Due epi­so­di del­la sto­ria re­cen­te: la mo­stra No na­me de­si­gn e l’im­ma­gi­ne gra­fi­ca

Data di pubblicazione
28-02-2023

Il legame tra le culture progettuali che Italia e Svizzera esprimono è profondo e duraturo. Dal Secondo dopoguerra ad oggi sono molteplici i casi, le vicende e i sodalizi che hanno avuto per protagonisti designer, imprese, scuole svizzere e italiane. Dovendomi concentrare su quanto è accaduto alla Triennale nel recente passato e nell’immediato presente, ho individuato due storie che a mio avviso testimoniano un agire e una sensibilità comuni. La semplicità, nascosta dietro l’apparenza dell’oggetto banale o della comunicazione più essenziale, offre una visione del mondo al servizio dell’utente e soprattutto descrive un metodo compositivo che include la cultura materiale, un atteggiamento orizzontale nel trasformare un’intuizione creativa in una soluzione, nonché il rispetto dei materiali.

Nel 2014 Triennale Milano ospitò l’itineranza di una mostra curata da Franco Clivio e Hans Hansen. S’intitolava No name design e arrivava negli spazi del Palazzo dell’Arte dopo la sua originaria messa in scena per il MUDAC di Losanna. In ideale sintonia con il concetto di design anonimo tanto caro a figure come Bruno Munari e Achille Castiglioni con Max Huber, l’esposizione proponeva ordinatamente circa mille oggetti provenienti dalla collezione personale di Clivio, cultore e collezionista di oggetti di uso comune. La mostra faceva riferimento all’abusato concetto di cabinet of curiosities, ma mai come in questo caso tale evocazione era stata rispettata mantenendo una promessa tanto tassonomica quanto divulgativa. La cartella stampa che accompagnava la mostra svizzera poi ospitata in Triennale riportava come in un bugiardino farmacologico una secca descrizione di quello che in mostra appariva in tutta la sua potenza enciclopedica.

«Per diversi decenni, Franco Clivio, designer e docente presso la Zürich Schule für Gestaltung ha collezionato, con passione e rara perspicacia, oggetti di uso comune e solitamente considerati banali e poco spettacolari. Questi oggetti sono stati classificati per funzioni o tipologie, materiali o famiglie formali dando anche origine a una pubblicazione (Franco Clivio, Hans Hansen, Pierre Mendell, Hidden Forms, Skira, Milano 2009). La mostra, elaborata dallo stesso Clivio, presenta una selezione significativa delle sue scoperte. Spesso progettati da anonimi designer, questi oggetti rendono omaggi alla genialità di artigiani e tecnici nel fornire soluzioni a una serie di problemi. La mostra affronta questioni legate, per esempio, a un originale e alle sue copie, al modello che consente di sviluppare una vasta gamma di prodotti, all’antico ma ancora attuale problema della scelta dei materiali, naturali o artificiali, e delle tecniche che queste scelte mettono in gioco. Una presentazione completa in chiave giocosa, pedagogica e, a volte, poetica».

La lezione di Clivio ci invita ad allenare lo sguardo nei confronti del quotidiano poiché lo spirito di osservazione è una pratica che non deve trascurare ogni dimensione del reale. Clivio metteva in evidenza l’ingegnosità e l’intelligenza degli utensili attraverso un omaggio a oggetti insignificanti per il grande pubblico ma strumentali per il designer, che ha il compito di immaginare la loro relazione per interpretare i bisogni del pubblico. Ciò che modifica e migliora la qualità della nostra vita passa da questo corredo di oggetti e dalle relazioni che stabiliscono coi nostri comportamenti. In Clivio c’è un atteggiamento che premia l’essenzialità dell’oggetto e l’ironia della sua identità quando estratta da un contesto, da un meccanismo, da una logica meccanica combinatoria e organizzata.

