Che co­sa an­dò a fa­re Li­na Bo Bar­di in Bra­si­le nel 1946

Data di pubblicazione
02-03-2023

Negli ultimi anni, Lina Bo Bardi è stata oggetto di numerose pubblicazioni.1 Eppure, ogni qual volta ci si ponga con atteggiamento critico a riesaminare nel dettaglio – e sulla base di fonti primarie – i nodi della sua vita e della sua carriera, ci si viene a trovare dinanzi a sorprendenti angoli ciechi.

Alcuni anni fa, studiando il suo progetto per il Museu de Arte de São Paulo (MASP) a partire da una ricostruzione della storia del terreno su cui sorse, mi capitò di scoprire che ben poco di ciò che si sapeva delle ragioni del progetto – comprese le dichiarazioni della sua autrice – corrispondeva all’effettivo andamento dei fatti. Ad attestarlo era una poderosa documentazione.2 Non si trattava, dal mio punto di vista, di sminuire un’opera come il MASP e tanto meno la figura di Bo Bardi, ma di cogliere gli effettivi moventi del suo agire.

Da quella ricerca, uscivo con due forti indicazioni. La prima era che dovevo diffidare delle versioni dei fatti date per acquisite. La seconda era che Bo Bardi era una testimone da cui occorreva guardarsi. Ho trovato conferma di tutto questo anche occupandomi della principale «svolta» della vita di Bo Bardi: il suo trasferimento in Brasile. La domanda che mi ponevo era molto semplice: che cosa ci andò a fare?

Più che senza risposta, questa domanda non era mai davvero stata formulata. Ci si era accontentanti, in primo luogo, dei racconti offerti da Bo Bardi nei suoi ultimi anni di vita, che insistevano sul suo desiderio di lasciare – nel 1946 – un paese che, tradendo le speranze di chi l’aveva «liberato», continuava imperterrito nei suoi atavici vizi.3 A parlare era la voce di chi – dall’alto della propria (presunta) partecipazione alla Resistenza, dopo aver militato nel Partito Comunista e fatto la lotta armata4 – si sentiva nel diritto di prendere le distanze dalla piega deludente presa dalla Ricostruzione. Chi ha creduto in queste parole di Lina ha compiuto un «peccato», se vogliamo, veniale: è vero che tali affermazioni non sono state sottoposte a verifica, e tanto meno confermate, ma è anche vero che sono assai difficili da smentire. E poi, quasi certamente Bo Bardi ha esagerato nel rivendicare il proprio contributo alla «causa», ma come indicano diversi indizi doveva avere effettivamente simpatizzato con la Resistenza.

Ci si era però anche accontentanti di imputare il trasferimento in Brasile dei Bardi – appena sposati – sostanzialmente, se non esclusivamente, alle esigenze del marito. Diversi studiosi, da Francesco Tentori a Zeuler Lima, hanno provato a enumerare le ragioni che potrebbero aver portato Bardi, con i suoi trascorsi fascisti, a decidere di emigrare all’indomani della caduta del regime.5 Non se ne poteva che dedurre che, al suo arrivo, Bo Bardi non avesse nulla da fare in Brasile, se non accompagnare suo marito. Come ha detto Lima, «While Bo Bardi took her time to observe the new city, her husband was busy». Si sarebbe tentati di spiegare anche tale convinzione, che ci apprestiamo a mostrare come erronea, con l’ignoranza di documenti che attestino, o almeno suggeriscano, altrimenti. Resta però il sentore di un seppur incosciente maschilismo, che finisce vuoi per ricondurre al marito le decisioni della coppia, vuoi per vedere lui impegnato e sua moglie, invece, sfaccendata.

A cominciare a fare chiarezza ha provveduto Viviana Pozzoli, mostrando che Bardi, nel 1946, non stava attraversando l’Oceano con l’intento di «trasferirsi» in Brasile, ma stava compiendo, nei panni di direttore del romano Studio d’Arte Palma, una sorta di tournée destinata a concludersi nel giro di qualche mese;6 e che le cose andarono altrimenti «soltanto» perché, all’inaugurazione di una delle mostre tenute a Rio de Janeiro, ebbe modo di conoscere Francisco de Assis Chateaubriand, che gli affidò l’incarico di creare quello che sarebbe diventato il MASP.

