Bio­sfe­ra ca­na­de­se

Data di pubblicazione
25-04-2023

Visitata nella stagione invernale, quando freddo e neve attutiscono il turismo e i colori del parco circostante, la celebre Biosphère di Montréal appare ancora più astratta e radicale. Metafisica nella sua purezza geometrica, ma più che concreta nella sostanza costruttiva fatta di aste e giunti metallici ripetuti all’infinito, la gigantesca cupola realizzata da Richard Buckminster Fuller e Shoji Sadao riassume un’ampia fila di significati, anche in contraddizione tra loro, attribuiti dai suoi autori e dalle vicende successive all’inaugurazione.

Com’è noto, essa fu concepita per ospitare il padiglione americano all’Expo del 1967, sulla scia delle ricerche di Fuller su strutture leggere e flessibili. Costituita da 3/4 di sfera geodetica con 76,2 m di diametro, è composta da due strutture concentriche, collegate per generare una maglia spaziale a tetraedri. Dietro alla forma ideale, che suggerirebbe una costruzione di pezzi tutti uguali, si cela però un puzzle ben più complesso, con un’estrema varietà di profili e posizionamenti ad hoc. In origine era ricoperta da pannelli esagonali in acrilico trasparente e tende controllate da sensori: Fuller la paragonava a una pelle capace di mostrare il paesaggio ma anche di mitigarne gli «inconvenienti» (calore, inquinamento, insetti ecc.) per offrire un Giardino dell’Eden.

La vita della «Bucky’s Bubble» è stata da allora molto movimentata. Invece di smontarla, fu resa permanente e trasformata in un’enorme voliera con 600 uccelli, mentre gli edifici all’interno, disegnati da Cambridge Seven Associates, divennero terrazze verdi con addirittura un giardino rinascimentale, sculture e fontane. In linea con la vocazione ecologista di Fuller e i timori ambientali del decennio, nel 1973 diventò un padiglione chiamato Man and His Environment, che però ebbe vita breve. Il 20 maggio 1976 un incendio bruciò in soli 15 minuti tutti i pannelli acrilici, mettendo così in crisi la sostanza ma soprattutto il mito di tale architettura. Salutata come una meraviglia della tecnologia, la cupola in fiamme – involontariamente simile alle performance delle neoavanguardie – stimolava la critica all’ottimismo tecnologico, come ha sottolineato lo storico Réjean Legault.

I pannelli non saranno mai ripristinati: da allora la cupola è uno schermo diafano e simbolico più che funzionale; una sorta di aureola a protezione di un contenuto incerto. Da simbolo del futuro, la Biosphère diventò una rovina, icona distopica in film post-apocalittici come Quintet di Robert Altman e nella serie Battlestar Galactica, o luogo per le peregrinazioni di artisti locali (Robert Duchesnay).

Per fortuna nel 1990 nacque l’idea di un museo dedicato all’acqua, inaugurato nel 1995, ma nel 1998 un’epocale tempesta di ghiaccio danneggerà (con enormi stalattiti cadute sul tetto) il museo, chiuso per sei mesi. Nel 2007 prese il nome di Environmental Museum, per poi esplorare – dopo la scongiurata trasformazione in stazione meteorologica – l’idea di un centro di ricerca e creazione per realtà virtuale e settori limitrofi.

Oggi, per fortuna, la cupola è ancora lì, a evocare con la sua forma perfetta l’intera storia del costruire (dal Pantheon a Leonardo, fino alle «bolle» gonfiabili della contro-cultura anni Sessanta), ma soprattutto una continua oscillazione semantica e materica. Dall’utopia alla distopia, dalla gloria all’abbandono, dalle fiamme ai ghiacci, la Biosphère ci ricorda come l’architettura, seppur immobile, sia cosa viva e in continua evoluzione: funzioni e significati si appropriano della forma, rispecchiando la società e l’ambiente circostante, aprendosi a infinite interpretazioni che vanno ben oltre la fantasia dell’autore.