Ti­po­strut­tu­ra co­me de­li­be­ra­to at­to di ri­nun­cia

Nel recente volume Typostruktur. Sehnsucht nach architektonischer Relevanz, Giulio Bettini e Daniel Penzis hanno esplorato il possibile ruolo delle strutture portanti in architettura come elementi spaziali, coniando il concetto di «tipostruttura». Una tesi del loro libro recita: «le tipostrutture sono una rinuncia consapevole». Gli autori sviluppano questa stessa idea nel seguente saggio: un appello per nuove gerarchie, maggiore coscienza della permanenza e chiari confini nella disciplina architettonica.

Data di pubblicazione
09-09-2025

La rinuncia come termine architettonico

Il termine tedesco Verzicht (rinuncia) ha le sue radici etimologiche nell’antico tedesco verzîhen – un cosciente passo indietro nell’astenersi da un diritto o da un lecito possesso. Denotando l’intenzionalità dell’atto di abbandono, questo concetto non significa solo omettere: astenersi dal diritto su qualcosa implica una scelta verso un numero inferiore di elementi rispetto alla situazione iniziale e a una conseguente concentrazione di forze. In questo senso la rinuncia in architettura può essere intesa come un processo attivo a favore di maggiore chiarezza espressiva, durevolezza delle fabbriche o coerenza strutturale. Non si tratta quindi di una perdita, ma di un atteggiamento che genera spazio per l’essenziale.

L’architetto come riformatore: una concezione (non) duratura

Il Modernismo ha inteso l’architettura come un progetto non solo fisico ma anche etico – uno strumento di rinnovamento sociale. In questa prospettiva l’architetto non è solo progettista, ma anche un riformatore al servizio del progresso e della razionalità. Questo atteggiamento ha connotato non solo il Moderno, ma anche il secondo dopoguerra, il brutalismo e i movimenti postmoderni: l’architettura è sempre stata più che forma, è stata una missione. A testimoniare questa concezione può essere presa Villa Tugendhat di Mies van der Rohe a Brno, nella Repubblica Ceca (1928-1930). Essa non rappresenta solo un’innovazione formale, ma anche una radicale reinterpretazione della vita domestica. La pianta aperta dal caratteristico continuum spaziale, l’esaltazione della struttura rivestita in acciaio cromato, l’uso di materiali industriali a fianco di pregiati legni e pietre esprimono un nuovo ethos architettonico basato sulla razionalità, la trasparenza e permanenza che si pone in netto contrasto con l’abitazione borghese del XIX secolo. Nelle parole di Mies: «essa [l’educazione all’architettura, nda] deve condurci dal caso e dall’arbitrarietà alla chiarezza razionale e all’ordine intellettuale».2 La villa diventa così un manifesto costruito di un atteggiamento che intende l’architettura come una forma culturale di progresso, una struttura mentale per la vita quotidiana. Le convenzioni edilizie diffuse a quel tempo vengono deliberatamente infrante e si stabilisce una nuova grammatica che presuppone una progettazione di tipo olistico che pervade tutti gli elementi dell’architettura: da quelli strutturali alle finiture interne, tutto viene determinato dall’architetto in modo prototipico. Le convenzioni progettuali e costruttive basate sull’esperienza delle maestranze vengono sostituite da nuove soluzioni inventate dall’architetto per adempiere alla sua missione sociale. Questa rivoluzione nella progettazione ha ridefinito dagli inizi del Moderno la prassi disciplinare, sviluppandosi attraverso le epoche seguenti. Tuttavia, attraverso le generazioni, la pretesa di progettare ogni elemento e di mettere in discussione a ogni progetto le regole costruttive ha perso la spinta verso una riforma della disciplina, edulcorandosi in irriflessive applicazioni di una metodologia collaudata e ormai fine a se stessa. Senza una missione, la progettazione non conduce alla precisione, ma a trattare ogni decisione con la stessa importanza. Questa forma di egualitarismo progettuale, evidente in diversi progetti contemporanei, deriva dall’esaurimento ideologico del Moderno e delle seguenti correnti di pensiero. Le cause sono diverse, siano esse culturali o da parametri professionali. Un clima di arbitrarietà prevale su quello che un tempo era occupato dal progresso, la razionalità o la missione sociale. Questo appiattimento ha indubbiamente lati positivi nell’accogliere la contemporanea necessità di trovare equilibri per un numero sempre maggiore di richieste, norme e attori coinvolti. Questo avviene nella progettazione attraverso l’enfatizzazione dei lati processuali, quelli delle narrazioni o delle contestualizzazioni. Questi approcci rendono sì possibile integrare la disparità di parametri di un progetto, ma a differenza degli «ismi» del passato, viene a mancare la missione alla radice,3 trasformando la progettazione in un aggregato di opzioni equivalenti.

Contemporaneamente le aspettative della società sono cambiate e i modelli passati non possono più fungere da esempio. Diversità, partecipazione e interdisciplinarità sono diventati termini chiave, mettendo in luce problematica le decisioni architettoniche. In un contesto dove ogni scelta deve essere democraticamente giustificabile, neutralmente comunicabile ed equamente ponderata non sembra più il ruolo dell’architettura quello di esprimere una posizione verso la collettività, quanto di mediare esigenze divergenti, spostandosi verso la mediocrità invece che verso la chiarezza.

