Per Sil­via Gmür ar­chi­tet­to

Data di pubblicazione
21-02-2022
Roberto Masiero
Professore Ordinario di Storia dell'Architettura nell'Istituto Universitario di Architettura di Venezia

Dein Leben war Leidenschaft
Leidenschaft für deine Familie, Freunde und die Gastfreundschaft

Leidenschaft für die Architektur und die Musik
Leidenschaft für die Kunst und die Schönheit der Natur
Du und deine Leidenschaft für das Leben werden uns unendlich fehlen.

Questo è ciò che hanno scritto i figli di Silvia nell’annunciare agli amici il suo ultimo viaggio verso un altrove. Non si poteva scrivere nulla di più giusto. Silvia era così. E tutto – la sua determinazione, la sua intelligenza, la sua sensibilità, la sua dolcezza, la sua suprema eleganza – veniva riportato alla sua grande, grandissima, passione: l’architettura. Tutto diventava allora rigore e magia.

È sulla sua idea di architettura che è doveroso io scriva, per ricordarla assieme al lettore.

Riprendo una lezione che Silvia – chiamata dalla comune amica Maura Manzelle – fece allo IUAV (Istituto universitario di architettura di Venezia) il 22 novembre 2006, sul tema “Pensare la casa”: «Ho l’intenzione di portarvi in un viaggio del pensiero per comunicarvi il piacere del ragionare sull’architettura e dell’avventura del progetto».

L’architettura, quindi, è innanzitutto nel pensare – qualcuno direbbe: è questione mentale – e il pensare non può che elaborare concetti, avere delle grammatiche, delle sintassi, dei principi, un ordine, una ragione. Certo, non degli assoluti, delle norme date una volta per sempre, altrimenti non produrrebbe il piacere del ragionare. Si sa, il piacere è tale anche perché non è sempre uguale, si ripete nelle differenze, dipende dalle situazioni, dai soggetti, dai momenti: se il vino avesse sempre lo stesso sapore che piacere sarebbe? Umanissima questione. Emerge un’etica e un’estetica del contingente, un contingente capace però, con le sue regole, di universalità.

Ragionare significa cercare, trovare, provare a stare nella ragione, cioè in quell’ordine di pensiero che ci caratterizza come esseri umani e ci tiene comunque assieme. Ma ragionare su cosa? Certo sull’architettura, ma sull’architettura in quanto progetto. Ecco dove sta la passione in Silvia: nel progetto, in ciò che ci permette di dare forma al mondo e di renderlo sempre migliore di quanto sia e persino di quanto possa essere. Per questo il progetto è una magnifica avventura e, inevitabilmente, un viaggio anche verso ciò che non si sa.

Subito dopo, Silvia legge agli studenti presenti nell’aula magna questo frammento preso da Borges: «A circa 300-400 metri dalla piramide mi inclinai, presi un pugno di sabbia, lo lasciai cadere silenziosamente un po’ più lontano e dissi a bassa voce: sto modificando il Sahara».

Ecco, un piccolo, piccolissimo gesto, oltretutto inutile, che modifica niente meno che la crosta terrestre.

C’è veramente tutto: la condizione umana, la sua finitudine, in quel semplice gesto talmente inutile da essere poetico; la potenza del pensiero nel corpo stesso della piramide, cioè nell’architettura; un silenzio che ha qualcosa a che vedere con l’eternità e che costringe a parlare a bassa voce, umilmente, e l’orgoglio ma anche l’arroganza di non essere solo parte del tutto.

Siamo noi! Così abitiamo la terra.

Silvia, rivolta agli studenti, prosegue: «Costruire significa modificare la crosta terrestre e questo implica un atto creativo e poetico, implica un modo di fare…una teoria. Ogni costruzione, ogni creazione, è preceduta da una scelta teorica. La negazione del bisogno di teoria sostiene come un valore la casualità, l’apparenza, il pittoresco. Anche questa è una teoria, ma non credo sia una strada da percorrere».

Se all’inizio Silvia aveva fatto emergere quella che potremmo chiamare una poetica – non a caso evocando un testo letterario di straordinaria qualità –, adesso prende una posizione. Se l’architettura è questione mentale ed elabora concettualità, allora essa non può che appoggiarsi a una teoria.

Va chiarito l’uso che Silvia fa della parola teoria: non è quella normativa e universalista imposta dalle scienze esatte, non è il «come necessariamente si deve fare», ma il «come ciò che si fa opera (architettura)» riesce ad esprimere le proprie regole, le ragioni della sua evidenza e della sua singolarità. È il primato della singolarità che però va motivata da un orizzonte universale profondamente ancorato alla condizione umana. È una poetica o, appunto, una visione del mondo comprovata, un fare che si compie nella singolarità/identità dell’opera che trova in sé stessa le proprie ragioni. È la questione dell’unità dell’opera. Unità significa fare in modo che chiunque veda, viva, utilizzi quell’architettura possa riconoscerla nei suoi specifici caratteri.

La teoria così posta fa sì che ogni progetto sia sempre lo stesso progetto, che però produce opere una diversa dall’altra. Al contempo, l’autonomia dell’opera può far emergere, oltre alle gerarchie, alle misure e/o alle proporzioni, alle logiche strutturali, ai materiali, alle tecniche costruttive e alle funzioni, anche – con evidenza e chiarezza logica – i necessari rapporti con il contesto: l’orientamento della fabbrica, il rapporto con la luce, il paesaggio e i vari servizi intorno, dalle strade agli accessi.

Per dare unità all’opera non dovrebbe emergere la personalità dell’autore (lo stile), le sue passioni o la volontà espressiva, ma appunto l’opera nel suo essere in sé stessa. E’ ciò che ci ha sempre detto un grande poeta come T.S. Eliot o un grande musicista come Stravinskij; l’opera diventa tanto più significativa tanto più il soggetto (il progettista) si libera di sé stesso o si autocontrolla affinché accada l’opera. È quello che, andando in una sorta di meta-tempo, riteneva Leon Battista Alberti: «un’opera è tanto più significativa quando non puoi togliere e aggiungere alcunché».

Difficile ma necessario. Altrimenti l’opera cede al marketing, all’espressione per l’espressione, all’emozione per l’emozione, mero gioco di forme, composizione fine a sé stessa. Tutto si fa così – sono parole di Silvia: «casualità, apparenza, pittoresco». Con l’eleganza e l’intelligenza che la caratterizzava questa era – ed è ancora per noi – la critica più lucida a gran parte dell’architettura della fine del secolo scorso e di questo primo ventennio, quell’architettura che usiamo (forse equivocando) definire postmoderna. Una critica che faccio mia. Spero anche voi. Sarebbe il miglior modo per ricordarla.