Via del­la Seta e del Ce­men­to

Sotto i 45 gradi di Tashkent, il Bazaar di Chorsu emerge come un miraggio modernista: tra cupole ispirate alla Via della Seta e ingegneria sovietica, incarna l’incontro tra Oriente e URSS. Un parallelo architettonico tra utopia socialista e identità uzbeka.

Publikationsdatum
16-10-2025
Gabriele Neri
Dott. arch. storico dell'architettura, redattore Archi | Responsabile della rubrica 'Paralleli' per Archi

Storditi dalla canicola estiva, che oggi segna 45 gradi, il Bazaar di Chorsu a Tashkent emerge all’orizzonte come un miraggio cangiante, ricordando le antiche cupole azzurre della Via della Seta, ma anche molto altro. Da lontano potrebbero sembrare enormi tazzine, come quelle in porcellana vendute in ogni mercato dell’Uzbekistan, con sopra il motivo del fiore del cotone (Pakhtagul). Il cotone, in epoca sovietica, era tutto: Mosca infatti impose una monocoltura per soddisfare la domanda tessile dell’URSS, tale da provocare disastri ambientali come il prosciugamento del lago d’Aral per lo scellerato sfruttamento delle risorse idriche.

Il Bazaar è una delle tante architetture che fanno di Tashkent un museo a cielo aperto del modernismo novecentesco, ben raccontato da due recenti volumi editi da Rizzoli e Lars Müller. La febbre edilizia cominciò nel 1966, quando un terremoto colpì la città; non troppo duramente, a dire il vero, ma fu l’alibi per far sorgere una metropoli modello con boulevard e spazi monumentali. Come dimostrano le cupole di Chorsu, per la ricostruzione si abbandonò il rigido linguaggio degli anni di Chruščëv per integrare la visione tecnologica sovietica con la specificità uzbeka, legando strategie di risposta al clima al più vasto fenomeno dell’Orientalismo. Di questo processo di ibridazione architettonica e semantica, il Bazaar di Chorsu è però un caso speciale, poiché fu uno degli ultimi cantieri a essere completati prima del crollo dell’URSS: progettato tra il 1980 e il 1986, venne inaugurato solo nel 1990.

Come ha ricostruito lo storico Boris Chukhovich, le enormi «tazzine» nascondono vari riferimenti. Una cupola rivestita di ceramica multicolore fu pensata (ma non eretta) dall’architetto moscovita Andrei Kosinskii per un’altra zona di Tashkent nel 1969; ancor prima, lo studente del politecnico locale Iurii Garamov aveva disegnato un mercato a forma di grande cupola impostata su volte simili ai virtuosissimi di Félix Candela in Messico. Altra fonte d’ispirazione fu il mercato coperto di Sidi Bel Abbès, in Algeria, dell’architetto Marcel Mauri, anch’esso pubblicato su riviste sovietiche. Nel Nord Africa però tale tipologia aveva rimandi diversi: innanzitutto il Pantheon, simbolo del dominio romano che dunque si prestava, per qualcuno, a discorsi colonialisti. In Uzbekistan, simili sottintesi sparivano davanti alla memoria delle cupole azzurre di Samarcanda e agli arabeschi d’epoca timuride, che poi a Chorsu rinasceranno come fiori dell’economia sovietica.

Varcata la soglia dell’edificio principale, il contrasto è fortissimo. I motivi vegetali spariscono per rivelare la potenza dell’ingegneria e della geometria novecentesca: l’enorme struttura, con un diametro di 107,9 metri e un’altezza di 31, è composta da una maglia triangolare con oculo in sommità per il calore, che subito rimanda alle cupole in ferrocemento di Pier Luigi Nervi, anche quelle note in URSS. A Tashkent tuttavia, a parte l’anello di base, tutto è in acciaio, a causa delle prescrizioni antisismiche. Il contrasto non è solo estetico ma sintomatico di cambiamenti epocali: l’inaugurazione del 1990 preluderà al passaggio dall’economia socialista alla privatizzazione postsovietica.

Trentacinque anni dopo, l’Uzbekistan è un altro paese e i fiori del socialismo comunicano tutt’altro. Grazie a un’ampia campagna di studio promossa dalla Uzbekistan Art and Culture Development Foundation, il Bazaar – insieme a molti altri edifici – è stato inserito nella lista dei monumenti nazionali, gareggiando per la tutela dell’Unesco. Intanto migliaia di persone, ogni giorno, entrano ed escono dalla grande cupola per comprare carni, spezie o altre leccornie, sorridendo ai turisti – ancora pochi – che alla Via della Seta hanno preferito quella dell’acciaio e del cemento.