Diversi vincoli operativi hanno un ruolo importante in questa dinamica: le logiche di mercato esigono massima adattabilità con minimo rischio; le prassi di concorso impongono il rispetto di innumerevoli criteri – sostenibilità, accessibilità, sicurezza, economicità – e al tempo stesso progetti di facile accessibilità. Gli architetti si trovano quindi in una posizione in cui ogni parametro sembra ugualmente importante. La digitalizzazione sembra rafforzare questa dinamica attraverso immagini generate da intelligenze artificiali basate sulla probabilità o con la proliferazione di varianti algoritmiche o parametriche che favoriscono un atteggiamento in cui la decisione è sostituita dalla possibilità. Questa atmosfera desaturata non ha condotto a un’architettura più inclusiva, quanto a una basata sull’indecisione. Sembra necessario tentare vie diverse, differenziando nella progettazione ciò che è costitutivo da ciò che è variabile. Proponiamo l’introduzione di una nuova gerarchia: la rinuncia alla progettazione di ogni singolo elemento non come sconfitta, ma come una concentrazione su ciò che è portante, sia in senso fisico che figurato.

Tipo + struttura = tipostruttura

Attraverso il nostro lavoro di architetti abbiamo identificato nelle strutture portanti un elemento irrinunciabile per l’architettura e ci siamo posti la domanda su come fosse possibile combinarle con un carattere non solo duraturo in un’ottica di sostenibilità ma anche spazialmente rilevante come parte generatrice del progetto. Durante questa ricerca abbiamo rilevato la possibilità di sovrapporre in un unico elemento le componenti portanti e spaziali, unendo strutture con processi tipologici e coniando il termine Tipostruttura. In quest’ottica intendiamo la struttura come una versione ampliata della «forma», che comprenda sia il significato che la posizione delle sue componenti.4 Analogamente alla teoria della Gestalt, una struttura va intesa come un insieme, il cui carattere non è definito dai singoli elementi, ma dalla sua natura intrinseca.5 Grazie a questa qualità, le strutture portanti così comprese ottimizzano la loro forma in base ai requisiti statici da adempiere. Questa forma, a sua volta, influenza gli ambienti sia spazialmente che definendone l’identità. Una struttura in senso tipostrutturale è quindi qualcosa di più della semplice organizzazione dei carichi: comprende forma, spazio e identità.

L’effetto spaziale in architettura è spesso legato al concetto di tipo, sia per gli elementi costruttivi (tipi di finestre, solai) o per forma spaziale (cupola, stoà). All’interno di questi termini è possibile effettuare un’ampia gamma di variazioni senza modificare la componente spaziale. Una cupola, per esempio, può essere realizzata come arco a tutto sesto o a sesto acuto, su una base circolare o ellittica; tuttavia la qualità spaziale della cupola resta invariata: una definizione spaziale orizzontale senza interruzioni geometriche percepibili.6

Comprendere le strutture portanti come tipi significa riconoscere il loro carattere di definizione dello spazio. Come si è detto, le strutture come cerchiamo di comprenderle attraverso il concetto di tipostruttura sono sistemi efficienti che agiscono simultaneamente sul piano spaziale e dell’identità. Grazie a questa caratteristica, edifici con caratteri tipostrutturali persistono a lungo e permettono diversi cicli di vita. Per esempio, l’identità di un’industria può sopravvivere per generazioni, anche quando viene convertita in abitazioni, centro sportivo o in una scuola. Ciò dimostra che le tipostrutture sono resistenti a elementi architettonici transitori come pareti non portanti, istallazioni tecniche o finiture. Sfruttare questa qualità per l’architettura, incentrando le decisioni architettoniche su elementi strutturali che siano spazialmente rilevanti e identitari è un aspetto essenziale del concetto di tipostruttura e che abbiamo approfondito esaminando una serie di progetti.7

Tipostrutture come antitesi alla desaturazione progettuale

Con il concetto di tipostruttura non proponiamo né la reinvenzione radicale del Modernismo né il ritorno a dogmi formali. Lo intendiamo piuttosto come uno strumento architettonico che si contrappone all’attuale indifferenziazione progettuale: una chiara gerarchia, un ordine strutturale che distingue tra permanente e mutevole. L’attenzione al sistema portante può costituire infatti un solido fondamento sia per integrare le disparate richieste interdisciplinari che per permettere futuri cicli di vita. Grazie al suo carattere spaziale le tipostrutture contano su una differenza sostanziale rispetto alla concezione convenzionale di struttura: nonostante suggeriscano una spazialità e siano complete formalmente in se stesse, esse non necessitano di delineare l’immagine definitiva dell’architettura. Pertanto, le tipostrutture non mirano a una progettazione conclusiva, quanto a un dialogo. Stabilire le condizioni costitutive della struttura apre spazio per relazioni con altri elementi come divisioni non portanti, istallazioni tecniche, finiture o facciate; al fine di costituire l’architettura come forma finita.