I ritrovamenti documentari di cui mi appresto a dare notizia ci consentono di compiere un ulteriore passo in avanti. Come ha mostrato Pozzoli, quello dei Bardi doveva essere un viaggio di durata limitata. Come mi appresto a mostrare, non solo Pietro Maria aveva qualcosa di preciso da fare nei mesi di prevista permanenza nel Nuovo Mondo, ma ce l’aveva anche Lina.7 La notizia del viaggio doveva aver iniziato a circolare nell’ambiente milanese. A venirlo a sapere era stata anche la dirigenza della Triennale, allora sotto la guida di Piero Bottoni. È per questo che, a poche settimane dalla partenza, Bo Bardi si recò a colloquio con Gian Giacomo Galligo, segretario reggente della Triennale, da cui ricevette un incarico: rappresentare l’istituzione milanese perorando, a Rio, la causa della partecipazione ufficiale del Brasile alla sua ottava edizione (T8). Quando sbarcò nella capitale brasiliana, insomma, la presente Dichiarazione, redatta tanto in italiano quanto in inglese, attendeva Bo Bardi al fermoposta: «La latrice della presente, architetto Lina BO, è ufficialmente incaricata dalla T8 (Ottava Triennale di Milano – Esposizione delle arti decorative e industriali moderne e dell’architettura moderna) di condurre negoziati con autorità Governative, Istituzioni, Scuole, artisti, architetti etc. al fine di facilitare un intervento ufficiale del Vostro paese all’Esposizione [...]».

Queste poche righe sono sufficienti a modificare radicalmente l’idea che ci siamo fatti del primo periodo trascorso da Bo Bardi in Brasile. Quello che stiamo rilevando, sia ben chiaro, non attiene propriamente alle «ragioni» per cui lei e suo marito intrapresero la traversata del­l’Oceano. Bo Bardi non andò in Brasile appositamente per adempiere al compito che le venne assegnato; al contrario, il compito le venne assegnato perché stava per compiere tale viaggio. Quel che conta, tuttavia, è che aveva un incarico «ufficiale»: era un «agente» della Triennale in Brasile, insieme a Daniele Calabi, Giancarlo Palanti e Luigi Claudio Olivieri. A testimoniarlo è la documentazione conservata presso l’Archivio Storico della Triennale, da cui è tratta tra le altre cose la Dichiarazione sopra citata.8

Per quel che riguarda Lina Bo Bardi, quel che troviamo nelle carte qui conservate è assai rilevante. Visto l’incarico affidatole, l’architetta romana si mise subito in moto e venne ricevuta anche da chi, forse, non avrebbe prestato grande attenzione a una donna giovane e sconosciuta. Fatto sta che riuscì a entrare sin da subito in contatto con le grandi figure dell’inteligencja carioca, tra cui Lucio Costa, Oscar Niemeyer e Candido Portinari. L’incarico offertole dalla Triennale non conta quindi solo in sé e per sé (la partecipazione ufficiale del Brasile non avrà mai luogo, e il coinvolgimento dell’Instituto de Arquitetos de Brasil, sezione paulista, andrà in porto grazie a Calabi e al suo rapporto con Rino Levi), ma anche perché ci offre una sorta di sezione trasversale su quel preciso momento. Nelle lunghe lettere che rivolse a Piero Bottoni, Bo Bardi esternò in lunghe disquisizioni le proprie prime sensazioni. Se vogliamo provare a capire chi era Bo Bardi quando mise piede nel Nuovo Mondo, che cosa vedeva con i suoi occhi di italiana cresciuta nel regime fascista, è da qui che d’ora innanzi dovremo partire.

