Le giu­rie nei con­corsi

Con la pubblicazione di questo testo di Gino Boila, la redazione di archi auspica l'apertura di un dibattito sulle giurie nei concorsi d'architettura.

Date de publication
03-02-2014
Revision
19-08-2015

Spunto per questo breve scritto sui concorsi d’architettura è dato dall’esito del recente concorso per l’edificazione di un centro diurno per anziani a Bioggio. Il risultato ha dimostrato ancora una volta quanto la soggettività nel giudizio sia stato il fattore predominante. Entro certi limiti la soggettività è l’unica variabile che può essere accettata nel giudicare, soprattutto se si opera in un settore dove non esiste un’unica corrente di pensiero. Queste si plasmano con la comune visione delle cose, con il conclamato modo di funzionare all’interno di una società moderna e occidentale, ed offrono comunque ampi margini di manovra. Il giurato i suoi limiti li deve interpretare secondo la propria scienza e coscienza. In questo senso è da ritenersi sbagliato fondare il giudizio critico sull’espressione dell’opinione personale ma, al contrario, esso va costruito sulla razionalità e sul metodo. Questi ultimi sono infatti basati su dati riscontrabili e comprovabili che, a differenza del gusto personale e delle opinioni, permettono un confronto dialettico che, al contrario, non sarebbe possibile sostenere. Per questo motivo, la qualità di un’opera non può essere valutata in base alla soggettività del giurato ma bensì sulla base della reale capacità che un progetto ha di risolvere in maniera coerente le problematiche sollevate dal tema, dal luogo, dal programma degli spazi e dagli aspetti economici. 

Nella fattispecie il concorso di Bioggio presentava alcuni temi meritevoli di un ampio dibattito: il rapporto con la strada cantonale, la posizione di cerniera tra il nucleo storico e la zona industriale, il rapporto tra pubblico e privato all’interno del complesso e, non da ultimo, il valore della villa e degli imponenti cedri, inteso come rispetto e memoria storica nei confronti della città e della popolazione. Tutte le domande relative a questi temi sembrano essere strettamente legate all’oggettività della composizione architettonica e non alla soggettività del giurato. È quindi lecito chiedersi quali siano state le motivazioni che hanno portato alla scelta del progetto vincitore.

Ad essere messo sul «banco degli imputati» non è tanto il principio del concorso (sacrosanto) ma piuttosto il metodo ed il criterio che dovrebbe guidare le scelte per la composizione della giuria. La giuria è il cuore pulsante di ogni concorso: essa, infatti, giudica, decide e in ultima analisi propone. Per esercitare con la massima professionalità è necessario essere coscienti che la posizione di giurato implica una grande responsabilità nei confronti prima di tutto dei progettisti che hanno preso parte alla gara e nei confronti della società che la giuria dovrebbe rappresentare. L’architetto diventa quindi la figura garante in questo processo culturale che vede l’architettura al servizio del territorio e della popolazione. Ovvio e scontato che non deve accadere il contrario, ovvero l’architettura che si mette a servizio di un ristretto numero di architetti. Come possiamo quindi affrontare una gara con la necessaria fiducia verso chi è chiamato a giudicare il nostro lavoro? 

Qualche idea nel cassetto ci sarebbe e ho già avuto modo in passato di esprimermi in materia: una di queste potrebbe essere la rotazione costante degli architetti membri della giuria: ma non la rotazione fra i soliti 10/15 architetti, piuttosto una rotazione a più ampio raggio. Non si capisce perché, infatti, debbano sempre essere gli stessi nomi a capeggiare nelle giurie dei concorsi, quasi a far credere che soltanto loro abbiano in mano il sacro sapere architettonico: oltre che a risultare carichi di egocentrico narcisismo nuocciono alla credibilità della causa del concorso in primo luogo e al dibattito culturale che da esso può scaturire.

Negli anni è stato compiuto uno sforzo non indifferente per promuovere il concorso d’architettura, tanto da farlo diventare obbligatorio almeno nei contesti pubblici. Si è lavorato molto sulla committenza convincendola che la via del confronto pubblico è senz’altro la soluzione migliore. A fronte di tutto questo pregevole lavoro, altrettanto non si può dire sulla qualità delle giurie in generale: infatti sempre più spesso si assiste a contenziosi, reclami, ricorsi, con la conseguente perdita d’immagine verso questa nobile e democratica prassi.

Per i concorsi internazionali, ai quali generalmente vengono chiamati gruppi interdisciplinari di progettisti, la giuria deve essere pluriculturale e pluriprofessionale, ma sempre rappresentata da una maggioranza di architetti, nel caso specifico provenienti da diversi paesi. Per concorsi nazionali e regionali dovrebbe vigere la medesima regola: 3/4/5 architetti (numero proporzionale alla quantità di non specialisti presenti in giuria) capeggiati da un architetto.

Se si considera unicamente il nostro cantone si può affermare, semplificando molto, che su 300.000 abitanti operino circa 300 architetti, più o meno liberi professionisti: uno ogni 1000 abitanti. Supponiamo pure che di questi 300 la metà non abbia interesse, capacità e motivazione per partecipare a sedute di giuria. Riducendo ancora si può comunque affermare senza essere smentiti, che un centinaio di architetti, compresi i giovani e fantasiosi diplomati, abbiano tutti i requisiti necessari per impedire che l’aspetto architettonico delle commesse pubbliche sia plasmato unicamente dai soliti professori.

Ogni concorrente che intenda prendere parte ad un concorso d’architettura deve rispondere a requisiti chiari e specifici generalmente riportati nel bando di concorso. Tuttavia non si fa cenno alcuno sui requisiti necessari per i professionisti chiamati a far parte di una giuria. Ciò è dovuto al fatto che per poter approvare la composizione di una giuria è necessario istituire una speciale commissione «super partes» che in Ticino esiste ed è la Commissione dei Concorsi facente capo alla sia.

Tale Commissione opera sul territorio per sensibilizzare committenti pubblici e privati sull’uso costante del mezzo del concorso pubblico al fine di garantire, tramite lo stimolante confronto di idee, un’alta qualità del prodotto architettonico. Elabora linee direttive sulle possibili procedure e tipologie di concorso definendo in sommi capi le caratteristiche principali che ogni iter dovrebbe seguire.

Viene posto, giustamente, l’accento sulla qualità del «prodotto» proprio perché «… il costruire costa in termini ambientali e in termini finanziari. Occorre quindi scegliere soluzioni attente all’ambiente, che sappiano sfruttare il grande potenziale di creatività dell’architettura, che siano funzionali alle esigenze e finanziariamente sostenibili.» Ma chi è chiamato a verificare e a giudicare queste indiscutibili caratteristiche? La giuria, naturalmente! A questo punto nasce spontanea la domanda: quali sono i criteri di valutazione che dovrebbe adottare la Commissione dei concorsi per comporre/proporre una giuria in grado di poter espletare il proprio compito con qualità e oggettività?

Lancio la domanda a chi crede nel concorso d’architettura, a chi crede nel confronto diretto e a tutti quelli che hanno qualcosa da dire.

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