Per certi aspetti quello di Clivio assomiglia a un inconsapevole sabotaggio del proverbiale minimalismo svizzero. Gli oggetti, collezionati, classificati, disposti e allestiti, sono uno spartito ordinato che trattiene armonie, rapporti ma anche errori e curiosità in cui tutto si tiene. Franco Clivio mi fa tornare in mente quell’elegante distanza che Pierluigi Cerri nutriva nei confronti della definizione che gli veniva affibbiata di «progettista minimalista» proprio per il suo atteggiamento di assoluta chiarezza nell’orchestrare segni, oggetti e colori in allestimenti e progetti. In occasione della sua recente scomparsa, lo storico del design Giampiero Bosoni scriveva un suo ricordo sulle pagine de «Il Giornale dell’Architettura» (7 dicembre 2022) dove riportava una fulminante dichiarazione di Cerri rispetto al fastidio che lui stesso provava quando lo chiamavano minimalista: «Sicuramente la rifiuto. Dire minimalista non vuol dire niente. È una parola di moda e poi il minimalismo in sé e per sé può essere molto noioso. Se per minimalista s’intende Mies van der Rohe allora mi va benissimo esserlo, ma sinceramente Mies lo definirei più un architetto concettuale…».

Questa dichiarazione mi aiuta a introdurre il secondo episodio che ho individuato per raccontare i recenti rapporti tra design svizzero e design italiano avvenuti nelle pertinenze del Palazzo dell’Arte di Giovanni Muzio. Nel 2019 Triennale Milano ha scelto di adottare una nuova immagine coordinata. Ad avvicendarsi nel ruolo che era stato precedentemente ricoperto da Pierluigi Cerri e Italo Lupi, sono arrivati i NORM, studio di grafica fondato a Zurigo nel 1999 da Dimitri Bruni, Manuel Krebs e Ludovic Varone. Il processo di selezione e affidamento ha coinvolto oltre duecento realtà professionali provenienti da Europa, Americhe e Asia. I dieci finalisti sono stati giudicati da una commissione di personalità e committenti, tra cui Stefano Boeri, Amanda Kasper, Marco Tortoioli Ricci, Alessandra Montecchi, Joseph Grima, Francesco Franchi e Edoardo Bonaspetti.

Triennale Milano era alla ricerca di un progetto complessivo che a partire dal logo toccasse tutti gli strumenti di comunicazione, dal sito alla segnaletica interna, dai cataloghi alla cartellonistica.

La motivazione della commissione nell’assegnare al progetto dei NORM il primo premio era così argomentata: «Il progetto, oltre a interpretare coerentemente le richieste indicate in fase di brief, si distingue per la semplicità con la quale dimostra di poter supportare e sostenere, anche su un lungo tempo, un sistema di comunicazione visiva ampio e vario come quello della Triennale di Milano. La proposta grafica concilia elementi assimilabili a uno stile istituzionale e rigoroso senza però risultare monotona o distaccata, fredda. In particolare, il marchio proposto riesce a rendere moderno e riconoscibile un semplice elemento grafico (la «T», elemento storicamente molto legato alla comunicazione dell’Istituzione) che in altri contesti o configurazioni risulterebbe debole o di difficile caratterizzazione. La proposta di naming abbreviato “Triennale Milano” non si limita a migliorare l’impatto estetico della proposta ma facilita l’identificazione e la comunicazione a pubblici esteri, obiettivo di fondamentale importanza. Infine, le scelte legate alla tipografia alleggeriscono e ammodernano l’impatto dei materiali, senza perdere un carattere istituzionale e il legame storico al mondo progettuale che caratterizza tutte le attività dell’Istituzione».

A questo proposito durante il mese di novembre del 2022 ho scelto di intervistare Dimitri, Manuel e Ludovic di NORM per restituire il sapore e le fasi di questo progetto di comunicazione visiva che oggi accompagna tutte le attività e le produzioni culturali della nostra Istituzione.

MS Triennale Milano è un universo multidisciplinare, dove una varietà di linguaggi artistici trova spazio per un continuo dialogo sul presente. Avete avuto una «stella polare» che vi ha guidati attraverso la fase progettuale? Quali sono stati i riferimenti storici, geografici e visivi che vi hanno portati alla creazione della nuova visual identity di Triennale Milano? 