A differenza della prassi descritta sopra nata durante il movimento Moderno, il concetto di tipostruttura non premette una determinazione definitiva di tutti gli elementi da parte dell’architetto, quanto di quelli portanti e spazialmente rilevanti. In questo modo è implicita una deliberata rinuncia verso la definizione degli elementi non portanti, in quelli dedicati ad usi transitori o più generalmente in tutto ciò che è mutevole. Questo non mette in pericolo la qualità del progetto, siccome la struttura ne fonda l’identità. Riconoscere la differenza tra persistenza strutturale ed elementi volatili genera una nuova libertà architettonica all’interno di un quadro definito. A differenza dei metodi di progettazione che cercano flessibilità astenendosi radicalmente dalla forma a favore della varietà programmatica (si pensi alle convenienti costruzioni in solette e colonne in cemento),8 il concetto di tipostruttura prevede una definizione formale mirata degli elementi portanti. Questi sono formalmente conclusi e contemporaneamente inevitabilmente presenti nello spazio, contribuendo al carattere degli ambienti. Abbiamo analizzato questo fenomeno nella piccola chiesa di San Baudelio de Berlanga (Soria, Spagna, XI secolo): la grande colonna a forma di palma definisce non solo la struttura della chiesa sostenendone il tetto, ma ne definisce lo spazio e di conseguenza anche l’identità. Ulteriori elementi aggiunti in seguito come scale, colonne o il mezzanino non influiscono sull’identità dello spazio (fig. 1). Nonostante la platealità di questo esempio è rilevabile che le tipo­strutture non fondano un ordine rigido, quanto un’architettura mutabile e resiliente – un’architettura che abbraccia il cambiamento senza rinunciare alla sua anima (vedi anche i progetti delle figure 2 e 3). È in questa caratteristica che individuiamo la rilevanza del concetto di tipostruttura per il progettare contemporaneo: non come un concetto formale ma come una presa di posizione verso permanenza, ordine e significato in grado di integrare altri attori.

Un nuovo ruolo per l’architetto

Questa strategia progettuale ha ripercussioni sulla concezione che l’architetto ha di se stesso: non più il riformatore morale che dà forma alla società nel suo complesso, né il mediatore neutrale tra disparate richieste (bilanciate in un equilibrio dalla responsabilità sempre più diradata), quanto come attore che definisce le condizioni statiche e formali fondamentali che rendono possibile dialogo e cambiamento. Rinunciando alla progettazione convenzionale di ogni singolo elemento e concentrando le forze su strutture spazialmente efficaci l’architetto può essere in grado non solo di costituire le basi per un dialogo tra le innumerevoli esigenze della progettazione contemporanea ma di generare anche la libertà per futuri cambiamenti nel progetto. La responsabilità viene suddivisa in modo nuovo tra tutti gli attori del progetto, che devono impegnarsi consapevolmente attraverso il dialogo con la tipostruttura. Che si tratti di impianti o di finiture, l’architettura resterà fedele alla tipostruttura ma sarà allo stesso tempo una risposta precisa alle richieste specifiche del progetto in un dato tempo storico.

Crediamo quindi che una vera architettura partecipativa non inizi con la progettazione di gruppo di impostazioni planimetriche o con la valutazione di in­numerevoli parametri; quanto con una presa di posizione sulla permanenza della struttura da parte dell’architetto e con un dialogo basato sulla responsabilità di tutti gli attori. Il sistema strutturale, in questo modo, non è in grado di portare solo carichi ma anche significato.

 

Note

1 G. Bettini, D. Penzis, Typostrukturen sind bewusster Verzicht, in Typostruktur. Sehnsucht nach architektonischer Relevanz, Park Books, Zurigo 2025.

2 Mies van der Rohe, in: M. Puente (a cura di): Conversations with Mies van der Rohe, Princeton Architectural Press, New York 2008, p. 17.

3 A titolo d’esempio il regionalismo critico ha enfatizzato l’identità culturale, lo strutturalismo i processi di aggregazione sociale, il postmodernismo invece ha messo a fuoco narrazioni personali degli autori basate sulle architetture del passato.

4 Si veda a proposito: C. Brandi, Struttura e architettura, Giulio Einaudi Editore, Torino 1967.

5 Si veda a proposito: Rotenstreich, Nathan (1972): On Lévi-Strauss’ Concept of Structure, «The Review of Metaphysics», Jg. 25, Nr. 3 (marzo 1972), S. 489–526, https://www.jstor.org/stable/20126058  (consultato il: 11.8.2025).

6 Abbiamo abbozzato una definizione del tipo e della sua capacità di gestire variazione e continuità in G. Bettini, D. Penzis, Typostruktur. Sehnsucht..., cit., pp. 33‑95.

7 Louis Kahn ha progettato una serie di edifici che affrontano temi tipostrutturali. Cfr.: G. Bettini, D. Penzis, Typostruktur. Sehnsucht..., cit., pp. 13‑31.

8 Si prenda ad esempio, tra i tanti possibili, la scuola di architettura a Nantes di Lacaton & Vassal (2009).