A emergerne è una donna ambiziosa, sicura di sé, a volta anche troppo fiduciosa del proprio giudizio, ma anche imbevuta di piccoli e grandi luoghi comuni. In quella che potrebbe essere la sua prima lettera dal Brasile, scritta a Bottoni il 29 ottobre 1946, a un certo punto si lascia andare ad alcuni commenti infelici, uno sulla lentezza dei brasiliani e la loro propensione a rimandare, l’altro sulla necessità di sconfiggere la concorrenza francese in campo culturale così da appropriarsi di «questo vergine e ricco mercato»,9 espressione da cui trapela una concezione del proprio ruolo al servizio di un’istituzione italiana figlia di una logica di competizione tra nazioni, in un quadro dal carattere smaccatamente eurocentrico. In un’altra lettera a Bottoni, poi, critica la mancanza di tatto di una coeva, ufficiosa «iniziativa» italiana a Rio i cui membri «hanno fatto discorsi di politica sul Brasile e si sono lamentati dei negri», commentando: «cosa pericolosa in un Paese dove in ogni uomo c’è un po’ di sangue nero».10 Ha ragione: malgrado le politiche eugenetiche  adottate, il Brasile ai suoi occhi doveva davvero presentarsi come uno sconvolgente melting pot; e tuttavia le sue parole suscitano un certo imbarazzo, poiché più che dirsi indignata per l’implicito senso di superiorità ostentato da altri italiani, si lamenta per la loro mancanza di tatto – non prende le distanze dal loro eurocentrismo, ma dalla sua ostentazione, in contrasto con l’«urbanità inglese e francese».

Purtroppo non abbiamo modo, in questa sede, di analizzare estesamente il carteggio in questione. Se abbiamo attirato l’attenzione su questi passi, è perché possono consentirci di stabilire con il massimo della precisione delle coordinate: la posizione di Lina Bo Bardi al suo sbarco dal transatlantico Almirante Jaceguay a metà dell’ottobre del 1946. Al termine della sua vita, senza dubbio esagerando, arriverà ad affermare: «Quando si nasce, non si sceglie nulla, si nasce per caso. Io non sono nata qui [in Brasile], ho scelto questo luogo per viverci. Per questo, il Brasile è il mio paese due volte, è la mia “patria d’elezione”».11 Ciò che i documenti della Triennale ci costringono a considerare è lo iato che si spalanca tra la donna che arrivò in Brasile e quella che vi morì quasi mezzo secolo più tardi.

Bo Bardi raccontò sempre il suo «viaggio» come un «trasferimento», compiuto per tagliare i ponti con il paese natale; finì così per rappresentare l’arrivo in Brasile come una sorta di incontro fatidico, di rivelazione dinanzi a un paese «inimmaginabile», in cui «tutto è possibile».12 Ma mentì. Il Brasile non fu affatto un incontro facile. Le sue categorie interpretative non le consentivano di comprenderlo. E poi era donna. Si era lasciata alle spalle un promettente contesto lavorativo, mentre qui non aveva contatti e committenti.13 Per anni vagheggiò di tornare in Italia, o per lo meno si sentì a metà tra due mondi. Solo in una serie di lettere rivolte al marito nell’aprile del 1956 – a ben dieci anni dal suo arrivo – la sentiamo dichiarare di aver optato per il Brasile. Dopo aver parlato della propria «profonda crisi», del «conflitto» interiore appena «risolto a favore del Brasile», racconta: «[ho cominciato] a identificarmi con questo paese-continente»; e conclude: «forse il mio “choc”, la mia crisi di tempo fa, era dovuta a questo: ora ho deciso – resto qui – e ricomincio a lavorare».14

Oltre che per i dati sinora ignoti che ci forniscono, le lettere rinvenute alla Triennale possono quindi rivelarsi preziose per la prospettiva che ci inducono ad adottare. Forse per orgoglio, certamente per potersi raccontare come una pasionaria – capace di prendere in mano la propria vita compiendo scelte radicali, tagli netti –, di questa lunga e faticosa «conquista», chiamata Brasile, Lina Bo Bardi non volle mai raccontarci nulla (ed è per questo, riteniamo, che non lasciò mai trapelare nulla del suo coinvolgimento con la T8). Ma se vogliamo provare a capire meglio quello a cui sarebbe stata capace di dar vita, dobbiamo tenere ben presente il punto d’avvio di un percorso che finalmente ci si rivela lungo, arduo e accidentato.

Note

 

1 Cfr. almeno Zeuler R. Lima, Lina Bo Bardi, Yale University Press, New Haven and London 2013; Andres Lepik, Vera Simone Bader (a cura di), Lina Bo Bardi 100: Brazil’s Alternative Path to Modernism, Hatje Cantz, Ostfildern 2014; Alessandra Criconia (a cura di), Lina Bo Bardi: un’architettura tra Italia e Brasile, FrancoAngeli, Milano 2017; Mara Sánchez Llorens, Manuel Fontán del Junco, María Toledo Gutiérrez (a cura di), Lina Bo Bardi. Tupí or not tupí: Brasil 1946-92, Fundación Juan March, Madrid 2018; Adriano Pedrosa et al. (a cura di), Lina Bo Bardi: Habitat, MASP, São Paulo 2019; Zeuler R. Lima, La dea stanca. Vita di Lina Bo Bardi, Johan & Levi, Milano 2021; e soprattutto Francesco Perrotta-Bosch, Lina. Uma biografia, Todavia, São Paulo 2021.

