Oltre la «Swiss box», nell’onda lunga della tra­di­zione

Date de publication
07-12-2022
Alberto Bologna
Architetto PhD, ricercatore DiAP – Sapienza Università di Roma

Identificare il concetto di innovazione progettuale con quanto accade oggi nel panorama professionale legato all'architettura e all'ingegneria è un’operazione critica non immediata o, per lo meno, paradossalmente più complessa rispetto a una medesima iniziativa estesa al ben più vasto ambito dell’industria e della tecnologia delle costruzioni. Infatti, com’è noto, il concetto d’innovazione nel campo dell’edilizia svizzera viene fatto comunemente (e globalmente) corrispondere alla conseguenza di una generalizzata e diffusa conoscenza tecnica, precisione, cura del dettaglio e sensibilità applicata all’arte del costruire, in grado di mettere in relazione le più recenti e performanti tecnologie costruttive importate dall’estero o brevettate e prodotte sul territorio con le capacità di messa in opera dei materiali, proprie di un artigianato di precisione che possiede ancora un’indiscutibile e riconosciuta maestria nell’impiego delle risorse reperibili anche localmente. Si può dunque affermare che le recenti riflessioni elaborate a livello nazionale, a seguito della pubblicazione nel 2021 da parte dell’Ufficio federale del Sistema Davos per la qualità (SDQ), intorno al significato e all’appropriatezza nel ricorso al concetto di Baukultur derivino proprio da questa attitudine che, a tratti, prende le sfaccettature di vero e proprio, nonchè nobilissimo, stereotipo nazionale.

Osservando – da sud rispetto alle Alpi – quanto sta avvenendo oggigiorno nel panorama professionale elvetico ci si rende conto come la cosiddetta innovazione progettuale (locuzione tanto ambiziosa quanto vaga e ambigua) non sia per forza sinonimo di nuove generazioni di progettisti. Una considerazione che vale tanto per l’architettura quanto per l’ingegneria. In entrambi i campi, tuttavia, innovazione e tradizione così come i diversi approcci generazionali al progetto sono, sempre e comunque, in grado di esaltare le istanze locali legate alla natura morfologica del territorio e alla costruzione: si tratta di due fattori che si pongono, dunque, come prioritari tanto all’interno del complesso processo creativo, quanto nell’intero svolgersi dell’incarico professionale, dalla definizione concettuale dell’opera alla chiusura del cantiere. Prassi che creano denominatori comuni immediatamente coglibili attraverso quella diffusa percezione di una sensazione di qualità dell’opera costruita che ha portato, nel 2017, R.James Breiding – già autore del noto saggio Swiss Made. The Untold Story Behind Switzerland’s Success 1 – a includere nell’accezione architettonica del termine Swissness «una particolare combinazione di precisione e frugalità».2

A partire da queste premesse, nel campo dell’architettura, nell’operato dei progettisti più giovani prevalgono, grossomodo, due approcci. Esiste una categoria di professionisti, non necessariamente di nazionalità svizzera, che sembra non riuscire (o non volere) distaccarsi dai ben consolidati filoni di ricerca compositiva, spaziale, formale già tracciati dai conclamati maestri delle due precedenti generazioni: spesso, al pari dei loro predecessori, costruiscono la loro fortuna a livello locale e le loro ambizioni professionali sembrano confinate ai limiti geografici imposti o dalla città nella quale risiedono e lavorano, o al massimo al loro Cantone di riferimento. Allo stesso tempo, osserviamo la presenza di uffici che danno l’impressione di porsi in forte antitesi con il collaudato, e ormai un po’ nostalgico, modello formale della cosiddetta «Swiss box» (altro nobilissimo stereotipo nazionale e formulazione critica che, dagli anni Novanta, completa ed esplicita «pragmatismo, coerenza e precisione costruttiva, perfezione tecnica, accuratezza del dettaglio, semplicità»3 nel campo dell’architettura) o con il derivare in maniera enfatica i propri linguaggi compositivi ed espressivi esclusivamente dalla tradizione vernacolare locale e che, dalla Svizzera, elaborano pure progetti da realizzare poi nel mondo intero.

