Advertorial

Ja­sper Mor­ri­son: la for­ma del­le co­se

Museum für Gestaltung, Zurigo

È stimolante e di difficile traduzione il titolo della mostra che il Museum für Gestaltung di Zurigo dedica, fino al 5 giugno 2016, all’opera di Jasper Morrison, designer inglese che da ormai oltre vent’anni si distingue per versatilità, coerenza e acume.

Data di pubblicazione
11-04-2016
Revision
11-04-2016

Thingness, che in italiano suonerebbe come «cosità», richiama il termine tedesco Dingheit, usato ad esempio da Martin Heidegger nel suo scritto sull’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes, abbozzato nel 1935), dove il filosofo ragiona proprio sul significato di «cosa». Una delle parti più note di questo testo contiene l’analisi di un dipinto di Van Gogh del 1886, raffigurante un paio di scarpe da contadina e nient’altro. Togliendole dal loro contesto di effettivo utilizzo (il campo dove si lavora la terra) e creando dunque uno stato di sospensione rispetto al loro normale funzionamento, «l’opera d’arte – scrive Heidegger – ha permesso di comprendere che cosa sia in verità il paio di scarpe», mostrandole nella loro «cosità», cioè nel loro «essere cose». L’arte, in questo senso, ci fa vedere la scarpa come «cosa» prima che come strumento per camminare, e inoltre – non essendo l’arte mera imitazione – essa si rivela capace di rievocare l’intero mondo che sta dietro – dunque il richiamo scabro della terra, l’umidità del terreno, il vento tagliente nei campi – proprio grazie a un atto di sospensione da esso.

C’è ovviamente un’enorme distanza tra le riflessioni di Heidegger e gli oggetti in mostra a Zurigo; tuttavia esse possono servire da spunto per un’interpretazione di quella thingness che sembra caratterizzare l’opera del designer inglese. Negli ultimi venticinque anni, infatti, Morrison ha perseguito con coerenza una personale idea di «cosità», in cui l’azione del designer – un po’ come il Van Gogh di Heidegger – diviene capace di attuare una prodigiosa «sospensione» degli oggetti che ci circondano dal mondo reale, per poi farli tornare ancorati a tale mondo con ancora maggiore forza, facendo parlare il quotidiano ancora più intensamente. Scarpe, sedie, bottiglie, posate o elettrodomestici: le «cose» disegnate da Jasper Morrison non sono oggetti alieni, smaniosi di differenziarsi dagli altri che già popolano il mondo, come invece accade per una buona fetta del design contemporaneo: la loro thingness consiste nel mantenere saldo un legame con l’archetipo, senza però rinunciare a un’interpretazione personale.

Entra allora in gioco un tema (e un termine) fondamentale per Morrison, che è quello della Forma: ad essa egli ha dedicato molti scritti, nei quali viene espressa la necessità di concepire i nuovi oggetti, le nuove «cose», secondo un understatement che passa innanzitutto dal ridimensionamento dell’apparenza formale. «Se diamo alla forma una minore importanza – scriveva nel 1991 – possiamo sviluppare una sensibilità per altre qualità dell’oggetto. … Se noi pensiamo al design come a un’equazione per ottenere di più dagli oggetti, allora è chiaro che un approccio fondato sulla novità gratuita della forma non è sufficiente».1 Questa affermazione, ovviamente, non vuol dire disinteressarsi della forma – guardando la sua cura maniacale per il dettaglio non si hanno dubbi – bensì rispettare la normalità, l’onesta, il fare il proprio mestiere senza dover gridare. Non stupisce quindi il profondo rispetto di Morrison per il design anonimo, quello «senza pedigree», di immacolata concezione (titolo di un suo saggio del 19962), da cui deriva in parte il manifesto progettuale teorizzato insieme al collega Naoto Fukasawa in una mostra del 2006, intitolata Super Normal. Sensations of the Ordinary3. Essere «super normale» vuol dire saper tenere insieme una rassicurante ordinarietà e un qualcosa di inaspettato: in altre parole il rimanere legati all’archetipo ma saperlo anche sospendere e trascendere, con gesti discreti ma sofisticati. Super normale è il contrario di «speciale»: «vi sono modi migliori per progettare che concentrarsi esclusivamente nel creare cose che paiono speciali. Speciale è solitamente meno utile di normale e di minor soddisfazione nel tempo. Le cose speciali attirano l’attenzione per motivi sbagliati, interrompendo un’atmosfera potenzialmente positiva con la loro strana presenza».4

Tutti questi pensieri si possono mettere alla prova nelle due sezioni che compongono la mostra al Museum für Gestaltung. Nella prima si ripercorre la produzione – estremamente variegata – del designer, partendo dai primi esperimenti sul tema del ready made degli anni Ottanta – esercizi di attenta rielaborazione dell’esistente – e attraversando i suoi pezzi più famosi: le maniglie per fsb (1990); il portabottiglie per Magis (1994); le tante sedie per Cappellini; la lampada Glo-Ball per Flos (1999); il cestino per Magis (2005); la sedia hal per Vitra (2010); il telefono dp01 (2010); eccetera. La seconda parte, chiamata «MyCollection», è una bella e inedita sorpresa: qui sono esposti pezzi scelti da Morrison stesso dalla vasta collezione del museo zurighese, spiegandone il motivo. C’è ad esempio un annaffiatoio per cactus del 1935 che sembra un cigno; una sedia di Carl Steiger dei primi anni Trenta («se potessi prendere e tenere un pezzo dalla collezione del museo, sceglierei questo»); una sedia Chiavarina del 1807 (antenata della Superleggera di Gio Ponti); un elmetto da cantiere degli anni Cinquanta della mewa-Blattmann. Quest’ultimo è stato scelto non per la capacità di resistere agli urti, ma perché «esposto qui, rimosso dalla realtà del cantiere, è un oggetto affascinante».