 

2 Ho illustrato più volte questa vicenda. La versione più completa si trova in: Daniele Pisani, O Trianon do MAM ao MASP: Arquitetura e política em São Paulo (1946-68), Editora 34, São Paulo 2019.

 

3 Cfr. almeno Lina Bo Bardi, Uma aula de arquitetura, in «Projeto», 133, 1990, p. 106; Ead., Curriculum literário, in Marcelo Carvalho Ferraz (a cura di), Lina Bo Bardi, Empresa das Artes/Instituto Lina e P.M. Bardi, São Paulo 1993, p. 12; Olivia de Oliveira, Entrevista con Lina Bo Bardi, in Lina Bo Bardi: Obra construida, numero monografico di «2G», 23-24, 2002, p. 237.

 

4 Cfr. almeno Lina Bo Bardi, Uma aula de arquitetura, cit., p. 105; Ead., Curriculum literário, cit., pp. 10-11; Olivia de Oliveira, Entrevista, cit., pp. 230, 239.

 

5 Cfr. Francesco Tentori, P. M. Bardi. Con le cronache de “L’Ambrosiano” 1930-1933, Mazzotta, Milano 1990, pp. 172-174; Id., Pietro Maria Bardi: primo attore del razionalismo, Testo & Immagine, Torino 2002, p. 71; Zeuler Lima, Lina Bo Bardi, cit., p. 34; Id., La dea stanca, cit., pp. 93, 102.

 

6 Cfr. Viviana Pozzoli, 1946! Perché Pietro Maria Bardi decide di lasciare l’Italia e partire per il Brasile?, in Ana Gonçalves Magalhães (a cura di), Modernidade latina: Os italianos e os centros do modernismo latino-americano, MAC-USP, São Paulo 2014.

 

7 A questo proposito, e più in generale sui temi toccati nel presente contributo, mi permetto di rimandare a una versione più completa della mia analisi della vicenda qui affrontata: The Hidden Beginnings of a Breakthrough: Lina Bo Bardi’s First Steps in Brazil, in «RIHA Journal», dicembre 2022, pp. 1-19 (https://journals.ub.uni-heidelberg.de/index.php/rihajournal/article/view/90731/87589).

 

8 Quella citata è la versione in inglese del draft della Dichiarazione allegata alla lettera di Piero Bottoni a Lina Bo Bardi dell’11 settembre 1946, presso l’Archivio Storico della Triennale di Milano. TRN_08_DT_154.2. A mettermi sulle orme di questi documenti è stata Marica Forni, a cui non sarò mai abbastanza riconoscente.

 

9 Lina Bo Bardi a Piero Bottoni, 28 settembre 1946. TRN_08_DT_154.2.

 

10 Lina Bo Bardi a Piero Bottoni, 2 dicembre 1946. TRN_08_DT_154.2.

 

11 Lina Bo Bardi, Curriculum literário, cit., p. 12; parole quasi identiche si trovano anche in Ead., Uma aula de arquitetura, cit., p. 107.

 

12 Lina Bo Bardi, Curriculum literário, cit., pp. 10, 12; Olivia de Oliveira, Entrevista, cit., p. 230.

 

13 Fatta parzialmente salva la Casa de Vidro, realizzata come residenza per se stessa e suo marito, anche gli incarichi di lavoro, per lunghi anni, le provennero quasi esclusivamente dal marito (gli allestimenti del MASP e delle sue mostre) e dal datore di lavoro del marito (è il caso del progetto per l’edificio Taba Guaianases).

 

14 Cit. in Anna Carboncini, Lina Bo e Pietro Maria Bardi. Un’alleanza fortunata, in Alessandra Criconia (a cura di), Lina Bo Bardi, cit., p. 107; Renato Anelli, Annotazioni sulla formazione intelletuale di Lina Bo Bardi, ibidem, p. 129.