Se si scorrono molti dei profili e dei curricula dei fondatori di studi collocabili all’interno delle due categorie sopracitate e nati a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, ci si rende conto che, in entrambi i casi, si tratta di architetti formatisi nel quadro degli ormai pienamente collaudati meccanismi di scambi culturali e di cooperazione tra università, presenti nel panorama educativo elvetico dal 1987. I programmi Erasmus (dal 2014, in Svizzera, Erasmus+), che hanno permesso la mobilità studentesca a livello europeo, ma pure il Das schweizerische Mobilitätsprogramm che ha consentito – e consente – agli studenti delle diverse Scuole di architettura svizzere di frequentare semestri di corsi in altre università della confederazione rispetto a quella di provenienza.

Un legame, quello con la propria alma mater, che spesso funge da vero e proprio pedigree per un architetto formatosi in Svizzera, reso indissolubile anche grazie alle grandi personalità attratte, anche dall’estero, a insegnare a Mendrisio, Losanna e Zurigo per via della indiscussa reputazione internazionale ormai maturata dalle loro Scuole. Le ricadute di questi insegnamenti sulla corrente pratica professionale si evidenzia così, spesso, nei modi di fare architettura da parte delle più giovani generazioni di progettisti. «Siamo svizzeri non solo per via della nostra nazionalità, ma lo siamo anche proprio come architetti», rivelano ad esempio Matteo Inches (classe 1981) e Nastasja Geleta (1984). «La nostra "Swissness" nasce dalla nostra formazione, avvenuta nelle università locali, e da un approccio che ha contraddistinto l’architettura della nostra regione, il Cantone Ticino, nella seconda metà del XX secolo: cerchiamo di seguire le orme degli architetti della generazione Tendenzen, che si preoccupavano del rapporto tra l’opera architettonica e il luogo in cui è costruita».4 Si tratta di realtà emergenti che, in ogni caso, reclamano a gran voce la loro indipendenza generazionale, ben consci tuttavia dell’ingombrante lascito dei loro maestri che, tra l’altro, a tutt’oggi spesso sono ancora nel pieno della loro attività. Per esempio, Florian Sauter (1978) e Charlotte von Moos (1977), riferendosi all’architettura degli anni Novanta, ammettono come «in fondo, tutti noi abbiamo lavorato o studiato in maniera più o meno prolungata con uno dei protagonisti di quel periodo "eroico" e pioneristico». Ammettono di appartenere alla «"generazione degli studenti", che beneficia dell’interesse per l’architettura svizzera creato dalla generazione precedente, ma che ha più che mai bisogno di seguire le energie progressiste che definiscono l’architettura in altre parti del mondo» e di guardare «a questa generazione paterna con rispetto e con l’intenzione di integrare le lezioni apprese in un modo piuttosto evolutivo anziché rivoluzionario».5

Sono queste istantanee significative di un contesto, non solo lavorativo ma anche (in senso più ampio) culturale e in cui si produce architettura di una generalizzata alta qualità, assai variegato e in continuo divenire che, già alla fine del 2011, incominciava a venire osservato criticamente, sistematizzato e divulgato grazie all’indagine promossa dalla rivista «Werk. Bauen + Wohnen» all’interno del numero intitolato Um dreissing / Dans la trentaine / Abouth thirty e dedicato a progetti, realizzati e non, da architetti all’epoca trentenni:6 il panorama professionale nazionale viene qui osservato a partire da una classificazione data dalla dislocazione geografica sul territorio dei giovani ritenuti emergenti. Otto sono gli studi selezionati per la Svizzera Romanda, sette per Zurigo e sei rispettivamente per Berna con Biel, la Svizzera centrale, il Ticino e Basilea.

