Al­la ri­cer­ca di una gram­ma­ti­ca

Note su Casa Albairone e Casa Cate

«A mio parere [...…] tutti i grandi maestri del nostro tempo creano nell’ambito di una morfologia, o perlomeno di una combinazione di forme chiaramente specificata, ed è impossibile misurarne l’influenza quando se ne trascuri la grammatica… L’astrazione dalla grammatica e dalla storia della grammatica corrisponde spesso a uno stato di confusione nel giudizio critico, e peggio, nella produzione corrente dell’architettura». Peppo Brivio¹

Publikationsdatum
07-08-2013
Revision
12-10-2015
Nicola Navone
Vicedirettore dell’Archivio del Moderno e docente all’Accademia di architettura di Mendrisio, Università della Svizzera italiana

Tra il 1955 e il 1957 Peppo Brivio realizza a Massagno due edifici che segnano un punto di svolta nella sua opera, introducendo dei procedimenti compositivi, o meglio (per rinviare alla citazione in esergo) annunciando la costituzione di una grammatica che, nei lavori successivi, verrà ulteriormente sondata, affinata, variata. Si tratta, come ognuno avrà inteso, delle case ad appartamenti Albairone e Cate, progettate in collaborazione con l’ingegnere Alessandro Rima, che della prima fu pure il committente.2

Nell’ambito di un’opera ricca e densa, quanto negletta e disconosciuta, come quella di Brivio, i due edifici godono di una certa notorietà, favorita, oltre che dalla loro qualità, dall’essere oggetto della sola pubblicazione monografica (a mia conoscenza) dedicata all’architetto, curata nel 1997 da Christian Dill per la cattedra di progettazione di Flora Ruchat-Roncati al Politecnico Federale di Zurigo (che è buona occasione menzionare anche per ricordare la generosa lungimiranza di Flora).3 

La costruzione delle due case coincide con una fase di rinnovamento dell’architettura ticinese, che si manifesta con particolare evidenza nell’opera di Rino Tami, con il quale Brivio collabora, in forme e occasioni diverse, sin dai primi anni Cinquanta.4 

All'insegna del cambiamento

Il 1954 segna infatti, nell’opera di Tami, un repentino cambiamento di paradigma. Dapprima è il progetto per Casa Torre a trasformarsi radicalmente: abbandonata nella primavera di quell’anno l’iniziale soluzione «a trifoglio», Tami adotta un impianto caratterizzato dalla marcata espressività dei prospetti laterali, articolati dai setti diagonali di cemento armato che orientano verso il lago gli affacci degli ambienti lungo i lati maggiori.

Poi, nel settembre del 1954, anche il nuovo studio della Radio della Svizzera italiana, al quale Tami sta lavorando da un paio d’anni con Alberto Camenzind e Augusto Jäggli, subisce un’improvvisa mutazione, innervandosi di quella trama esagonale che articola le fluide sequenze spaziali dell’edificio realizzato, opera tra le maggiori dell’architettura del XX secolo in Ticino. Infine, tra i mesi di settembre e dicembre del 1954, è la volta del progetto per lo stabile a destinazione mista «La Piccionaia», dove sorgerà la bella sala del cinema «Corso».5

La timida proposta presentata alle autorità comunali nella primavera del 1953 cede il campo a un progetto dalla salda orditura spaziale, modulata sul motivo della diagonale. Il cambiamento più radicale, attuato per fasi successive, riguarda proprio la sala del cinema, che si spoglia della sua veste garbatamente rétro per diventare una poderosa macchina ottica dall’involucro sfaccettato, alternativamente campito di bianco e di nero: un elogio della geometria che riecheggia, a quasi dieci anni di distanza, la Lettre tessinoise pubblicata nel 1946 sulle pagine di «Werk».6

Di lì a poco si rinnoverà anche il linguaggio di Alberto Camenzind e Augusto Jäggli, che realizzeranno, nella seconda metà degli anni Cinquanta, opere notevoli come il Ginnasio cantonale a Bellinzona o l’edificio a destinazione mista «La Panoramica» a Lugano (diventato, dopo un recente intervento di «ristrutturazione», un’ulteriore desolante testimonianza della fragilità del patrimonio architettonico moderno ticinese), oppure, ed è il caso di Jäggli, un edificio esemplare come la sede della Società Bancaria Ticinese in piazza Collegiata, a Bellinzona. 

