Praxis (et alia)

David Chipperfield al Teatro dell’architettura di Mendrisio

«I limiti dell’architettura sono i suoi punti di forza. La sua incapacità di dare forma a un’idea transitoria, la sua inevitabile tendenza a stabilizzarsi è il potere latente dell’architettura» (David Chipperfield, 1994).

Date de publication
26-02-2020

Fin dal suo Theoretical Practice David Chipperfield si interroga sul rapporto tra teoria e prassi in architettura, ritenendo che ogni opera debba essere guidata da un’idea, «una visione d’insieme in grado di ordinare e dirigere tutte le decisioni» e che solo in questo modo quell’unità perseguita attraverso il progetto possa tradursi in forma e materia – Form Matters –, cioè in fatti concreti, facendosi “pratica”, tangibile e quindi commisurabile, cioè giudicabile (dal proprietario, dall’abitante, da chi passa per strada e la osserva, ma anche da chi la ignora).

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Practice, il titolo della conferenza, allude a questa fisicità e concretezza con cui l’architettura ha un rapporto ineludibile anche quando è alla ricerca del concept e ancor più quando – con un riferimento a quel Wittgenstein a cui lo stesso Chipperfield riconosce un ruolo fondamentale nella propria formazione – si cercano non tanto le risposte, quanto piuttosto si vogliono formulare meglio le domande.

Non sembra dunque affatto casuale che la conferenza abbia coinciso con l’inizio del semestre primaverile all’Accademia di architettura e in particolare con la presentazione, proprio nella mattina di giovedì 20 febbraio, degli atelier di progettazione; e neanche che sia stata preceduta, oltre che dalle parole di Riccardo Blumer, da un’introduzione di Jonathan Sergison, che di Chipperfield è stato uno dei primi collaboratori, nella Londra degli anni Ottanta, e che oggi insegna a Mendrisio.

Quella di Chipperfield non è stata una semplice conferenza, ma un discorso sull’architettura che, attraverso parole e immagini, opere ed esperienze, ha mostrato una sperimentazione articolata; un discorso per certi versi “politico”, al centro del quale non prevalgono nozioni, tecniche, abilità o competenze – che pur si mostrano, silenziose e raffinate, nei progetti presentati – ma domande (e possibili risposte) circa il ruolo dell’architettura in rapporto alla politica, all’economia e alla società.

Di nuovo, non pare affatto casuale che Chipperfield, Guest Editor di «Domus» per il 2020, nel primo numero da lui diretto si domandi: «Qual è il nostro ruolo?», qual è cioè la “visione” attraverso cui, in qualità di architetti, designer e urbanisti, dobbiamo guardare al mondo senza abbandonare il territorio a cui apparteniamo, senza farci portare alla deriva da questioni che con l’architettura hanno solo tangenzialmente a che fare, senza cioè abbandonare il territorio del progetto, della costruzione, della forma – concreta e poetica? «Come architetti» dichiarava lo stesso Chipperfield nel 1994 «abbiamo il privilegio di lavorare con il mondo fisico – con materiali, mattoni, pietra, legno, vetro, metallo, con forme e con la luce. Noi abbiamo a che fare con la materia in sé stessa, non solo con la riflessione o l’osservazione distaccata del mondo fisico. Poeti, pittori e politici dovrebbero essere invidiosi di questo nostro vantaggio. […] Eppure buona parte del nostro ambiente architettonico sembra caratterizzato dall’assenza di presenza fisica, siamo circondati da edifici che esprimono il cinismo della loro concezione».

Proprio questo Chipperfield vuole evitare, ritornando a parlare di architettura, dei suoi valori formali e del suo portato spirituale, ma anche e soprattutto della capacità che solo l’architettura possiede di operare sullo spazio, per riappropriarsi delle relazioni tra gli elementi fisici e i meccanismi sociali, economici o meramente funzionali.

A partire dal progetto per il Neues Museum a Berlino, dove il rapporto con l’architettura, la città e la storia è immediato e immanente, il racconto si dipana attraverso la narrazione puntuale, seppur rapida, di alcuni lavori recenti, facendo progressivamente prevalere il peso della pratica nella costruzione del discorso sociale e culturale contemporaneo: la poetica rarefatta del padiglione d’ingresso del cimitero di Inagawa dialoga a distanza con le proporzioni arcaiche delle colonne del Museo Jumex o con il blocco massivo dell’headquarters di Amorepacific, per arrivare all’attività della Fundación RIA in Galizia, dove l’architettura apparentemente sparisce per lasciar prevalere i rapporti spaziali, alla ricerca dell’identità e delle relazioni tra comunità e paesaggio, natura e storia.

«Design is a messy and uncomfortable process», è la risposta data a una giovane studentessa che, al termine della serata, chiedeva da dove si parte per "fare" il progetto; è all’interno di questo processo, disordinato e scomodo, che secondo Chipperfield si svolge la pratica (artistica) del progetto, affidando il discorso alle «qualità arcaiche e fondamentali dell’architettura» – termini che lui stesso impiega per presentare sull’ultimo numero di «Domus» il lavoro di Peter Märkli – e correndo volentieri il rischio di risultare fuori moda. Solo in questo carattere stabile (della professione) risiedono il valore e la forza dell’architettura e solo da lì – pare suggerirci Chipperfield – si può risalire al ruolo autentico dell’architetto.

Informazioni

«Practice», conferenza pubblica di David Chipperfield

Giovedì 20 febbraio 2020, 19.30

Auditorio del Teatro dell’architettura, Mendrisio

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