Ar­chi­tet­tu­ra in Ti­ci­no

1945-2000: un itinerario storico-critico tra resistenza e disincanto

Dal 2009 ho l’opportunità di far confluire nella didattica dell’Accademia di architettura dell’Università della Svizzera italiana, attraverso un corso destinato agli studenti del primo e del secondo anno di Master, gli esiti delle ricerche sull’architettura in Ticino nella seconda metà del Novecento che svolgo all’Archivio del Moderno e che da quest’anno fruiscono del sostegno del Fondo Nazionale Svizzero grazie al progetto di ricerca triennale L’architettura nel Cantone Ticino, 1945-1980. 

Publikationsdatum
13-06-2016
Revision
13-06-2016
Nicola Navone
Vicedirettore dell’Archivio del Moderno e docente all’Accademia di architettura di Mendrisio, Università della Svizzera italiana

Dopo aver indagato i Paradigmi dell’organicismo (2009-2011) e L’architettura delle scuole (2011-2013), negli ultimi tre anni ho attribuito al corso il titolo Architettura in Ticino 1945-2000: un itinerario storico-critico tra resistenza e disincanto.

Il termine «itinerario» allude a un percorso che si dipana, toccando tappe prestabilite, da un punto di partenza a un punto di arrivo, che in questo caso coincidono con la fine del secondo conflitto mondiale e l’inizio del nuovo millennio. Tra questi due estremi si distende una narrazione articolata secondo temi trasversali, quali l’eredità dei maestri del Moderno (Le Corbusier e Wright soprattutto), la nozione di «funzionalismo» nelle diverse accezioni assunte nel dopoguerra, l’emergere di una concezione territoriale dell’architettura, il costruire moderno e i suoi valori espressivi. Questi temi sono indagati muovendo dalle concrete declinazioni date loro dagli architetti ticinesi: vale a dire partendo dalle opere e applicando di volta in volta gli strumenti critici adeguati a comprendere i loro «modi di esistenza», le «forme dell’intenzione»1 dei loro autori, la loro «intertestualità»: un programma di lavoro che rivela il debito intellettuale che ho contratto con Bruno Reichlin2 e che orienta sia l’impostazione delle lezioni ex cathedra, sia la definizione delle modalità di esame. Quest’ultimo, in particolare, si configura come la discussione di una ricerca monografica dedicata a un’opera – realizzata o meno – scelta dallo studente entro un elenco di casi di studio forniti dal docente: ricerca fondata, quando possibile, sulla documentazione d’archivio e presentata attraverso tavole A1 che coniugano testo, diagrammi e riproduzioni fotografiche (mentre nel corso Paradigmi dell’organicismo avevo optato per modelli in legno di faggio, alla scala 1:50, corredati da una scheda analitica).3

Il corso, infatti, non si propone soltanto di tracciare un itinerario storico nell’architettura del Cantone Ticino del secondo Novecento, ma di affinare, attraverso gli strumenti critici proposti, le facoltà analitiche degli studenti, favorire la definizione di criteri di giudizio razionali e, in ultima analisi, dare ragione del nostro stesso modo di progettare, sottraendolo al cerchio magico della cosiddetta «creatività» per ricondurlo nell’ambito non solo del dicibile, ma di una pratica su cui è necessario e urgente rivolgere uno sguardo lucido e demistificante. Per dirla altrimenti, il corso vorrebbe contribuire a immunizzare gli studenti da quella che Martin Steinmann ha definito la «tentazione di Sant’Antonio dell’originalità a ogni costo», facendo loro comprendere che l’architettura è fondata su un sapere cumulativo, vale a dire un sapere che si arricchisce progressivamente e trae la sua linfa dalle esperienze che ci hanno preceduto e che possono essere superate soltanto dopo averle comprese a fondo, senza la quale condizione tale superamento perde gran parte del suo significato. 

L’itinerario proposto dal corso, tuttavia, non si dipana soltanto tra due estremi cronologici, ma è accompagnato da due termini («resistenza» e «disincanto») allusivi a due attitudini o stati d’animo qui associati non in funzione oppositiva, ma di mutua integrazione. 

«Resistenza» è parola ricorrente nelle dichiarazioni di buona parte degli architetti cui è stata applicata l’etichetta (a mio avviso arbitraria) di «Scuola ticinese», e alle cui opere Kenneth Frampton aveva guardato, fra altre, per esemplificare quei «sei punti per un’architettura di resistenza» posti a fondamento della sua nozione di «Regionalismo critico».4 Ma poiché questo medesimo termine, in quegli stessi anni, affiora con sorprendente frequenza e con sfumature diverse anche nei discorsi dei principali protagonisti dell’architettura svizzero-tedesca,5 va chiarito che cosa s’intende con «resistenza», e soprattutto a che cosa. 

Considerata la situazione nel Cantone Ticino, e l’erosione speculativa del territorio in atto da tempo, potremmo dire che la resistenza è anzitutto orientata contro questo fenomeno, cui viene contrapposto un progetto alternativo di costruzione dello spazio (e in particolare dello spazio pubblico) che ne rifiuta la bieca mercificazione,6 facendosi invece portatore di un’idea di urbanità venata d’istanze civili, e si traduce nel rigetto di un’architettura ripiegata su se stessa nell’esaltazione del mero dato formale, refrattaria a una relazione critica con il luogo e con la storia, prona ai meccanismi della speculazione fondiaria e alle leggi della massima rendita economica a cui appone la cauzione della propria «artisticità».

Quanto al disincanto, che contempera e allo stesso tempo rafforza il desiderio di resistenza, si tratta, come sostiene Claudio Magris, di «una forma ironica, malinconica e agguerrita della speranza; ne modera il pathos profetico e generosamente ottimista, che facilmente sottovaluta le paurose possibilità di regressione, di discontinuità, di tragica barbarie latenti nella Storia»:7 sicché la consapevolezza della stortura del mondo, e la coscienza che il nostro apporto non potrà essere che minimo, fallibile e forse destinato all’insuccesso, non ci impediscono di continuare a operare per porvi rimedio; come spero vogliano fare i giovani che scelgono di abbracciare la professione dell’architetto.

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