Le case appartamenti «Albairone» e «Cate» 

In questa temperie feconda, alimentata dalle ricerche di Franco Ponti e di Tita Carloni (che in quegli stessi anni apre a Lugano il proprio studio insieme a Luigi Camenisch), le case ad appartamenti «Albairone» e «Cate» spiccano per la novità del procedimento compositivo, basato sull’alternarsi cadenzato di volumi inviolati da aperture (secondo il dettato neoplastico), sfalsati da un piano all’altro per generare una composizione di notevole ricchezza plastica e dagli accentuati valori chiaroscurali, incardinata da un tracciato geometrico rigoroso.

Non si tratta, però, di una «proliferazione» di volumi virtualmente estensibile all’infinito, perché ambedue gli edifici presentano, seppure con modalità diverse, la tradizionale tripartizione in basamento, corpo principale, coronamento, determinando una composizione chiusa, calibrata, che non può abdicare ad alcuno dei suoi elementi senza venire stravolta (e per rendersene conto basti osservare l’aspetto attuale di Casa Cate, privata della pensilina di coronamento).

Assai precocemente si è evocata, per questi edifici, una matrice neoplastica.7 Di certo le ricerche degli architetti e degli artisti del gruppo De Stijl erano tornate di attualità dopo la pubblicazione del volume di Bruno Zevi Poetica dell’architettura neoplastica, apparso nel 1953 per i tipi dell’editore milanese Tamburini. E, stando alla recente testimonianza di Tita Carloni, alcune norme compositive di matrice neoplastica erano merce corrente al Politecnico federale di Zurigo, ad esempio nell’atelier di progettazione di William Dunkel, di cui Brivio fu allievo e poi assistente.8 

E tuttavia, pur senza disconoscere il ruolo svolto dal neoplasticismo nella formazione della grammatica architettonica di Brivio, occorre rilevare il palese contrasto tra l’astrazione del dato costruttivo perseguita dalla cerchia di «De Stijl» e la spiccata caratterizzazione tettonica degli edifici dell’architetto luganese.

Casa «Albairone»
Nell’Albairone, ad esempio, la gerarchia tra struttura portante ed elementi di tamponamento assume un carattere quasi ostensivo, sia per la loro diversa giacitura (evidenziata dalla leggera sovrapposizione dei setti non portanti alla struttura verticale, che esaudisce anche la predilezione per gli «incastri» di volumi di matrice wrightiana), sia per la particolare declinazione della policromia, che non mira a «dematerializzare» il volume scomponendolo in piani astratti, ma evidenzia le unità volumetriche che si alternano da un piano all’altro (benché una fotografia, pubblicata nel volume curato da Dill, sembri attestare una soluzione iniziale prossima al canone neoplastico).9

Del resto, la rivalutazione della poetica neoplastica attuata da Zevi s’inserisce nella critica mossa da più fronti, in quel medesimo giro di anni, all’«universalismo funzionalista», di cui sono una manifestazione alcuni possibili «intertesti» dell’Albairone, quali l’edificio «Nid d’abeilles», realizzato alle Carrières centrales, a Casablanca, da Georges Candilis e Shadrach Woods, o le residenze collettive progettate e costruite da Jean Hentsch e André M. Studer a Sidi Othman.10

Di lì a pochi anni, la strategia progettuale che mira a creare configurazioni spaziali complesse iterando un numero limitato di volumi (che ritroviamo, contemporaneamente alle due opere di Brivio qui discusse, nella casa ad appartamenti progettata a Massagno da Giampiero Mina), conoscerà ampia diffusione sulle due sponde dell’Atlantico.11 

