Le porte del ba­cio

Da Lewis Carroll a Gadda e Joyce, da Hitchcock a Buñuel, un'incursione tra i significati, le funzioni, il senso e il sogno della porta.

Date de publication
03-07-2021
Daniele Vitale
Architetto e professore di Composizione architettonica al Politecnico di Milano

Statura, misura

Povera Alice, che dramma, che sconcerto, con questo suo diventare in modo alterno grande grande e poi piccola piccola, e cambiare continuamente statura. Beve dalla bottiglia e cresce cresce cresce, non passa più dalla porta, «speriamo di non crescere ancora»,1 si incastra dentro la casa, un braccio si infila nella finestra e le rimane all’aperto, la testa batte nel tetto, un piede si infila dentro il camino. «Il Coniglio intanto aveva raggiunto la porta e cercava di aprirla; ma siccome la porta si apriva verso l’interno e il gomito di Alice vi premeva contro, il tentativo fallì».2 Per fortuna cade dall’alto una grandinata di sassolini, che appena toccano il pavimento si trasformano in pasticcini. Quando Alice ne mangia uno, diventa di nuovo piccola e di nuovo può uscire all’aperto attraverso la porta, incontrando una folla di animaletti e di uccelli.

Nel destino di ciascuno, soprattutto dei più fortunati, può presentarsi un pasticcino decisivo che ti cambia la vita. Fatto sta che se tu sei troppo grande, o se è troppo piccola la porta per te, è dura o impossibile attraversarla. Lo sanno i topi, quando scappano al loro buco che è fatto giusto giusto per loro, e devono stringersi per passare di là e trovare salvezza. Quanto devono essere grandi le porte è dunque un problema. I libri dicono che devono essere fatte sulle misure dell’uomo, ma non tengono conto del gigante e del nano, e non sempre ricordano la differenza dell’imperatore e del mendicante, della gloria dell’uno e della vergogna dell’altro. Solo in certi casi la storia delle misure è cogente. Vale per le cabine sulla spiaggia del mare, che non ospitano solo i corpi di signore e signori, ma anche i gesti necessari a vestirsi e svestirsi. La loro porta è altamente pudica. Per le cabine, il corpo medio è un riferimento da cui non si scappa, e i giganti non sono né contemplati né ammessi. Le cabine sono calcolate, precise, molto più delle porte. Le porte, almeno un po’, possono abbandonarsi al sentimento e al capriccio.

Chiusura

Torniamo a noi. C’è un primo argomento, che è quello delle misure che devono avere le porte. C’è un secondo argomento, ed è come si fa quando sono chiuse, perché dotate, oltre che di maniglia, anche di serratura e di chiave. Alice arriva in una sala dove ne trova ben dieci, tutte chiuse. Dunque, le porte sono fatte non solo per passare, ma anche per impedire il passaggio. Hanno dispositivi appositi, chiavistelli, ganci, catenacci, poi serrature con chiavi, poi ancora badge elettronici, in un progresso infinito. Poi ci sono le porte blindate, simili a casseforti. La serratura si accompagna alla maniglia, e la maniglia sporge: invita ad aprire più di quanto non chiuda, mentre la serratura invita a chiudere più di quanto non apra. Scoraggia. Ma il fascino della chiave e della toppa e del loro rumore è espressivo e potente.

«Come ha facilitato l’egresso il rimanente centripeto al partente centrifugo? Inserendo il fusto di una chiave maschio arrugginita nel buco di una serratura femminile malferma, facendo presa sulla testa della chiave e girandone le seghettature da destra a sinistra, liberando un paletto dalla propria staffa, tirando intermittentemente verso l’interno una porta scardinata che sta cadendo in disuso e rivelando un’apertura per libero egresso e libero ingresso».3

È il fascino decadente di una porta scassata, quello che descrive Joyce. Ma soprattutto, in una vecchia porta che si trova chiusa ancora si bussa. Può essere un bussare imperioso o petulante, questuante, oppure legato a un intrigo. Bussare è la discrezione ma anche l’inganno. Non si vede chi bussa. Suona diverso secondo la qualità e lo spessore del metallo o del legno. È l’opposto del ronzio delle porte che si aprono da sole negli aeroporti e nei grandi negozi, automatiche o a comando, o serve dei telefonini, o con citofono e scatto. Ma è anche l’opposto delle porte di vetro, dove è impossibile bussare e ciò che sta dietro rimane spalancato allo sguardo. Spalancato o filtrato, opalescente, madreperla, smerigliato, corrugato, brillantino, con tutte le variazioni del caso. Palestra di un architetto.

