Franco Grig­nani al m.a.x.

Intervista a Mario Piazza, curatore della mostra

Artista per vocazione, architetto di formazione, fotografo e grafico per scelta. Franco Grignani (1908-1999), al quale è dedicata in questi mesi una mostra al m.a.x. di Chiasso, fu una figura multiforme, capace di far saltare i confini disciplinari.

Date de publication
13-06-2019

La sua opera più famosa (anche se molti non sanno chi sia l’autore) è il marchio Pura Lana Vergine (International Wool Society IWS), del 1963, che riassume un concetto (la morbidezza del gomitolo) e allo stesso tempo tutti i suoi studi su percezione e Gestaltpsychologie. Il marchio IWS è però solo una delle sue tante creazioni (oltre 300 opere in mostra), solo una delle infinite «forme virtuali» create distorcendo le immagini mediante rotazioni, torsioni, deformazioni, accelerazioni: «traumi allo spazio», per dirla con Gillo Dorfles, che agiscono sull’occhio e sulla mente. Mario Piazza, curatore della mostra insieme a Nicoletta Ossanna Cavadini – nonché grafico, architetto, docente al Politenico di Milano, art director della rivista «Abitare» ecc. – ci dice di più.

Gabriele Neri: Franco Grignani si è sempre mosso tra discipline e prospettive diverse. Come possiamo inquadrarlo?
Mario Piazza: Grignani fa parte della generazione di gente come Bruno Munari o Luigi Veronesi, figure che hanno avuto un’evoluzione simile, sempre in bilico tra grafica, arte, design e fotografia. Non a caso sia Munari che Grignani ebbero un’esperienza nel secondo futurismo, e in generale un’attenzione particolare per le avanguardie storiche, italiane in particolare, e poi verso il costruttivismo. C’era in loro un’indole particolare, che partiva dall’esperienza artistica; poi, per la necessità di avere una professione, ma non solo, Grignani come altri trovò nella grafica una sponda che gli consentiva di portare dentro tale ambito tutta la sua ricerca sperimentale, anche con maggiore libertà di movimento, raggiungendo risultati notevoli.

La grafica non come campo specifico ma come ponte tra diverse espressioni artistiche. Hai citato Munari: che differenza c’è tra i due?
Munari e Grignani sono opposti e complementari: tanto il primo è leggero e maieutico, l’altro è introspettivo, monacale, teso a una ricerca quasi dogmatica della natura percettiva dell’occhio e della mente. Mentre Munari compone geometrie vicine a una dimensione di piacevolezza, quelle di Grignani sono assiomatiche, senti che al loro interno c’è una certa purezza del calcolo.

Da dove proviene questo caratteristico approccio percettivo?
L’origine, il collante, è la dimensione dinamica, legata al movimento, che è propria del futurismo. Tra l’altro, le opere più futuriste di Grignani guardano alla figurazione plastica di Fortunato Depero, altro artista che fece molta pubblicità. Da questo punto di partenza, c’è poi un allontanamento verso l’indagine profonda dei fenomeni percettivi. Un contributo fondamentale è dato poi dalla sperimentazione fotografica, che Grignani avviò già negli anni Venti: anche la fotografia realistica, che però molto presto va in una direzione precisa. In mostra si vedono ad esempio servizi per riviste, in cui le immagini sono «esasperate»: quello che gli interessa non è la raffigurazione del reale ma la drammatizzazione di alcuni elementi della realtà, dominati dalla luce. Ad esempio il contrasto esasperato in paesaggi in cui la montagna diventa una massa scura in controluce… Il passaggio successivo per Grignani è quindi andare verso la fotografia sperimentale astratta, quella dei costruttivisti russi, di Moholy Nagy, di Man Ray. In questo modo, Grignani ha avviato una sperimentazione legata al rapporto percettivo tra occhio e mente.

Nei mesi scorsi, il Centre Pompidou ha dedicato una grande mostra a Victor Vasarely, fondatore dell’art optique. In molte opere di Grignani troviamo delle affinità con quel tipo di ricerche.
Certo, si può trovare un simile concetto di strutturazione geometrica, così come la serialità, il tema della standardizzazione, del ritmo. Grignani ha però anticipato molte delle tendenze visibili nell’arte cinetica e nell’optical art, grazie ai suoi studi matematici e alla curiosità verso il ritmo di evoluzione dei dispositivi visivi. Era una sorta di «Escher geometrico»; nonostante ciò, fu anche capace di dare grande spazio all’intuizione.

Come avveniva per Grignani il passaggio dall’opera d’arte alla pubblicità o al progetto con una finalità comunicativa specifica?
Grignani ha sperimentato molto usando giochi di lenti, specchi e vetri, come facevano le avanguardie in fotografia. Questi risultati sono stati poi tradotti, nella dimensione comunicativa, in progetti specifici, diventando spesso molto pertinenti. Vedi ad esempio la serie di copertine di romanzi di fantascienza da lui studiate per la casa editrice Penguin Books, che presentano forme acquose, senza confine, disposte in maniera entropica. Da forme astratte, esse sono diventate perfette per il tema richiesto.

Qual è il concetto alla base della mostra?
Negli ultimi anni le mostre su Grignani si sono concentrate soprattutto sul suo lavoro artistico o su quello fotografico. Il fatto di avere esposto tutto insieme, mescolato, consente invece di trovare delle linee di attraversamento della ricerca, che fanno vedere come una cosa sia vicino all’altra. Questa è l’originalità maggiore della mostra, al di là del singolo pezzo. Ci sono opere fotografiche che diventano opere artistiche poi pubblicità: questa è una grande sorpresa che si può scoprire in mostra.

Il bianco e nero è una cifra caratteristica di Grignani. In mostra ci sono però anche molti colori.
Abbiamo voluto esporre anche dei lavori fatti con colori molto contemporanei, colori fluo, molto forti, quasi allucinatori: non il colore ma «l’ultra colore»… qualcosa al di fuori della norma.

Qual è stato il successo critico di Grignani?
Grazie al suo uso del linguaggio delle avanguardie artistiche acquisì una connotazione di grande originalità e autenticità che gli valse ben presto un riconoscimento internazionale. Ad esempio, nel catalogo della mostra c’è un testo di Bruno Monguzzi che racconta come in uno dei primi numeri della storica rivista svizzera «Neue Graphik», alla fine degli anni Cinquanta, fu fatto un reportage sulla grafica milanese, che lo fece diventare molto noto. Monguzzi vide questo numero e disse: devo andare a Milano! Grazie a questa notorietà, lo studio di Grignani divenne meta di molti grafici svizzeri che vollero lavorare con lui in Italia. Lui, a sua volta, era molto interessato a questo scambio culturale.

 

Franco Grignani (1908-1999). Polisensorialità fra arte, grafica e fotografia

A cura di Mario Piazza e Nicoletta Ossanna Cavadini

m.a.x. museo, Chiasso, fino al 15 settembre 2019

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