Se la set­ti­ma ar­te igno­ra la pri­ma

Locarno: Don’t touch the screen!

Difendere lo schermo di Piazza Grande non è nostalgia: è responsabilità culturale. L’opera di Vacchini è parte viva del Festival di Locarno. Toccarla senza visione condivisa significa smarrire un’identità collettiva.

Data di pubblicazione
09-07-2025

Non è nostalgia, non è retorica, non è ostilità al cambiamento. È una questione culturale. Ed è urgente. La campagna "Locarno: Don’t touch the screen!", promossa da figure di rilievo del mondo dell’architettura, del cinema, della ricerca e della società civile, merita di essere sostenuta, firmata e condivisa. Perché quello schermo, progettato da Livio Vacchini nel 1971 (e di cui Archi si era già occupato), non è soltanto un supporto tecnico per la proiezione cinematografica. È un’opera architettonica, uno spazio urbano, un dispositivo culturale che ha trasformato la Piazza Grande in un luogo di visione collettiva. In una parola: è parte integrante del Festival stesso.

Difendere lo schermo – e con esso gli altri manufatti che compongono l'insieme dell'intervento – non significa musealizzarlo. Vuol dire riconoscerne la forza progettuale, la rilevanza storica e la capacità di generare senso; ma vuol dire soprattutto comprendere che l’identità del Festival di Locarno si è costruita anche attraverso quella struttura effimera, montata e smontata ogni anno come un rito pubblico. Poche città al mondo possono vantare una relazione così stretta, concreta e continua tra architettura e cinema: a Locarno, strutture temporanee e permanenti si intrecciano senza retorica in uno spazio collettivo, dove sedie, infrastrutture tecniche nobilitate e architetture storiche convivono in un equilibrio fragile e potentissimo.

Sostituire lo schermo con una struttura diversa – più leggera, più semplice da montare, forse più economica? – appare come una scelta di comodo. Gli argomenti funzionali o economici evocati non reggono di fronte al valore simbolico, culturale e identitario di ciò che si intende rimuovere. Ogni asta, ogni nodo, ogni sezione dell’opera di Vacchini ha un senso e merita di essere riconosciuta. Dismetterla senza comprenderla costituirebbe un segno di impoverimento culturale.

Il patrimonio costruito non è fatto solo di mura antiche o monumenti celebrati. È composto anche da architetture leggere, presenze intermittenti, dispositivi capaci di generare appartenenza. L’opera di Vacchini è una di queste. E come tale andrebbe protetta, manutenuta, eventualmente aggiornata – lavori già svolti egregiamente nel tempo, che hanno permesso di affinare un dispositivo forse imperfetto, ma capace certamente di accogliere il nuovo –, ma non sostituita. Lo ha dimostrato anche Gabriele Neri, che nel 2018 ha ricostruito con rigore critico per Archi la storia delle architetture del Festival: una lettura che aiuta a comprendere quanto questi dispositivi abbiano contato, e continuino a contare, per la città e per il Cantone.

Se davvero si ritenesse conclusa la sua funzione all’interno del Festival, non si può pensare che finisca come un mucchio di tubi da ponteggio accatastati in un magazzino. Quale seconda vita potrebbe avere? Una riflessione seria, magari affidata a un concorso – anche solo di idee – avrebbe potuto aprire a prospettive diverse, restituendo un quadro più ampio di scelte culturali. Un processo capace di generare confronto, ascolto e visione. Intraprendere questa strada avrebbe certamente permesso di rendere visibile, e forse ancora più condiviso, il valore culturale di questo manufatto architettonico. E avrebbe riconosciuto al Festival la responsabilità – culturale prima ancora che tecnica – di custodire e trasmettere quel valore. Proprio in virtù di questa responsabilità, anche qualora si fosse ritenuto necessario sostituire la struttura, la decisione avrebbe dovuto maturare in modo concertato, coinvolgendo tutti gli attori in campo – direttamente e indirettamente.

Il Festival è parte integrante dell’identità di Locarno, e questa identità non si fonda solo sull’offerta cinematografica, ma anche sul modo in cui la città accoglie il cinema e il suo pubblico. L’architettura di Piazza Grande, con il suo schermo, è parte essenziale di questo abbraccio. La storia del rapporto tra istituzioni e architettura è costellata di amnesie, talvolta di veri e propri tradimenti. Facciamo in modo che questo non sia uno di quei casi. Difendere lo schermo di Vacchini non significa resistere al cambiamento, ma chiedersi come cambiare senza cancellare. Perché la cultura del costruire è, innanzitutto, una cultura condivisa. Non riguarda solo architetti o tecnici, ma è parte di un immaginario collettivo che struttura il territorio. Le scelte sul patrimonio culturale, materiale o immateriale, sono scelte pubbliche. E in quanto tali, devono essere comprese, discusse, partecipate. Locarno è una città, non un dispositivo economico. Il Festival è un’esperienza, non soltanto un evento. E quello schermo, così umile e così potente, è una parte viva di questa esperienza. Difenderlo è un gesto di responsabilità. Perché la cultura si costruisce anche così: preservando ciò che ci ha insegnato a guardare insieme.