A fronte di una sorprendente maturità messa in campo attraverso culture del progetto che si presentano come assai diverse tra loro – frutto tanto dell’influenza dei fattori locali quanto, proprio, della formazione degli architetti – si deducono già quegli evidenti tratti comuni capaci di caratterizzare, ancor oggi, le principali traiettorie di ricerca delle giovani realtà professionali emergenti, le cui radici affondano proprio nella medesima tradizione della Baukultur mitteleuropea che ha alimentato i vocabolari espressivi della precedente generazione dei maestri. Si tratta di una ricerca della dimensione poetica e compositiva dell’architettura capace di coniugare modelli tipologici anche consolidati (nel caso, ad esempio, di edifici residenziali multipiano) con una sperimentazione condotta principalmente attraverso l’esaltazione dell’espressività dei materiali: il loro impiego crea uno specifico rapporto col contesto, sancisce il carattere emozionale degli spazi interni, determina i fattori tattili ed epidermici delle facciate e, più in generale, l’intera componente superficiale degli edifici, anche grazie a esecuzioni che rivelano la tradizionale elevata capacità costruttiva di imprese e maestranze.

Territorio privilegiato di ricerca e sperimentazione è l’edificio alla piccola scala, fattore che accomuna questi architetti tanto ai loro conclamati maestri quanto alla già successiva, e attuale, generazione di progettisti emergenti che operano in Svizzera, cui la prestigiosa rivista giapponese «a+u Architecture and Urbanism» nel 2019 dedica il numero 580: vengono qui presentati progetti e realizzazioni di undici studi svizzeri (qui raggruppati all’interno di tre macro-aree geografiche) fondati da professionisti con meno di quarantacinque anni d’età. Delle realtà emergenti presentate otto anni prima su «Werk. Bauen + Wohnen», solo l’ufficio Duplex Architekten fondato a Zurigo da Anne Kaestle (1975) e Dan Schürch (1976) compare pure su «a+u» 580, un numero curato da Andreas Ruby (attualmente direttore del S AM – Museo Svizzero di Architettura di Basilea) e realizzato col supporto della Confederazione Elvetica e dell’Ambasciata svizzera in Giappone. «a+u» 580 si pone come un’operazione critica e documentaria assai rilevante, capace di trasportare al di fuori dei confini nazionali tanto i formalismi correnti quanto, non ultimo (per il tramite di brevi interviste), i pensieri dei progettisti circa il loro soggettivo interpretare il senso di essere oggi degli architetti operanti in Svizzera: ancora una volta, sono presentati edifici dai codici espressivi assai etero­genei, talora in armonia, talora assai distanti dal solco tracciato proprio da quei maestri (identificati da Ruby in Peter Zumthor, Peter Märkli, Herzog & De Meuron, Diener & Diener e Mario Botta) che da almeno 30-40 anni stanno rendendo celebre nel mondo l’architettura elvetica.

Nella sua prefazione Ruby riflette come non solo ci sia­no oggi in Svizzera molti uffici fondati e gestiti da giovani, solitamente organizzati come piccole imprese formate da 5 a 20 dipendenti, ma che «grazie a un sistema di concorsi straordinariamente bene organizzati, riescono spesso anche a ricevere commesse concrete, a volte a distanza di pochi anni dal diploma in architettura». Si tratta tuttavia di una generazione che sta pagando – in termini di riconoscibilità espressiva – il caro prezzo di succedere proprio ai loro adorati maestri: infatti «l’immagine dell’architettura svizzera è ancora impregnata dall’“età dell’oro” dell’architettura minimalista svizzera con il suo meraviglioso inquietante linguaggio di volumi astratti in calcestruzzo immacolato fatto di sofisticati e invisibili dettagli, superbamente realizzati con una precisione stellare», scrive Ruby.

