un alloggio e una stabilizzazione abitativa. In un contesto più generale contraddistinto da una crescente «polarizzazione abitativa», che non interessa solo i migranti, e dal riesplodere del problema della casa, sorgono anche alla periferia dei grandi centri, non solo nelle campagne meridionali, insediamenti autocostruiti, piccole baraccopoli, dove i migranti occupano strutture fatiscenti o abbandonate. Anche perché la contrazione delle politiche di welfare che caratterizza gli anni della crisi e la svolta in direzione di una gestione neoliberale delle città ha come suo immediato prodotto un irrigidimento dell’offerta abitativa, che mette a nudo i limiti dei processi inclusivi precedenti. Si genera così una sorta di «inclusione subordinata», in cui la condizione del migrante e la sua collocazione nella città sono sempre in dubbio, e in cui agiscono potenti forze espulsive. Si comincia a parlare anche in Italia di Gentrification, molti centri antichi delle città italiane si turisticizzano, con processi di rivalorizzazione e di rinnovamento che comportano un aumento dei prezzi degli alloggi e degli affitti. Come mostra una abbondante letteratura sul tema, l’aumento dei prezzi delle case implica una trasformazione delle popolazioni residenti, una modificazione profonda degli esercizi commerciali, con un effetto domino di cui sono vittima gli abitanti più deboli, tra cui i migranti. Sempre più respinti ai margini delle città, verso il periurbano e nella periferia più estrema, se non addirittura in contesti rurali, i migranti si trovano spesso a «vivere da stranieri in aree fragili»,12 vanno cioè in maniera assolutamente controintuitiva a ripopolare borghi da tempo in via di abbandono.

 

La terza ondata: déplacement e dispersione territoriale

A complicare ulteriormente questo quadro già difficile giunge la cosiddetta «terza ondata» del 2015, cioè una fase successiva alla «seconda epoca» delle migrazioni di cui aveva parlato Steven Castles: si palesa in tutta la sua potenza e problematicità e contribuisce a destabilizzare una situazione abitativa già complessa.13

Un flusso crescente di migranti e rifugiati che va ad accentuare ulteriormente il «disagio normale» come si è visto già preesistente sotto il profilo abitativo. Chi esce vittorioso dal circuito dello SPRAR (sistema di protezione per richiedenti d’asilo e rifugiati), ottenendo l’agognato diritto di asilo, si trova proiettato in realtà urbane che non sono attrezzate ad accoglierlo. Politiche restrittive e di controllo territoriale rendono ancora più difficile trovare casa. Prende forma un déplacement senza precedenti che contempla forme di de-standardizzazione dell’abitare e di marginalizzazione estrema. Una vera e propria disseminazione dei migranti in cui la categoria di segregazione urbana pare espandersi a interi territori, in cui tornano ancora a farla da padrone stabilimenti dismessi e casolari abbandonati che vengono occupati. Insomma torna il «modello Pantanella» sia pure su di una scala territoriale ben più vasta.

Sempre più sospinti e confinati in spazi interstiziali e periferici i migranti vedono assottigliarsi le chances di integrazione offerte dalla città, rimangono più facilmente esposti ai reclutatori del mercato del lavoro nero e illegale, alle seduzioni delle zone grigie controllate dalla malavita, agli abusi dello sfruttamento sessuale e del caporalato. Vivere ai margini vuol dire vivere peggio, avere meno opportunità. 

Il disegnarsi di un panorama diverso dal passato, con l’accentuazione delle tendenze alla «espulsione»,14 all’arretramento della condizione abitativa e alla dispersione territoriale dei migranti è andato palesandosi molto presto, già negli anni immediatamente successivi alla crisi.15 

Le peculiarità italiane dell’insediamento dei migranti si sono trovate ad essere pesantemente rimesse in discussione, e questo arretramento repentino sta obbligando gli studiosi a una profonda revisione dei paradigmi finora utilizzati nella ricerca in questo campo.16 Una questione che come abbiamo visto non aveva mai trovato una soluzione stabile riemerge quindi in tutta la sua asprezza sotto la spinta della crisi. E questo già prima che il 2015 imprimesse un’ulteriore accelerazione, schiudendo la via a tutta una serie di dispositivi nuovi di spostamento, contenimento, ricollocazione, tra cui i campi.

 

Periferie, campi, giungle…

Il campo rappresenta un pezzo della periferia nuova, forse la sua componente più estrema, in cui vengono stoccati in maniera più o meno provvisoria coloro che si potrebbero chiamare i globally displaced. In buona sostanza, il campo accompagna, senza sostituirla del tutto, la formazione di baraccopoli, le realtà dell’autocostruzione, lo sviluppo di insediamenti precari, e diviene quasi una forma «normale» della periferia nuova. Anche quando è autoprodotto, quando si manifesta come un bubbone della metropoli, come ha mostrato in maniera emblematica la jungle di Calais, non a caso sottoposta a un vero e proprio processo di slum clearance realizzato con strumenti tipici delle grandi città terzo mondiali.17 Viene da sospettare che il campo sia venuto per restare, non sia una struttura transeunte e provvisoria, legata a una emergenza, ma una componente che si avvia a diventare stabile del panorama delle nostre periferie.

