L’ar­chi­tet­tura «ne­ces­sa­ria» di Aldo Rossi

Un dialogo

Al MAXXI di Roma, una mostra riflette sulla concezione dell'architettura di Aldo Rossi. Giulio Barazzetta ne ha parlato con il curatore, Alberto Ferlenga.

Date de publication
29-08-2021

Al primo piano del MAXXI la mostra si dispiega come una grande dorsale incurvata, fatta di modelli che emergono ad altezza d’uomo, raggruppati come in una città lineare. Disegni e documenti sono disposti in teche nella lunga base che la sorregge, come una didascalia corrente. Alle spalle, sulle pareti opposte, grandi disegni e dipinti incorniciati la inquadrano in una galleria. Tre stanze s’infrappongono in questa «galleria». Sono le soste che aprono o concludono lo snodarsi della città di modelli, i tre «fuochi» della mostra: Milano, Modena, Venezia, che sintetizzano le esperienze centrali dell’architettura di Rossi, condensate in tre costruzioni. Il titolo Aldo Rossi. L’architetto e le città nomina espressamente il fulcro di questa mostra sull’opera e sulla figura di Rossi.

Leggi la presentazione della mostra di Fulvio Irace

Giulio Barazzetta – Milano si trova dinnanzi a chi entra, con il grande modello del Duomo al centro circondato da documenti della formazione e della vita milanese di Rossi. Milano è il centro della sua esistenza e della sua riflessione, la città a cui sempre ritorna...

Alberto Ferlenga – Perché tutto è cominciato lì e non solo. Perché Rossi si riferirà sempre a Milano quando dovrà definire le forme di una piazza o di un edificio. Spesso passeggiando per la città cercava di cogliere o ricordare la misura di un monumento – e ve n’erano alcuni a cui tornava sempre, come la cappella Trivulzio del Bramantino – piuttosto che calcolare, a passi, la dimensione di uno spazio. Questo rapporto «sentimentale» e concreto con la sua città è sempre presente nei suoi progetti.
 

Modena a una estremità è il Cimitero di San Cataldo. Venezia al capo opposto della mostra è il Teatro del Mondo. Entrambi registrati da schizzi e disegni, dalle immagini fotografiche o dai filmati del loro farsi. L’architettura perennemente in via di compimento del Cimitero e, analogamente, il viaggio, il montaggio e smontaggio del Teatro galleggiante in navigazione, sull’acqua dei canali veneziani.
Tra stanze e galleria spiccano l’incisione originale de
La città analoga e il grande disegno a colori del cimitero di Modena intitolato Il gioco dell’oca. Per Alberto Ferlenga queste opere segnano due soglie significative del lavoro di Aldo Rossi. La prima, esposta alla Triennale del 1973, è la conclusione di un periodo concentrato sulla composizione di forme basilari e connotato da progetti e disegni sostanzialmente in «bianco e nero». La seconda, Il gioco dell’oca, emerge nel tempo fra la vincita del concorso nel 1971 e la costruzione del cimitero di Modena, di una città dei morti incompiuta in continua crescita.

Il progetto per il cimitero di Modena è una geniale intuizione: ben conscio che il compimento di un cimitero avviene in tempi lunghi, Rossi immagina un edificio che rappresenti se stesso in ogni momento della sua vita. Il cimitero di Modena ha questa capacità. La parte riesce a rappresentare una finitezza ancora oggi lontana. E il frammento risulta quasi più affascinante dell’insieme, giocando sull’ambiguità di un’opera che è al tempo stesso cantiere e rovina…
 

Guardando alla stanza di Milano e alle tavole della Città analoga e de Il Gioco dell’oca...

Potremmo dire che l’evoluzione della vicenda Rossi si collochi tra il rigore degli inizi, con lo stesso «bianco e nero» dei film del Neorealismo che amava o del suo Ornamento e delitto, e uno sguardo sempre più aperto e «colorato» che avrebbe, di lì a poco, incontrato le città del mondo.

Anche se nel progredire della sua opera non cambiano gli elementi architettonici di base (il cubo, il parallelepipedo, il cono ecc., presenti sia nei primi progetti che a Modena o nelle opere successive), cambiano però le dimensioni, che si dilatano, i materiali, i colori, e cambia la «curiosità» con cui si guardano attorno. Il Gallaratese, pur contenendo l’eco delle case a ballatoio e della vita popolare milanese, guardava essenzialmente a se stesso. Il cimitero di Modena, che pure è un’opera apparentemente metafisica, e una meditazione sui temi della morte della città e dell’uomo, si misura con un duplice contesto, quello del cimitero neoclassico che gli sorge accanto e quello della periferia modenese nella quale è immerso. Si tratta, in questo caso, di un rapporto diretto, ed è forse la prima volta che Rossi assume un dato esterno a completamento di una sua opera, superando la sostanziale «chiusura» di realizzazioni di quegli anni, come le scuole di Fagnano o di Broni.

E il colore e l’incompletezza programmatica, a Modena, sono componenti essenziali di una capacità di rappresentare e completare luoghi che si svilupperà in seguito in decine di altri progetti egualmente colorati ed egualmente frammentari.
 

Progetti della prima ora e affinamento del «mestiere» di «interprete delle città» incontreranno successivamente la Spagna, gli USA, il Giappone e, a Berlino, troveranno un fertile terreno di sperimentazione con progetti non realizzati come quello per il Deutsches Historisches Museum (1988) – un altro frammento di città colorata – e l’edificio di Schützenstrasse (1992-1998), opera quasi finale dell’architetto e esplicita critica alla costruzione ultima della città tedesca che riverberano le considerazioni «private» dell’Autobiografia scientifica, ma anche le idee «inaugurali» di L’architettura della città.

Che hanno avuto un peso importante, come altri contributi teorici della cultura italiana di quegli anni, nelle esperienze «ricostruttive» di città come Berlino o Barcellona – non avendolo potuto avere, se non molto parzialmente, in patria.

Due progetti berlinesi, quello per il Deutsches Historisches Museum e quello di Schützenstrasse, che sembrano rappresentare nella carriera di Rossi anche l’ultimo atto di un tentativo e la ribellione quasi anarchica all’impossibilità di realizzarlo. Un’ultima città analoga il primo, l’atto finale della speranza di poter ricostruire un pezzo di città a partire da un edificio, e una sorta di caricatura voluta della città, il secondo, con le facciate che non corrispondono agli interni e i colori smaccatamente forti.
 

Sono alcune delle cose presenti in questa mostra che non ha un vero inizio e una vera fine e che mescola volutamente tempi, temi e città così come avveniva nel percorso progettuale dell’architetto milanese. Una mostra che apre visioni e riflessioni sull’opera e sulle idee ancora attuali di Aldo Rossi e sul suo contributo alla costruzione di una architettura «necessaria».

Fermiamoci qui. «Cogliere l’occasione!» per visitarla appena possibile è la parola d’ordine su cui abbiamo concluso il nostro colloquio.

Dove e quando
Aldo Rossi. L’architetto e le città
Mostra a cura di Alberto Ferlenga
MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma
Dal 10 marzo 2021 al 17 ottobre 2021

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