Sia la produzione presentata su «a+u» 580, sia quella ancora più recente completata negli ultimi anni convalida ulteriormente la centralità nell’ambito della cultura del progetto elvetico contemporaneo di quei cinque edifici di piccola scala selezionati nel 2016 da Carlo Prati quali esempi rilevanti di una stagione dell’architettura svizzera in grado di esplicitare con grande chiarezza il rapporto tra architettura e natura, nella ricerca di quelli che egli definisce «gli aspetti inconsci della costruzione».7 Si può sostenere che queste icone abbiano prodotto un lascito intellettuale e tecnico, le cui ricadute sull’architettura d’oggi progettata dalle più giovani generazioni si manifestano in primis proprio nella dimensione poetica dello spazio, ma pure nel complesso rapporto tra costruzione e aspetti compositivi e ornamentali, derivati dal caratteristico pragmatismo costruttivo elvetico: il tutto secondo un approccio capace di andare al di là degli specifici formalismi e codici espressivi che determinano poi i linguaggi adottati e che, invece, sono ancora il tratto distintivo che sancisce l’odierno successo delle architetture (anche le più recenti) progettate dai maestri della generazione precedente. La Gelbe Haus di Valerio Olgiati a Flims, casa Williman-Lötscher di Bearth & Deplazes a Sevgein, la Stiva de Mort di Gion Caminada a Vrin, La Congiunta di Peter Märkli a Giornico e la cappella di Peter Zumthor a Sogn Benedetg hanno, di fatto, consegnato all’attuale generazione di progettisti la responsabilità di dover dimostrarsi subito pronti e all’altezza nel saper dare un valore tettonico e compositivo a una muratura esistente in pietra, nel costruire un apparato ornamentale a partire dagli innesti, dalle commettiture e dagli effetti dell’invecchiamento di una parete in elementi di legno oppure di saper far interagire le superfici del calcestruzzo lasciato a facciavista con la luce naturale per dar vita a elaborati tessuti lapidei in grado pure di generare spazi interni dalla forte componente emozionale. Non ultimo, viene loro attribuita una innata consapevolezza nei confronti della costruzione nel contesto, osservato alla larga scala: una sottintesa distintiva sensibilità nel saper far dialogare con l’architettura progettata tanto le più tradizionali istanze urbano-morfologiche, quanto trattandosi della «verde Svizzera» (ulteriore nobilissimo stereotipo nazionale) le ancora più complesse proprietà topografiche e paesaggistiche del territorio in cui si opera, con l’attesa di una risposta in chiave compositiva e spaziale che si appalesi tanto, ancora una volta, per mezzo del sapiente impiego dei materiali da costruzione quanto attraverso la concezione delle connessioni al suolo dell’edificio e col progetto del rapporto (sia fisico che sensoriale) tra uno spazio interno artificiale e uno esterno naturale.

