Di cosa si parla quando si parla di pae­saggi

Gianni Celati: scrittore, regista, traduttore… e, anche, percorritore, con sguardo, mente e all'occasione piedi, di spazi urbani e non. Alcuni dei suoi scritti sulle nozioni di spazio e paesaggio si affacciano nel numero 40 della rivista «Riga», pubblicata da Quodlibet, che raccoglie una scelta di sue prose edite e inedite, lezioni, interviste, trascrizioni di conversazioni, fotografie, circondate da recensioni e commenti di figure come Italo Calvino, Luigi Ghirri, Giuliano Scabia, Maria Corti, Ermanno Cavazzoni e Stefano Bartezzaghi. Qui proponiamo, per concessione dell'editore, l'intervento Di cosa si parla quando si parla di paesaggi, tenuto a un convegno nel 2006.

Date de publication
30-01-2020

In questo convegno sul paesaggio, ritrovandomi assieme ad autorevoli esperti, mentre aspettavo il mio turno di parola mi è sorto il dubbio che siamo stati invitati a trattare un argomento insostenibile. E ho cominciato a rimuginare a ruota libera, in modo sbandato, senza più ritrovare il discorso che mi ero preparato nella testa. Di cosa si parla quando si parla di paesaggi? Non c’è qualcosa di equivoco in questa vecchia parola? Intanto penso a quel fotografo americano, Ansel Adams, che diceva: «Il paesaggio è il luogo della distruzione» – idea romantica ma sacrosanta, soprattutto nei nostri giorni, perché parla di una condizione dell’essere completamente travolta dagli imprenditori frenetici del nostro tempo. Se il paesaggio è il luogo della distruzione, mentre qui ci viene proposto di valutarlo come una forma di capitale accumulato, allora viene chiedersi dov’è l’equivoco racchiuso in questa parola – specie nelle nostre nazioni ricche, dove la maggioranza dei cittadini può comprarsi tutti i vestiti che vuole, andare fuori a cena quando vuole, fare i viaggi che vuole, mandare i figli a imparare a suonare il piano, e può anche concedersi una benevola attenzione verso il mondo, con qualche simulata emozione per le popolazioni schiacciate dalla miseria. Cosa sono i paesaggi per questi cittadini evoluti dell’Occidente, gente molto razionale e ottimista, con una fede infrangibile nel potere monetario e in quello tecnologico?

Io abito in Inghilterra dove ci sono molte trasmissioni televisive che riguardano i paesaggi, e anche paesaggi con offerte immobiliari d’occasione tra campagne ben preservate. Ma in particolare c’è una trasmissione dove un agente immobiliare inglese propone delle case da comperare a titolo speculativo, in paesi come la Spagna, il Portogallo, la Romania, la Bulgaria, la Croazia, la Slovenia. E si vedono questi inglesi che vanno in posti sperduti e cercano di capire in due e due quattro quanto potrebbero guadagnarci nell’affare. Naturalmente le case sono situate in paesaggi dove si parla un’altra lingua, e dove esistono abitudini di vita locali, ma a cui né l’agente immobiliare né i compratori fanno mai caso – non ne parlano neanche, come smemorati. Che oltre a comprare le case esista al mondo la complessa questione di abitare i luoghi, questo pare che non venga mai loro in mente. Tutto si basa sul fatto che i prezzi delle case nel tal posto stanno salendo, e che secondo certe proiezioni degli esperti un investimento di centomila euro dovrebbe dare nel giro di qualche anno un profitto di cinquanta o centomila euro. In una di queste trasmissioni si vedeva una casa del genere, costruita e arredata in fretta a scopo di lucro, e di lontano dei contadini che usavano ancora le vacche per arare i campi. Qualche sera dopo c’era un reportage su una città forse non lontana dal luogo precedente, città tra le più affumicate per via di certe fabbriche disastrose dell’epoca comunista, ma dove gli esperti convocati assicuravano che nel giro di un anno o due il cielo sarebbe tornato limpidissimo. Queste sequenze bastano a illustrare la questione dei paesaggi nella nostra epoca, perché quasi dovunque sono in corso simili traffici finanziari che trasformeranno l’ambiente, senza che quei contadini o altri abitanti possano avere voce in capitolo. È un tipo di oggettivazione bruta, prodotta dal denaro, con invasione di paesaggi poveri da parte di popolazioni ricche, per cui gli indigeni devono ritirarsi ai margini dei luoghi abitati, se non nelle baraccopoli periferiche che in tutto il pianeta ormai segnano questa marcia.