Ma la periferizzazione e la dispersione territoriale cui sono soggetti in questa fase i migranti pongono problemi di non facile soluzione: i margini della città divengono sempre più i margini dell’integrazione possibile, la molteplicità degli spazi e delle modalità di insediamento rende migranti e rifugiati meno facilmente raggiungibili da networks solidali e quindi più vulnerabili. Il ritorno di forme estreme di precarietà abitativa non prospetta allora unicamente un «ritorno alle origini» della questione, con il riproporsi della figura dello straniero come passeggero Gastarbeiter, ma prefigura una nuova organizzazione dei territori e degli spazi urbani in cui emergono linee di divisione sempre più nette. Non sono certo problematiche solo italiane, l’intera Europa sembra esitare sulle vie da scegliere per superare la crisi, sospesa tra umanitarismo e repressione, tra nuovo razzismo e solidarietà.

Si apre un’epoca oltremodo difficile, in cui anche gli studiosi devono ripensare i loro strumenti di analisi e di indagine per comprendere quanto avviene e riflettere bene sulle concezioni che avevano in precedenza, date ormai per assodate, e che risultano ormai in buona parte inadeguate.

 

Note

1.    Un destino condiviso anche in altri paesi di immigrazione, in particolare quando il migrante viene considerato alla stregua di un lavoratore-ospite pro tempore privo di diritti, vedi per es. i lavori raccolti in L. Benton-Short, M. Price (a cura di), Migrants to the Metropolis. The Rise of Immigrant Gateway Cities, Syracuse University Press, Syracuse (NY) 2008.

2.    Tra i pochi lavori che ricostruiscano questa fase, R. Cattedra, G. Laino, Espaces d’immigration et formes urbaines: considérations sur le cas de Naples, «Revue européenne des migrations internationales», 10, 2, 1994, pp. 175-185.

3.    Cfr. M. Melliti, Pantanella, Canto lungo la strada, Edizioni Lavoro, Roma 1992.

4.    Cfr. A. Petrillo, Italy: Farewell to the «Bel paese»?, in G. Dale, M. Cole (a cura di), The European Union and Migrant Labour, Berg, Oxford 1999, pp. 231-262.

5.    Cfr. B. Edgar, J. Doherty, H. Meert (a cura di), Immigration and Homelessness in Europe, Policy Press, Bristol 2004, in part. pp. 32-33.

6.    Cfr. A. Tosi, Immigrati e senza casa. I problemi, i progetti, le politiche, FrancoAngeli, Milano 1994, pp. 15-16.

7.    Cfr. G. Sinatti, Zingonia. Vecchi e nuovi abitanti, vecchie e nuove questioni, Provincia di Bergamo, Bergamo 2006; A. Cancelliere, Hotel House. Etnografia di un condominio multietnico, professionaldreamers, Trento 2013.

8.    T. Caponio, A. Colombo (a cura di), Stranieri in Italia. Migrazioni globali, integrazioni locali, il Mulino, Bologna 2005.

9.    A. Petrillo, A. Tosi, Introduzione, in Id. (a cura di), Migranti in città: scorci della situazione italiana, «Mondi Migranti», 2, 2013, pp. 25-32.

10.    Lo intravide per tempo S. Arbaci, (Re)Viewing Ethnic Residential Segregation in Southern European Cities: Housing and Urban Regimes as Mechanisms of Marginalisation, in «Housing Studies», 23, 4, 2008, pp. 589-613.

11.    Cfr. G. Avallone, S. Torre, Dalla città ostile alla città bene comune. I migranti di fronte alla crisi dell’abitare in italia, «Archivio di Studi Urbani e Regionali», 115, 2016, pp. 51-74.

12.    Cfr. G. Osti e F. Ventura (a cura di), Vivere da stranieri in aree fragili. L’immigrazione internazionale nei comuni rurali italiani, Liguori, Napoli 2012.

13.    Di «seconda epoca» delle migrazioni internazionali parlava appunto il testo di S. Castles, M. Miller, L’era delle migrazioni. Popoli in movimento nel mondo contemporaneo, Odoya, Bologna 2012. Ho abbozzato «a caldo» un primo tentativo di valutazione della nuova situazione in A. Petrillo, Il posto dei migranti, «Ananke», 77, 2016, pp. 6-10.

14.    Uso il termine nell’accezione di «allontanamento forzato» che gli attribuisce S. Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, il Mulino, Bologna 2015.

15.    Tra i pochi, pioneristici lavori d’indagine disponibili in italiano sulla periferizzazione dei migranti segnalo R. Bichi, V. Cesareo (a cura di), Per un’integrazione possibile. Periferie urbane e processi migratori, FrancoAngeli, Milano 2010; ma cfr. anche le notazioni di A. Agustoni, A. Alietti (a cura di), Integrazione, casa e immigrazione. Esperienze e prospettive in Europa, Italia e Lombardia, Quaderni ISMU 2/2013, Fondazione Ismu, Milano 2013.

16.    Della debolezza di questi paradigmi analitici ho parlato più diffusamente in A. Petrillo, I migranti nello spazio urbano, in S. Mezzadra, M. Ricciardi (a cura di), Movimenti indisciplinati, ombre corte, Verona 2013, pp. 93-121.

17.    Cfr. M. Agier et Al., La giungla di Calais. I migranti, la frontiera e il campo, ombre corte, Verona 2018.

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