Nell’opera di Brivio, tuttavia (ed è ciò che appunto la distingue dalla matrice neoplastica), struttura e forma sono saldamente correlate, e tale caratteristica costituisce uno degli elementi di continuità della sua grammatica, che pure conosce variazioni nel corso del tempo: penso al ruolo sempre più rilevante che assume il sistema trilitico nei progetti della seconda metà degli anni Sessanta, dalla Casa dei Pini a Vacallo a Casa Cattaneo a Bironico, sino a culminare nel sogno maestoso e irrealizzato di Villa Koerfer, nella cui elaboratissima struttura a baldacchino confluiscono reminiscenze dell’architettura islamica (il motivo delle muqarna) e dell’estremo Oriente (certe carpenterie lignee a mensole sovrapposte), riverberi dell’opera di Louis Kahn (in particolare il progetto per il Martin’s Research Institute for Advanced Studies, a Baltimora, Maryland, elaborato tra il 1956 e il 1958) e una selva di altri intertesti che un architetto colto e disincantato come Brivio si compiace di celare, magari depistando i suoi (sprovveduti o meno) interlocutori. 

Casa «Cate»
La genesi di Casa Cate, sorta a poca distanza (spaziale e temporale) dall’Albairone, illustra in modo esemplare le intenzioni del suo autore. Nel commentare quest’opera, destinata peraltro a una repentina quanto effimera fortuna critica,12 Renato Pedio manifesta alcune riserve, ritenendo, ad esempio, che «l’ardita modulazione di questa facciata […] brillantemente «sporta» (e la casa vive tutta in questa parete sospesa ed eccezionale) non si articola in spazio», e che dunque «il modulo esagonale, ampiamente sfruttato all’esterno […] non trova all’interno una piena giustificazione, sebbene dia luogo a effetti studiati e gradevoli».13

La scelta di quel determinato modulo compositivo viene presentata come esito, anzitutto, di una ricerca linguistica, e viene giustificata dalla necessità di qualificare la costruzione, inserita in una cortina edilizia, attraverso «un accento vigoroso e squillante sull’unico lato visibile».14 Osservando tuttavia la non vasta, ma significativa documentazione conservata tra le carte dell’architetto, possiamo constatare che il progetto non esordisce con un «parti pris» geometrico, ma giunge alla soluzione realizzata attraverso il progressivo affinamento di un impianto planimetrico fondato sull’orientamento in diagonale degli affacci su via Tesserete, per aprirsi verso sud e verso il golfo del Ceresio (una strategia peraltro attestata anche nel vicino Albergo Arizona di Tita Carloni, dall’articolata pianta a «Y» aperta lungo le diagonali).

E questo in un sito difficile (come peraltro tiene a rilevare Brivio nel breve testo che accompagna la pubblicazione dell’opera), sorta di Baulücke frastagliata che s’insinua, con salti di quota e un doppio affaccio su via San Gottardo e via Tesserete, nel tessuto residenziale esistente, con conseguenti vincoli normativi.

Quella che di primo acchito sembra una brillante esercitazione di grammatica architettonica, in verità è il frutto di un lungo e tenace lavoro volto a conciliare le condizioni del programma e del sito, tra le quali porrei le modalità di percezione dell’opera, che avviene principalmente, trovandosi su una strada di transito che collega Lugano ai paesi del versante destro della Valle del Cassarate, in movimento e tangenzialmente (contrariamente a quanto accade nell’Albairone, affacciato su un parco dal quale possiamo comodamente osservare, seduti su una panchina o passeggiando svagati, la bella facciata, possente e composta, bagnata dalla luce del mattino).

Due condizioni (la visione in movimento e lungo una direttrice tangenziale) a cui risponde in modo ideale la geometria della facciata di Casa Cate, in virtù della quale i volumi in laterizio che la compongono acquistano o perdono risalto a seconda del punto di osservazione, generando un quadro mutevole se tale percezione avviene in movimento (attestando così una probabile integrazione dei principi dell’arte cinetica).