La parola “paesaggio”, d’origine francese, porta in sé qualcosa che per noi ha perso molto del suo significato: il pays, il paese, la regione, la contrada. È un termine che ha anche il senso affettivo del luogo d’origine – mon pays. Noi usiamo per lo più “paesaggio” come sinonimo di “panorama”, che è un senso derivato, sull’onda dalla pittura paesaggistica nel Settecento. Quando nel 1790 Goethe viene in Italia a fare il suo tour, al primo paesaggio italiano che descrive, per dare il senso della vivacità della scena, cita un quadro di Heinrich Roos (un paesaggista dei suoi tempi). E dice che sono «le care immagini dell’arte» a guidare il suo sguardo. Goethe riconosce nel paesaggio qualcosa che va oltre la descrizione delle cose – vede «il movimento e la vita», come il fenomeno più intimo nelle forme, che le immagini dell’arte gli rendono riconoscibile. Il che ci riporta a epoche in cui l’anima era intesa appunto come ciò che concepisce le forme, permettendo il riconoscimento dei modi in cui la natura trasforma la materia in forma. La natura, diceva Cézanne, è il mio pensiero quando provo la sensazione d’un colore, ed è la percezione che debbo rendere con un tono pittorico. In questo senso, la pittura di paesaggio è stata uno studio della natura applicato ai fenomeni del vedere, ma in relazione alle forme del pensiero, alle idealizzazioni della mente.

Si può dire che per secoli l’idealizzazione del paesaggio sia stato un modo d’iniziazione estatica: iniziazione a una tendenza costitutiva dell’essere umano, in quanto essere affidato al tempo, che si sporge sempre verso qualcosa di esterno e lontano, qualcosa che gli appare un punto d’avvenire. Il paesaggio favorisce straordinariamente la comprensione di questa tendenza che si è chiamata estatica, in quanto tendenza a proiettarsi verso il fuori di sé e investirlo con diverse tonalità del divenire. È un’educazione che per secoli ha riguardato soprattutto l’aristocrazia, con i suoi rituali venatori e cavallereschi, e con gli svaghi e le abitudini del raduno cortese. Questo ci dice anche che il paesaggio è sempre stato un’entità artificiale, addobbata per scopi ideali, o idealizzata per farne dei racconti che riflettano quegli scopi. Come i racconti dei cavalieri della tavola rotonda, che sono sostanzialmente visitazioni di paesaggi: soprattutto quelli di Chrétien de Troyes, da Le Chevalier de la charrette, fino a quel culmine che è la storia di Perceval – storia iniziatica che riguarda la comprensione del nostro sporgerci verso un punto d’avvenire, fino a perderci attraverso «sentieri ed acqua». Così il paesaggio come concetto ci richiama a racconti e usanze di una educazione estatica (come in Giappone l’usanza di andare in gruppo a contemplare le fioriture stagionali).

All’incirca tra la fine del Settecento e l’avvento della rivoluzione industriale, comincia una lenta democratizzazione di ciò che chiamo educazione estatica. La cosa paradossale è che il capitalismo (come modo di profitto simile all’usura e meccanicizzazione integrale dei modi di vivere) prende l’avvio in un paesaggio incantato, nell’alto Derbyshire, tra corsi d’acqua, pecore, e una popolazione contadinesca lontanissima dalle abitudini cittadine. Corsi d’acqua, lana e manodopera robusta sono i tre elementi di base per far lavorare le nuove macchine tessili; tre elementi che produrranno in pochissimi anni una crescita di ricchezze e di miseria, su scala gigante, mai vista prima. È uno sconvolgimento generale dei modi di abitare il mondo, senza scampo: con masse che abbandonano la vita campestre e calano nelle grandi città, attratte dalla richiesta di manodopera, per poi trovarsi incastrate in turni di lavoro distruttivi, e nella miseria come non mai. I paesaggi (immagini di luoghi “naturali”) cominciano ad essere sentiti come l’antitesi della corruzione dei costumi nella civiltà europea e dei disastri prodotti nel tessuto sociale dall’accumulazione capitalistica.

Fino all’epoca ultra-moderna in cui siamo, il paesaggio è idealizzato come un ambito di natura che suggerisce atteggiamenti contemplativi. Questa idealizzazione è in gran parte il lavoro del paesaggismo pittorico che si diffonde nel clima innovativo settecentesco, e parallelamente di Jean-Jacques Rousseau, che celebra il ritiro fuori dalle città e la contemplazione della aperta natura come modi per sottrarsi alla corruzione della vita civilizzata. Ma è con lo spargimento delle fabbriche in un orizzonte urbano fumogeno e sovrapopolato che il paesaggio prende un aspetto salvifico. Diventa il limite di qualcosa di incontrollabile, che già si identifica con la cattiva respirazione: è l’alternativa naturale che i poeti cantano come un’uscita dall’inferno, e che gli utopisti propongono con le nuove idee di città-giardino, dove il verde della natura doveva rimediare al grigiore industriale. Questa idea della campagna salvifica per effetto dell’aria pura arriva fino al secondo dopoguerra, con l’abitudine delle scampagnate domenicali in paesaggi che paiono incorrotti.

