L’ar­chi­tet­tu­ra, l’ar­te e il rea­lis­mo del mes­tie­re

Editoriale Archi 1/2016

Ci interessa l’architettura come ricerca, non come conferma di un’ideologia. Jacques Herzog, 1995

Publikationsdatum
15-02-2016
Revision
15-02-2016

Quando si discute della relazione tra l’architettura del contenitore edilizio e l’ordinamento delle opere d’arte nei musei e, in generale, negli spazi per l’arte, il tema critico più interessante è sempre quello della loro compatibilità, cioè dell’autonomia del manufatto architettonico rispetto all’opera ospitata, oppure, al contrario, delle esigenze spaziali dell’opera, che devono dettare l’architettura da costruire per metterla in scena. Gli esempi ticinesi di seguito pubblicati offrono una risposta univoca, nel senso della centralità dell’opera d’arte come ragione del progetto. Il che non vuole certamente dire che la progettazione architettonica ha svolto un ruolo secondario, ancillare, rispetto al progetto dell’ordinamento museale, agli orientamenti dei critici e degli esperti di allestimento dell’opera d’arte. Le ragioni di questi ultimi sono analoghe a quelle dei committenti di un’abitazione, che dettano all’architetto – e all’équipe di specialisti del clima o della luce – i concetti distributivi da soddisfare, ai quali dare soluzione e forma spaziale. Oppure alle ragioni degli insegnanti e dei dirigenti di un’istituzione scolastica, che dettano all’architetto il programma pedagogico e organizzativo, da rappresentare fisicamente disegnando spazi, relazioni e percorsi. 

L’esempio più eloquente tra quelli pubblicati è lo spazio più piccolo ed elementare, la Fondazione Rolla ospitata nei locali di una ex scuola dell’infanzia a Bruzella, in valle di Muggio. Qui lo studio Brambilla Orsoni di Como ha progettato un solo, ma decisivo, intervento di modifica della distribuzione spaziale dell’assetto preesistente: la formazione di un varco di collegamento laterale tra le due sale principali – precedentemente previsto al centro della parete comune – che consente di cogliere la continuità della parete esterna finestrata, liberando l’ingresso della luce, prima bloccata dalle murature. Un intervento minimale e colto, che richiama quello progettato da Gardella, Michelucci e Scarpa nel 1957 quando, ristrutturando le prime sette sale degli Uffizi fiorentini, hanno provocato le fenditure laterali a tutta altezza tra una sala e l’altra, che hanno conferito alle opere esposte una percezione dinamica, invece di quella preesistente assiale e statica. Non si tratta, quindi, di un passo indietro dell’architettura rispetto all’opera d’arte, ma della piena realizzazione del compito sociale al quale l’architetto è chiamato, quello di creare le condizioni spaziali perché la vita degli uomini, in tutte le sue espressioni, si svolga nel modo più compiuto e felice. 

È un compito che oggi non sempre viene soddisfatto, quando l’individualismo creativo e la concezione dell’architettura in sé prevalgono, attribuendo al manufatto architettonico un valore iconico che prescinde dalla soddisfazione del compito sociale. Il caso più eclatante di questo atteggiamento rimane ancora quello del Guggenheim Museum a Bilbao di Frank O. Gehry, che è diventato l’icona della città e una potente attrazione turistica, modificando l’immagine e la stessa economia cittadina. A Bilbao, opere d’arte importanti sono allestite in spazi progettati per perseguire effetti spettacolari, che sovente non corrispondono alle ragioni proprie delle opere. È un atteggiamento demiurgico certamente elitario, riservato alla ristretta cerchia degli architetti più noti – non tutti: si pensi, per esempio, al lavoro contestuale di Alvaro Siza o di David Chipperfield – chiamati per dare forma, con la loro firma riconoscibile, ad opere rappresentative della società del consumo e dell’immagine. Questa cultura, tuttavia, che rimuove il compito sociale per valorizzare la creatività autoreferenziale, ha successo, si diffonde soprattutto nelle ultime generazioni attraverso i media e occupa spazi importanti nelle scuole europee e al di là dell’Atlantico. 

Questo modo di concepire il mestiere – che si accompagna sempre a fenomeni di marginalizzazione del ruolo civile dell’architetto nella società – in Svizzera non trova spazio, per ragioni che risalgono alle radici profonde della cultura nazionale. La cultura tecnica e materiale elvetica si aggiorna continuamente e alimenta di realismo l’architettura, che, metabolizzando le aperture e le contaminazioni internazionali, resiste alle spinte consumistiche opponendo con successo ricerca e nuove qualità.

In Ticino, la cultura architettonica è fondata su una tradizione del moderno ricca di contenuti etici, ma il territorio cantonale è terra di confine, e la società è meno socialmente e culturalmente strutturata di quelle urbane a nord delle Alpi, è più esposta alle spinte di quel vento che tende a iscrivere il nostro mestiere nell’elenco di quelli funzionali alla società dei consumi. Auspichiamo che la consapevolezza di questa condizione alimenti la capacità critica degli architetti e degli ingegneri ticinesi.

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