Spazi di prima ac­co­glienza dei mi­granti e campi pro­fu­ghi oggi: una ri­fles­sione fi­lo­so­fica

Date de publication
11-02-2019
Revision
11-02-2019

A un livello di riflessione filosofica generale, facendo ricorso indiretto a una terminologia legata a Freud ed echeggiante Heidegger, si può affermare che è unheimlich, cioè spaesante, uno spazio che viene in qualche modo visto, identificato, vissuto e praticato come abitabile e vivibile nonostante il suo essere inabitabile. A un livello specificatamente attuale è lecito affermare che in larga parte è unheimlich-spaesante lo spazio, sia concettuale che fisico, occupato dallo straniero, che oggi è il migrante che dai paesi dell’emisfero meridionale del mondo si sposta, in genere forzatamente e in stato di necessità emergenziale, verso i paesi occidentali. La presenza unheimlich-spaesante dello “straniero tra noi”, nella nostra realtà contemporanea occidentale, si può tradurre in tre differenti livelli di prossimità dal punto di vista filosofico-concettuale e spaziale-concettuale. Possiamo parlare di presenza assimilata del migrante ovvero annullamento della sua diversità; possiamo parlare di vicinanza dello straniero ovvero sua integrazione; possiamo parlare di vicinanza dello straniero che è in realtà lontananza. In quest’ultimo caso il migrante si situa all’interno dei confini di una nazione della quale non è cittadino in condizione di autonomia e clandestinità oppure si situa necessariamente in spazi, generalmente collettivi, come centri di prima accoglienza, hotspots e, caso estremo, campi profughi. Come definire questi spazi? Questi sono spazi che possiamo definire luoghi eterotopici, evocando uno degli scritti più letti di Michel Foucault. Sono spazi altri. Sono spazi all’interno dei quali sono sovvertiti e/o annullati i rapporti di senso e significato codificati al loro esterno. Questi luoghi eterotopici della presenza collettiva dei migranti in attesa di inserimento in una società altra (rispetto a quella di provenienza) assumono una forma concettuale che potrebbe definirsi dello stallo emergenziale.

Fare un’analisi definitoria e iconografica, per così dire a frame, di questi luoghi dello stallo emergenziale, per come si presentano oggi, permette di delinearne nello specifico alcune caratteristiche peculiari e nettamente individuabili. Prima di tutto, dal punto di vista più concretamente spaziale e dell’organizzazione dello spazio: il luogo dello stallo dei migranti è caratterizzato da provvisorietà abitativo-strutturale, provvisorietà che si fa estrema nel caso del campo profughi (la «tenda»). Lo spazio dello stallo emergenziale migrante è poi generalmente caratterizzato dall’essere uno spazio chiuso concentrato delimitato. In tale situazione sono ben individuabili un «esterno», un «fuori» e un «interno», un «dentro». L’accesso in entrata e in uscita è determinato da dispositivi di riconoscimento e di apertura e chiusura più o meno rigidi. Ciò nella consapevolezza della presenza più o meno latente e più o meno panottica dell’apparato istituzionale di governo del territorio entro il quale sorge il luogo della prima accoglienza. Ma dal punto di vista propriamente esistenziale cosa si può dire? È caratteristica dei luoghi dello stallo emergenziale migrante la dimensione della costante attesa. È un’attesa di futuro; è un’attesa di futuro che si svolge nel/al presente; è un’attesa di futuro che si svolge in un costante presente che è precario. La dimensione temporale che contraddistingue l’aspirazione al cambiamento e la speranza – che contraddistingue «il principio speranza» direbbe Ernst Bloch – che di per sé è declinata al futuro, viene in un certo senso «appiattita» su di un presente momentaneo, precario, legato alla consapevolezza dell’essere in uno stato di emergenza (spesso drammatica) e non di normalità abitativa. 

Quanto una concezione delle frontiere non come barriere censorie potrebbe permettere modalità alternative di accoglienza rispetto all’idea della concentrazione localizzata? Quanto dal passato europeo, cioè dal passato “propriamente” occidentale, può venire a modello? Si pensi ad esempio alla rete dell’accoglienza dei pellegrini durante il medioevo e, nello specifico, al suo essere stata territorialmente articolata e organizzata in un’ottica di diffusione capillare e non di localizzazione. L’accoglienza non potrebbe scaturire in occupazioni normate, legalmente riconosciute e gestite di cosiddetti vuoti, di spazi abbandonati, in un regime di capillarità territoriale? Ovvero: potrebbero instaurarsi nuove modalità di abitare diffuso di contro a un alloggiare in stallo emergenziale?

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