Dalle idealizzazioni del paesaggismo è nato un equivoco diffuso e decisivo. È un equivoco che Cézanne ha visto con grande lucidità, quando parlava delle persone che guardano i paesaggi come se fossero quadri già appesi in un museo. Si riferiva al guardare categoriale, dove al posto delle percezioni ci sono categorie pronte a congelare ogni movimento dello sguardo, e sostituire ogni incertezza delle percezioni con una supposta oggettività della cosa guardata – come se le cose non trovassero un senso, un tono, un effetto, soltanto attraverso il nostro sguardo, dove ogni materia si traduce in forme e pulsioni della mente. Perciò, a partire da un certo momento, il lavoro più importante dei paesaggisti diventa questo: il togliere di mezzo ciò che si è già costituito in concetto, in definizione categoriale, che obnubila lo sguardo, e che in realtà non ti lascia vedere niente perché “sai già tutto”. Artisti come Caspar Friedrich, Turner, Constable, Cézanne, hanno lavorato per risensibilizzare la percezione, per riaprirla alla momentaneità incatturabile d’ogni sguardo, e ritrovare la primitività d’ogni paesaggio, come spazio d’iniziazione all’esperienza estatica.

Parallelamente alla rivoluzione industriale nasce un nuovo guardare senza più incertezze, e che ha liquidato ogni comprensione dell’esperienza estatica – ed è il guardare di chi vedendo un quadro dice: «Che bel paesaggio!», come non ci fosse differenza tra il paesaggio esistente e la sua raffigurazione. Stesso equivoco dell’illusione fotografica, raddoppiato nell’illusione turistica: nelle foto d’una agenzia turistica è come se i posti fotografati potessero avere solo quell’aspetto, senza differenze tra i luoghi reali e la loro rappresentazione fotografica. Di qui viene il corollario dell’idea turistica: la convinzione che i paesaggi siano dati di fatto oggettivi, riducibili a cifre, misure, costi, o ad una rappresentazione fissa, fotografica o altro; ed è un tipo di oggettivazione dei paesaggi che va in parallelo con quella precedente, con effetti che ho già indicato in apertura.

Il Settecento ci ha abituato a vedere i paesaggi come immagini della natura, l’Ottocento come luoghi naturali dove sfuggire all’avanzata della rivoluzione industriale. In nessun paese il paesaggio è un culto come in Inghilterra; ma in nessun paese è una creazione altrettanto artificiale, in quanto arte di addobbare in modo “naturale” vaste vedute, con alberi e siepi e stagni – arte che si chiama landscape gardening. Ogni paesaggio è in qualche misura artificiale, ossia dipende da una “cura”, senza la quale sarebbe un’altra cosa. I cittadini evoluti dell’Occidente però tendono a pensare i paesaggi come cose inerti, parchi da visitare, zone per le vacanze, in qualche modo luoghi di nessuno, come una camera d’albergo vuota che aspetta il cliente. È la visione turistica del pianeta, ridotto alla neutra oggettività fotografica, al dato di consumo espresso in quantità di denaro.

Per concludere: ho cercato di dire che un paesaggio non è un dato di fatto oggettivo, non è una “cosa”, e neanche una macchina. Non è un’entità del tutto valutabile con una serie di numeri, formule o costi. Non è l’oggetto rappresentato nelle foto di un’agenzia turistica o immobiliare. Prima di essere un’icona fotografica, è il luogo dove delle popolazioni passano la propria vita, con i propri costumi. Esiste un paesaggio che non abbia preso la forma che ha dalle popolazioni che l’hanno abitato? Sì, nelle zone inabitate del pianeta, che negli ultimi due secoli si sono molto ridotte. Ma anche i deserti sono segnati da rotte che portano a pozzi o oasi, creati da gente che vi abita, come i Tuareg. Un paesaggio è uno spazio da sempre osservato, studiato da tutti quelli che sono passati di lì prima di noi e che hanno contribuito a renderlo così com’è. Da come è fatto vedi come è stato abitato nel corso del tempo, e come gli abitanti volevano che fosse visto, con aspetti decorativi e simmetrie che guidano l’occhio, e soglie di vario tipo che inquadrano certi punti focali (come le soglie create da due pilastri in muratura che si usavano all’ingresso dei poderi in Emilia).

Intervento in un convegno promosso dall’Assessorato alla cultura e al paesaggio della provincia di Reggio Emilia, intitolato «Il paesaggio come capitale», Reggio Emilia, 2 dicembre 2006. 

 

Tratto da «Gianni Celati», a cura di Marco Belpoliti, Marco Sironi e Anna Stefi, «Riga» n. 40, Quodlibet, per gentile concessione dell'editore.

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