In questa immagine cangiante, spicca per contrasto la perentoria «L» rovesciata composta dai balconi più grandi, al margine destro del prospetto, e dalla pensilina in forte aggetto sul tetto-terrazza: una figura che chiude e orienta la composizione, nella quale, come si è già avuto modo di rilevare in precedenza, principi compositivi tradizionali convivono con le ricerche architettoniche e artistiche più aggiornate, in un’integrazione feconda resa possibile dall’eccezionale cultura di Brivio, architetto-intellettuale la cui influenza sulla successiva generazione (ampiamente riconosciuta nel caso di Angelo Andina, e degli esordi di Mario Campi, ma si pensi anche al ruolo «maieutico» che ebbe per Franco Ponti, suo coetaneo o quasi) attende di essere messa pienamente in luce.

Ed è proprio per questa sua eccezionale cultura che l’opera di Brivio, pur così linguisticamente salda e coesa, non sopporta approcci semplificatori o disposti ad accontentarsi di formule generali, ma richiede un confronto serrato quasi progetto per progetto, muovendo dalle fonti archivistiche e documentarie. Questo numero di «Archi», oltre ad essere un omaggio ai novant’anni dell’architetto, è un ulteriore passo in questa direzione, e non c’è che da rallegrarsene.

Note

  1. Passo citato in R. Pedio, Una proposta neoplastica: opere dell’architetto Peppo Brivio, «L’architettura: cronache e storia», vol. 64, a. VI, n. 10, febbraio 1961, pp. 678-690, cit. a p. 679.
  2. «Albairone» è l’antico toponimo di una frazione di Mosogno, in Valle Onsernone, donde proviene la famiglia Rima.
  3. Ch. Dill, Peppo Brivio. Casa Cate. Albairone, cattedra Prof.ssa Flora Ruchat-Roncati, eth Zurigo [1997].
  4. Tra le opere di Tami in cui è attestata la collaborazione di Brivio, possiamo menzionare (sulla scorta delle schede catalografiche del Fondo Rino Tami conservato all’Archivio del Moderno di Mendrisio, redatte da Riccardo Bergossi e pubblicate on-line nel sito www.fondi.arc.usi.ch) i progetti di concorso per l’ampliamento della sede dell’Unione delle Banche Svizzere a Zurigo (1951) e per la nuova biblioteca e l’estensione del campus universitario di Saarbrücken (1951-1952); la trasformazione dei grandi magazzini Millet & Werner e della sede del Banco di Roma nei grandi magazzini Innovazione a Lugano (1952-1953); la ricostruzione dell’Ospizio di Acquacalda (1953); il progetto per Casa Davidson a Castagnola (1953; inizialmente elaborato da Tami, poi da Brivio, mentre l’edificio sarà realizzato secondo il progetto di Orfeo Amadò); la Casa Guglielmetti a Sorengo (1952-1955; progetto di Tami, poi modificato e realizzato da Brivio); la casa di vacanza per l’ingegnere Nadig a Maroggia (1956-1957, per la quale Brivio elabora una proposta alternativa documentata in K. Frampton, R. Bergossi, Rino Tami. Opera completa, Mendrisio Academy Press, Mendrisio 2008). A queste opere andrà almeno aggiunta (e l’elenco non è comunque esaustivo) la collaborazione di Brivio alla progettazione del Cinema Corso, a Lugano, o al cantiere della Casa Torre, a Cassarate, dove è incaricato della direzione dei lavori.
  5. Su queste tre opere cfr. K. Frampton, R. Bergossi, Rino Tami, cit. alla nota 4. Sulla Casa Torre a Cassarate si veda, inoltre, il numero monografico di «Archi», 2008, n. 1.
  6. R. Tami, De l’anti-géométrie. Lettre tessinoise, « Werk », a. XXXIII, 1946, n. 9, pp. 314-316. Quella appassionata difesa del ruolo ordinatore della geometria in architettura si concludeva riconoscendo come «tendance saine et féconde de la nouvelle architecture, celle qui cristallise, dans des formes géométriquement pures, les divers éléments que comporte un thème architectural et les réunit en rapports harmonieux. Je vois dans cette discipline de composition la condition pour une vraie liberté».