Cerimoniale

Ecco la porta. Prego. Dopo di Lei. Si figuri. Ma non vorrà mai. Sì ma insomma. Andiamo di là. Le porte hanno un cerimoniale cosciente o incosciente. Per esempio: mi sfilo rapidamente e passo la porta prima dell’altro. È per far strada, ma affermo che sono io che conosco la strada. Oppure, mi inchino appena e in segno di invito protendo la mano, la destra; oppure faccio una riverenza in segno di omaggio, e l’altro passa prima di me. Ma è anche un gioco di cenni, di sorrisi, di sguardi. Ha un certo rilievo chi passa per primo e l’inclinazione del capo sul collo.

Protocollo? Rito liturgico? Come avviene il commiato? «Come si sono allontanati, l’uno dall’altro, nell’accomiatarsi? Fermi perpendicolari sulla stessa porta e su lati differenti della sua base, le linee delle loro braccia nel gesto d’addio incontrandosi in un punto qualunque e formando un angolo qualunque inferiore alla somma di due angoli retti».4

Le porte sono strumenti delicati. Ti fiutano, esitano, sanno molto di te. Preparano sorprese. Esprimono rabbia, sbattendo con rimbombo e violenza. Contribuisce la fattura, se la porta è stretta, se è larga, se ha o no la cornice. Potremmo dire: una buona porta non sa di cerimoniale e ne ammette diversi (come una buona casa ammette modi diversi di vita). Ma almeno un po’ lo suppone. È fatta per un cerimoniale e dopo veloce lo scorda. È avvenuto così per le porte di un tempo dei marchesi e dei re: chi mai ne ricorda i rituali?

Suoni

Ogni casa ha i suoi suoni e le sue voci, secondo le stagioni e secondo le ore. Gli scricchiolii dei legni e il ronzio degli apparecchi, i campanelli, i telefoni, le faccende di casa, e poi le parole e i silenzi. I silenzi sono pieni di echi, perché portano dentro di sé i rumori delle cose e delle persone di un tempo. Poi arrivano i passi con il loro suonare attraverso le scarpe: i tacchi a spillo hanno ticchettii fitti che mettono in allarme. I tacchi grossi fanno rumori imperiosi e dicono: mi avvicino, è bene tu sappia chi sono; sto per entrare, mi annuncio. I mocassini sono come scarpe da gatti. Altre cigolano e sono un lamento. Le pantofole sono il regno della comodità ma sciabattano e sfrusciano.

E le porte? Le porte sono fatte in teoria per separare i rumori. Quella con cui si accede allo spazio domestico lascia fuori i frastuoni della città, i tram, le sirene, i tumulti, e introduce ai cinguettii o agli urli di casa. Le porte separano i pavimenti, quello dell’androne o del pianerottolo da quello dell’anticamera, e quello delle stanze tra loro, del soggiorno dalla stanza da letto, della cucina dal bagno. Piastrelle e parquet, moquette e linoleum sono piani sonori e le scarpe strumenti di percussione. Ogni casa è un regno e ogni stanza una scatola sonora. Si attraversano le soglie e mutano i toni.

Ma i pavimenti stanno anche nel loro disegno e nel loro colore, e la società delle stanze li raccoglie in una composizione studiata o casuale. A volte disegni e materiali sono diversi, per sottolineare l’identità dei locali. Ma l’identità ha una faccia visiva e una sonora. I suoni accompagnano le figure e sono loro complici. Le figure si esaltano nel loro legame coi suoni.

E però... Però accade anche che i rumori penetrino e infrangano i muri. «La questione dei tramezzi è per me d’importanza grandissima: negli alberghi il tramezzo più spesso unisce più che non divida la distinta füsis degli ospiti e parole, sospiri, acqua fredda, acqua calda, vanno come ala invisibile o suono da una camera all’altra, legando l’attenzione del giovine al catarro del vecchio, il bacio della sposina alla pisciarella trotterellante della vecchiarda, e il rigore igienico della fanciulla up-to-date, che apre le cateratte da mezzanotte alle due, per far sapere al mondo “ch’ella si lava con diligenza” ai miei più variopinti indirizzi ed auguri di lunga vita».5 Le porte, la loro acustica, vanno considerate nella loro solidarietà coi tramezzi e coi muri.

Open space (o dei muri travolti)

Open space si può dire solo in inglese. Spazio aperto è espressione ridicola che pare in dialetto. Basta coi cubicoli fatti di muri con cui dividere un edificio; sono antiquati come la rue corridor; che una croce li annulli.