Alla luce di queste considerazioni, si può dunque comprendere appieno la scelta di Anna Roos di includere nel catalogo di opere presentate all’interno del volume Swiss sensibility, pubblicato nel 2017 da Birkhäuser, i piccoli e raffinati bivacchi montani di Selina Walder e Georg Nickisch promuovendoli all’interno di quella eletta schiera di architetture in grado di esplicitare «l’acuta sensibilità dell’architetto svizzero per il contesto e la storia»8 nell’affiancarli a ben più noti e celebrati edifici progettati dai maestri della generazione precedente: tra questi, Olgiati e Zumthor coi quali Walder e Nickisch si sono diplomati a Mendrisio rispettivamente nel 2004 e nel 2005. Secondo i medesimi principi, non è certamente casuale la scelta dell’autorevole rivista spagnola «El Croquis» (tradizionalmente attenta, anche negli ultimi anni, al panorama dell’architettura elvetica)9 di dedicare il numero 196 del 2018 al lavoro dello studio di Ünal Karamuk e Jeannette Kuo, entrambi classe 1978, fondato a Zurigo nel 2010 (studio di cui Archi si è occupata nel n. 6/2020). I loro edifici, al pari di quelli di Walder e Nickisch sorprendentemente non inclusi all’interno di «a+u» 580, esemplificano in modo eclatante quell’attuale maniera svizzera di fare architettura capace di identificare l’operato distintivo della «generazione Erasmus»: è infatti grazie ai programmi di scambio internazionali che Karamuk e Kuo si formano tra l’ETH, Berkeley e Harvard. All’inizio della loro carriera, lavorano poi tra l’Europa (collaborando con Christian Kerez in Svizzera e Barkow Leibinger a Berlino) e gli Stati Uniti (SOM, OMA, REX Architecture, Architecture Research Office) dove la Kuo ha trascorso lunghi periodi ogni anno per via dei suoi ruoli accademici a Berkeley (2006-2007), al MIT (2007-2009) e alla Harvard Graduate School of Design (2016-2021) – oggi insegna Architettura e Costruzione alla Technische Universität München. Le loro architetture più rappresentative sono state realizzate a seguito di concorsi, come l’edificio residenziale a Cham (2016-2019), il complesso scolastico a Rapperswil-Jona (2013-2017), il già ampiamente celebrato Istituto internazionale per gli Sport e le Scienze dell’Università di Losanna (2013-2018), il centro archeologico Augusta Raurica ad Augst (2014-2022) oppure l’asilo ad Aadorf (2010-2013). Senza mai stravolgere quei codici espressivi che li rendono subito percettibili agli addetti ai lavori quali architetti svizzeri, i loro edifici non scadono mai nell’omologazione compositiva e formale: infatti, come ha già scritto Philip Ursprung su «El Croquis», «i loro progetti si adeguano agli standard e "soddisfano" i desideri dei clienti e allo stesso tempo fanno avanzare la disciplina dell’architettura». Un avanzamento che, per Karamuk e Kuo, al pari di praticamente tutti i loro coetanei elvetici, non è ossessionato dalla forzosa ricerca di quella espressione architettonica dettata dall’era del greening che invece sembra dover definire il rinnovamento dei codici compositivi adottati globalmente dalle giovani generazioni di progettisti ma che, come scrive ancora Ursprung, «riflette il pragmatismo e la fiducia in sé stessa della scena architettonica svizzera».10 Si tratta di architetture che, chiaramente, sfuggono a una tassonomia linguistica pre-codificata, capaci di prender forma a seconda delle diverse esigenze funzionali e che, oltretutto, fungono da cartina di tornasole rispetto alla condivisibile considerazione di Ruby, secondo cui la ricerca progettuale della generazione emergente di architetti svizzeri non si esalta di fronte «alla presunta autonomia dell’oggetto architettonico incontaminato che sfida eroicamente i limiti del suo contesto». Al contrario, «usano queste limitazioni come munizioni concettuali per attaccare l’immacolata “Swiss box”, proprio nell’interesse di renderla reattiva al flusso contraddittorio di informazioni fornito dai contesti in cui lavorano».11

Note


1. R. J. Breiding, Swiss Made. The Untold Story Behind Switzerland’s Success, Profile Books, London 2013.

2. R.J. Breiding, Beautiful business. Swiss achievement in architecture, in A. Roos (a cura di), Swiss sensibility. The culture of architecture in Switzerland, Birkhäuser, Basel 2017, p. 47.

3. M. Daguerre, Artificiale per natura, in M. Daguerre, Ville in Svizzera, Electa, Milano 2010, p. 5.

4. Intervista a M. Inches e N. Geleta, in «a+u Architecture and Urbanism», 2019, 580, p. 180.

5. Intervista a F. Sauter e C. von Moos, in «a+u Architecture and Urbanism», 2019, 580, p. 98.

6. Si veda «Werk. Bauen + Wohnen», 2011, n. 12.

7. C. Prati, Cinque architetture svizzere. Progetto, inconscio, natura, Libria, Melfi 2016, p. 13.

8. A. Roos, Foreword, in A. Roos (a cura di), Swiss sensibility, cit., p. 3.

9. Questi i più recenti numeri monografici di «El Croquis» dedicati ad architetti operanti in Svizzera: Christian Kerez (2015, 182), Sergison Bates (2016, 187), Karamuk Kuo (2018, 196), Bernardo Bader (2019, 202), Roger Boltshauser (2021, 209), Gion Caminada (2021, 210).

10. P. Ursprung, Works and days: the architecture of Karamuk Kuo, in «El Croquis», 2018, 196, p. 11.

11. A. Ruby, Swiss Architecture does not exist, in «a+u Architecture and Urbanism», 2019, 580, p.

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