  7. Si veda, ad esempio, il già citato articolo di Renato Pedio (cfr. nota 1), e quello, del medesimo autore, pubblicato in «L’architettura: cronache e storia», vol. 120, a. xi, n. 6, ottobre 1965, pp. 377-386.
  8. «Alla fine del secondo anno, all’inizio del terzo, c’erano altri insegnanti, tra cui William Dunkel, che, senza essere elementi di spicco del movimento razionalista, venivano però da quell’ambiente, da quel clima. Con loro scomparivano tutti i tetti in pendenza e bisognava fare tutto piano, c’era il dogma del tetto piano. Le finestre se possibile dovevano essere a nastro, scompariva la finestra verticale. Le lastre di muro, secondo la buona regola neoplastica del movimento olandese De Stijl, non andavano bucate. Se lo facevi, per inserirvi una finestrella, era un 2 garantito, perché una lastra da muro non si buca. È una lastra di muro e non deve essere ferita. La finestra non è una finestra ma è lo spazio tra due lastre. La luce entra dallo spazio vuoto tra due lastre pure». Tita Carloni, una voce critica dell’architettura ticinese, «Archivio Storico Ticinese», vol. 149, seconda serie, giugno 2011, pp. 33-62, cit. a p. 38.
  9. Si tratta della fotografia pubblicata da Ch. Dill, Peppo Brivio, cit. alla nota 3, s.n.p. (inserto fotografico tra le pagine 14 e 15, immagine sulla pagina di destra, in basso). Si noti, però, che nella prospettiva a tempera su copia eliografica, conservata tra le carte dell’architetto, le campiture policrome appaiono già simili alle attuali (per una riproduzione del disegno cfr. ibidem, p. 15).
  10. Cfr. N. Navone, Fonti, paradigmi, modelli: brevi note sull’architettura degli anni Cinquanta in Ticino, «Archivio Storico Ticinese», seconda serie, 136, dicembre 2004, pp. 257-280. Sull’edificio «Nid d’abeilles» e, più in generale, sulle opere di atbat-Afrique, cfr. M. Eleb, An Alternative to Functionalist Universalism: Ecochard, Candilis, and atbat-Afrique, in S. Williams Goldhagen, R. Légault (a cura di), Anxious Modernisms. Experimentation in Postwar Architectural Culture, Montréal-Cambridge (Mass.)-London 2000, pp. 55-73; J.-L. Cohen, M. Eleb, Casablanca: mythes et figures d’une aventure urbaine, Paris 1998 (ed. ingl. Casablanca. Colonial Myths and Architectural Ventures, New York 2002). Sul dibattito suscitato dalle proposte di atbat-Afrique ai ciam del 1953 cfr. J.-L. Cohen, The Moroccan Group and the theme of Habitat, «Rassegna», vol. 52, dicembre 1992, pp. 58-67. Sui progetti e sulle opere marocchine di Jean Hentsch e André M. Studer cfr. inoltre «L’architecture d’aujourd’hui», a. XXVI, giugno 1955, n. 60, pp. 38-39; «Werk», a. XLIII, 1956, n. 1, pp. 22-23; a. XLIV, 1957, n. 5, p. 170; M. Eleb, Des Suisses à Casablanca, «Faces», n. 42-43, autunno-inverno 1997, pp. 90-96.
  11. Si pensi ad esempio, per restare negli anni immediatamente a ridosso della realizzazione dell’Albairone e di Casa Cate, alle case ad appartamenti realizzate a Parigi, in rue Barrault e in rue des Pyrenées, tra il 1959 e il 1962, da Roger Anger, Mario Heymann e Pierre Puccinelli (autori delle case-torri alla Ile verte di Grenoble).
  12. Tra il 1959 e il 1961 Casa Cate viene pubblicata sulle pagine di «Werk», a. XLVI, 1959, n. 9, pp. 314-315; «L’architecture d’aujourd’hui», vol. 89, aprile-maggio 1960, pp. 14-15; «The Architect & Building News», vol. 218, 5 ottobre 1960, pp. 425-426; «L’architettura: cronache e storia», vol. 64, a. vi, n. 10, febbraio 1961, pp. 682-683; «Cuadernos de arquitectura», aprile-maggio 1961, n. 44, pp. 58-59.
  13. Cfr. R. Pedio, Una proposta neoplastica, cit. alla nota 1, p. 683.
  14. Ibidem

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