Negli uffici a spazio aperto le pareti sono scomparse, l’occhio gira, la veduta è globale, l’aria circola. Tutto è libero e sano. È un luogo di purificazione igienica sottratto al disordine e al capriccio dei singoli. È uno spazio meticoloso, sistemato, regolato. Una distesa di scrivanie e di mobili in serie, talvolta disposti in modo da formare piccole nicchie. Ronzii e rumori sono catturati da pannelli fonoassorbenti. Persino l’aria, come dice il nome, viene condizionata. I percorsi comuni sono guidati dagli arredi e talvolta si incrociano. Di colpo si aprono deviazioni verso gli spazi di lavoro privato, una postazione, una ridotta. Anche tra i gabinetti (i WC) partizioni leggere con i piedini e che non arrivano in alto al soffitto. È una città in miniatura, dove i mobili sono diventati edifici e gli uomini sono tornati giganti. E le porte? Non essendoci muri non possono esserci porte, ma sono rimaste le soglie. Sono linee virtuali che dividono una situazione dall’altra. Sono porte psicologiche che bisogna intuire e che l’open space riesuma dalla notte dei tempi.

Ma l’open space può non avere la forma di un piano aperto continuo: nell’invenzione di Frank Lloyd Wright diventa una cattedrale, come nel Larkin Build­ing a Buffalo (1903-1906):6 al centro una stretta e altissima navata illuminata dall’alto: sui lati, sopra il piano terreno, altri tre piani di spazi che possiamo vedere come moderni matronei. Ovunque una disposizione delle postazioni di lavoro seriale con mobili metallici. «La più grande fabbrica del mondo di saponi e prodotti per la toilette», dice una pubblicità. Sui parapetti in alto vengono incisi una serie di motti, che possiamo intendere come principi morali: «Cooperation – Economy – Industry – Thought – Feeling – Action...» ecc.  Wright, grande architetto, dimostra una cosa: che persino l’open space può essere bello. Che lo si può riportare a una forma. Che tra forma e servitù del lavoro il rapporto è enigmatico e possono vivere insieme.

E oggi, che succede? Che l’open space esiste ancora e spesso si è esteso alla casa. Che l’ufficio ha conquistato una quantità di annessi e di spazi di natura accessoria, per rendere più bella la vita. C’è un romanzo che lo racconta, con una protagonista entusiasta, e l’edificio viene in un commento descritto così. «L’azienda si presenta come un mondo a parte, con un sistema di uffici e laboratori in open space futuristici, un’area mensa di nove piani, mattonelle con scritte incoraggianti (“Sogna”, “Innova”, “Respira”), palestre e piscine su quasi tutti i piani, campi da tennis, feste e pic-nic organizzati per le feste e gli anniversari, tavoli da ping pong negli uffici per ridurre lo stress, zone di riposo che diventano camere da letto per chi si trattiene al lavoro, centri di rilassamento yoga, un night club e crooners degli anni Settanta che cantano in diretta nei corridoi, una biblioteca, una fontana firmata dall’architetto spagnolo Santiago Calatrava e persino un acquario di pesci tropicali. Tutto questo avviene in un ambiente di assoluta trasparenza: tutto è visibile e nessuno può nascondersi (come nel Panopticon, il carcere progettato da Jeremy Bentham nel 1791)».7 Ma Jeremy Bentham, cultore della forma, sarebbe contento?

Le porte del bacio

«F.T. [...] Comunque ci sono cose molto belle, per esempio le sette porte che si aprono dopo il bacio e il primo incontro tra Gregory Peck e Ingrid Bergman: è chiaramente un colpo di fulmine, esso lo ama fin dal primo sguardo...
«A.H. Disgraziatamente, proprio in questo momento i violini cominciano a suonare, è terribile!».8

Si vedono gli occhi di lui grandi sullo schermo che la guardano. Poi gli occhi di lei che guardano lui e poco a poco si chiudono. Allora compare una porta che si apre; un’altra dietro che pure si apre; poi un’altra e un’altra fino alla settima. È una visione telescopica, un’infilata di porte sempre più lontane e più piccole. Quando si apre l’ultima, compare sovrapposta e in dissolvenza l’immagine di lei e di lui che teneramente si baciano. Un bacio, anche se tenero, è irrimediabile e inghiotte. Continuano a suonare i violini.

Alfred Hitchcock, nell’intervista a François Truffaut, spiega come per un’altra scena, quella del sogno, abbia chiesto aiuto a Salvador Dalì, e che da lui desiderava «le ombre lunghe, le linee che convergono nella prospettiva...». Le stesse che troviamo nella sequenza delle porte e del bacio. I protagonisti sono nelle mani di un dio. È il colpo di fulmine che spalanca gli usci? Che c’è tra una porta e l’altra? Sono immagini senza nessi apparenti, e per questo capaci di accendere un lume.

In un altro film surrealista, L’Angelo sterminatore di Buñuel,9 spazi e porte sono aperti ma non si riesce a passare. C’è una forza invisibile che trattiene dentro la villa i convitati al banchetto.