NORM La prima e più importante reference è stata proprio la Triennale in sé. Ancora prima di iniziare la fase progettuale, abbiamo speso moltissimo tempo osservando i poster delle Esposizioni Internazionali. I 23 poster creati negli ultimi 100 anni ci hanno senza dubbio affascinati, per la loro innata capacità di raccontare la storia del graphic design dalle sue origini alla data attuale. Ma oltre ai magnifici poster storici dei primi anni, i manifesti della XIII, XIV, e XV Triennale hanno attirato la nostra attenzione per l’espressività e la loro «attitude», che ci hanno senz’altro dato una direzione più chiara per costruire il framework entro cui avremmo voluto progettare la nuova immagine dell’Istituzione. C’è poi un secondo aspetto che ha costituito un terreno di approfondimento per noi: fin da quando abbiamo fondato NORM, siamo sempre stati interessati allo stile svizzero, anche se abbiamo sempre apprezzato più le idee progettuali in luogo del prodotto. Ebbene, quello che stava accadendo allo stesso tempo in Italia a metà del secolo, che si trattasse di grafica o product design, ci ha sempre molto affascinato. Il design in Italia era più ottimista ed elegante in questo periodo, a differenza di quello contemporaneo in Svizzera, che – ci sentiamo di dire – è rimasto intrappolato nei suoi concetti protestanti.

MS Nel 2023 la Triennale celebrerà i suoi primi 100 anni: uno dei vincoli della call for proposals prevedeva di rispettare «l’importante storia e tradizione dell’Istituzione», aggiungendo caratteristiche come innovazione, semplicità e chiarezza. Come avete scelto di preservare l’identità storica dell’Istituzione e dandole allo stesso tempo una nuova veste?

NORM Noi siamo profondamente convinti che l’aspetto della «novità» arrivi naturalmente: i mezzi e i processi di produzione riflettono sempre l’epoca in cui avvengono. Ma non dobbiamo dimenticarci che il logo è solo uno degli elementi di un’identità visiva. Naturalmente, è la stella, ma ci sono altri aspetti che svolgono un ruolo altrettanto miliare, ma che sono in grado di catturare meno l’attenzione. Un elemento molto distintivo senza dubbio è il font che abbiamo scelto (LL Riforma Bold), che usiamo nel minor numero di formati possibili; un secondo accorgimento è la separazione di immagine e carattere, che certamente crea molta differenza. Ma ciò che è molto più importante: l’elemento vivente della Triennale sono gli eventi, le immagini delle mostre, le opere d’arte, gli oggetti, che alla fine della giornata formano la vera identità visiva dell’Istituzione. Noi abbiamo quindi contribuito solo a creare una cornice in tutto questo.

MS Il nuovo logo non presenta l’originaria connotazione spaziale, se confrontato con quello progettato da Italo Lupi. Possiamo affermare che questo tratto incarni la volontà dell’Istituzione di andare oltre le mura di Palazzo dell’Arte e raggiungere nuovi mondi? Pensate che la nuova identità visiva abbia contribuito (o contribuirà) ad affermare l’Istituzione sul proscenio internazionale?

NORM Per noi era chiaro che la nuova identità visiva avrebbe scritto un nuovo capitolo della grande storia di Triennale. La lettera «T» è come un filo rosso che scorre attraverso l’identità visiva dell’Istituzione (la prima volta che è stata usata probabilmente risale all’Esposizione Internazionale del 1947). Talvolta questo elemento visivo è stato più presente, altre volte meno. Abbiamo quindi voluto conservare proprio questa continuità distintiva e non porci in un atteggiamento di rottura. Superare totalmente l’idea di Italo Lupi non sarebbe stata la strada più giusta, il portare in gioco il palazzo all’interno della progettazione, infatti, è stata una sua suggestione. E abbiamo anche ripreso un altro dei suoi elementi, la grande «T». La domanda che ci ha guidato nella fase di progettazione, però, è stata: «Come possiamo creare una “T” più particolare e unica?». Eravamo alla ricerca di un elemento che potesse essere accostato e si combinasse felicemente ad altre componenti grafiche. In ogni caso, il dettaglio più decisivo, che certamente non è stato merito nostro, ce l’ha dato in primis Dario Zampiron, Design Manager di Triennale, che ci ha aiutato ad affrontare tutte le peculiarità dell’Istituzione culturale. La nuova identità visiva che abbiamo pensato per questo specifico contesto, seppur rigorosa, trae la sua ragion d’essere proprio dall’universo multidisciplinare di Triennale Milano, dal suo essere all’ascolto di più mondi e in contatto con le comunità cittadine, nonché dalla qualità scientifica ed estetica che percorre tutte le fasi progettuali, dall’ideazione alla pianificazione, dalla strutturazione dei contenuti alla presentazione al pubblico.