«  –  Per me non escono. Avete visto. Che ne dite di questa situazione.
–  Non capisco. Mi sembra inverosimile. A meno che non sia anche troppo normale».10

Rimanere prigionieri per giorni e giorni e non sapere quando si esce, è inverosimile e insieme normale. È un incubo ricorrente. Quei signori eleganti e manierati, ma che si rivelano terribili e truci dietro le loro maniere, sono chiusi in una gabbia. Le porte sono solo una possibilità, una suggestione. Possono essere spalancate e non si passa lo stesso.

L’incubo si ripete dopo non molto, perché le forze che operano non sono casuali. I convitati riusciranno a liberarsi e si ritroveranno in chiesa per ringraziare il signore con un solenne Te Deum: ma anche lì sorgerà sulla porta una barriera invisibile e rimarranno segregati, mentre fuori scoppiano tumulti e si odono spari.

«L’immaginazione più violenta e libera al servizio di un sillogismo tagliente come un coltello, irrefutabile come una roccia...».11
«L’isteria è uno stato mentale più o meno irriducibile che si caratterizza per la sovversione dei rapporti che si stabiliscono tra il soggetto e il mondo morale cui egli crede in pratica di appartenere, al di fuori di qualsiasi sistema delirante. [...] L’isteria non è un fenomeno patologico e può, sotto ogni punto di vista, essere considerata come un mezzo supremo d’espressione».12

Le porte hanno un certo ruolo nel controllo dell’isteria. A volte la suscitano. Sono comunque un mezzo d’espressione supremo.

Architettura

Sono un signore (o una signora). Sono architetto. Ho bisogno di una porta. La desidero. E allora falla, pensandola con desiderio e con cinico calcolo. Sappi però che quando l’hai fatta ti lascia, si dimentica di tutto e soprattutto di te, della brama, del calcolo. Tornerà alla sua famiglia, che è quella di tutte le porte del tempo.


Questo testo è il libero adattamento dell’intervento al Convegno sulle porte tenuto all’Università Kore di Enna il 26 maggio 2016.


Note

  1. Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie – Al di là dello specchio, trad. di Alessandro Ceni, intr. di Stefano Bartezzaghi, con un saggio di Wystan Hugh Auden, Einaudi, Torino 2015, p. 32.
  2. Ibidem, p. 34.
  3. James Joyce, Ulisse, trad. di Enrico Terrinoni e Carlo Bigazzi, a cura di E. Terrinoni, Newton Compton, Roma 2012, p. 664.
  4. Ibidem.
  5. Carlo Emilio Gadda, La casa (tra i «Racconti incompiuti»), in Opere di Carlo Emilio Gadda, edizione diretta da Dante Isella, vol. II, Garzanti, Milano 1994, p. 1119.
  6. Frank Lloyd Wright, edificio per gli uffici amministrativi della Larkin Soap Building Company a Buffalo (New York); progetto del 1903, costruzione del 1904-1906.
  7. La descrizione è tratta da Giuseppe Panella, Ada Barbaro, Distopica, letteratura, voce della Enciclopedia Italiana, IX Appendice, 2015, versione on-line. Il romanzo cui il testo si riferisce è quello di Dave Eggers, The circle. A novel, Hamish Hamilton, London 2013; ediz. it., Il cerchio. Romanzo, trad. di Vincenzo Mantovani, Mondadori, Milano 2014.
  8. François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, trad. di Giuseppe Ferrari e Francesco Pititto, Il Saggiatore, Milano 2009, p. 136 (ediz. orig. F. Truffaut, Le cinéma selon Hitchcock, Gallimard, Paris 1993). Il film è Io ti salverò (titolo inglese Spellbound), 1945, regista Alfred Hitchcock, attori principali Ingrid Bergman e Gregory Peck, produttore David O. Selznik, contributo per la scena del sogno di Salvador Dalí.
  9. L’angelo sterminatore, film del 1962, regista Luis Buñuel, soggetto di José Bergamín, sceneggiatura di L. Buñuel e Luis Alcoriza, produttore Gustavo Alatriste, prodotto in Messico.
  10. Dall’audio del film.
  11. Octavio Paz, El cine filosófico de Buñuel, in Obras completas, vol. II, pp. 956-962 (cit. da p. 959), già in O. Paz, Corriente alterna, Siglo XXI, México 1967.
  12. André Breton, Louis Aragon, Le cinquantenaire de l’hystérie. 1878-1928, «La Révolution Surrealiste», 15 marzo 1928, ora in A. Breton, Œuvres Complètes, vol. I, Gallimard (coll. Bibliothèque de la Pléiade), Paris 1988, p. 950.


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Una conferenza della Prof. Dr. Elli Mosayebi dell'ETH di Zurigo dedicata a «Die Architektur der Tür»

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