Henry Moore
A oltre un secolo dalla nascita come Rivista Tecnica, presentiamo Fondamenta: una raccolta digitale gratuita di articoli e saggi che hanno segnato il percorso della rivista, valorizzandone il patrimonio culturale e tracciando un filo di continuità verso il futuro.
Il primo articolo di Fondamenta ci porta tra le pagine del fascicolo 463 della Rivista Tecnica della Svizzera Italiana, nel 1955. L'articolo si trovava all'interno della rubrica di cultura e d'arte a cura dello storico dell'arte e dell'architettura Virgilio Gilardoni dal titolo Galleria. Pubblicata il 1 gennaio dello stesso anno, la rubrica, per citare le parole del curatore, "Non vorrebb'essere una nuova rivista nel senso comune della parola - le pagine fitte di piombo, di parole e di frasi troppo spesso superflue dei periodici di provincia che non abbiano una precisa funzione e una ragione d'essere, confessiamo, ci fan paura - ma qualcosa di diverso, che il titolo stesso delimita". Galleria si proponeva per il lettore come "un luogo di ritrovo, dove, regolamente, sia dian convegno amici vecchi e nuovi, cui sia comune il bisogno di dimenticare per un momento il natio borgo selvaggio che non è sempre e soltanto la cittadina di provincia, ma può essere, per molti, il quartiere di città e persino l'ambiente intellettuale di una disciplina o di una professione specializzata". Il primo articolo presenta al lettore un focus sulle sculture di Henry Moore, esposto nel 1955 alla Kunsthalle di Basilea, in un progetto del British Council, dalle parole di Giulio Carlo Argan.
Quale tradizione ha preservato Moore dalla crisi della cultura figurativa moderna? Anche prima della guerra Moore era noto come uno dei più dotati scultori europei; ma troppo frettolosamente ci si era accontentati di constatare i suoi contatti con Laurens, Lipchitz, Brancusi, Picasso, e i suoi cauti commerci con un Surrealismo piuttosto vago, incline a dissolversi nel favoloso «metafisico». Ma non era questa la sua vera tradizione. Il fatto che Moore abbia sentito il richiamo della preistoria non basta a dimostrare che fosse anch'egli affetto da quella nausea della storia, da quel disgusto della civiltà che aveva spinto la cultura artistica europea a distruggere i suoi miti per creare dei feticci, a recuperare nell'inconscio un impulso religioso respinto dalla coscienza.
Studiando la scultura negra, sumeriana, azteca, i graffiti paleolitici di Altamira, Moore mirava in realtà a dilatare in quella preistoria una fase storica che sentiva ormai chiusa nelle sue contraddizioni, esaurita nella sua dialettica. La storia era per lui una corrente continua come quella che da noi si chiamava, con un'ombra di spregio, la tradizione: e nel corso di quella tradizione l'età della storia, la grande fase dell'intellettualismo figurativo, non era che una lunga parentesi. Moore cercava di rendere attuale la preistoria, nella quale gli artisti del continente cercavano di rendersi inattuali.
L'intellettualismo distingue oggetto e soggetto, natura e uomo. Cadendo la distinzione, la storia degli uomini torna a confondersi con il perenne divenire della realtà, uomini e cose trascorrono nello stesso tempo infinito. L'uomo è materia nella materia: alberi nuvole rocce, gli altri uomini, non sono più gli oggetti di una distaccata contemplazione, ma le condizioni o le circostanze inevitabili dell'esistenza. Allora un sasso intagliato può diventare, e proprio in quanto è sasso e non simulacro, espressivo di sentimenti umani; perchè anche i sentimenti umani rientrano nella circolazione continua della realtà e non tanto si colgono in una loro oggettivazione quanto nel loro confondersi alle circostanze, nel loro alienarsi a un complesso di cose e di fatti, nel loro rifrangersi in un environnement.
Nella formazione artistica di Moore hanno avuto valore determinante le idee di Roger Fry. che segnano il punto di confluenza del pensiero estetico di Ruskin e Morris e della cultura figurativa post-impressionista. Tutta la plastica di Moore si fonda infatti sulla distinzione di due grandi fasi nella storia della scultura: la scultura che si fa intagliando e la scultura che si fa plasmando. Non si tratta soltanto di due procedimenti tecnici. Plasmare o modellare significa servirsi della materia per rappresentare, o per fingere, qualcosa in una materia diversa dalla propria fingendo un uomo nella creta la materia si elimina totalmente nella forma ed il resultato è un'immagine ideale ugualmente distante dai suoi dati oggettivi, la creta e l'uomo. Per designare quell'immagine si ricorre infatti ad una concezione trascendente della natura: la bellezza. Intagliare, invece, significa condurre un certo lavoro dentro una certa materia: attraverso quel lavoro - ed è ancora l'idea ruskiniana dell'arte come lavoro, e, attraverso Ruskin, l'idea medievale dell'ars mechanica - un tempo o un processo della esistenza umana viene ad inserirsi nell'esistenza della materia, un período della storia umana scorre con la storia dell'infinita realtà. Il primo è un processo di oggettivazione, o costruttivo; il secondo è un processo subbiettivo, di partecipazione, organico. Non servirebbe all'artista riconoscere che la realtà è un continuo divenire o un crescere (infatti questo riconoscimento è implicito anche nel pensiero classico dell'arte come creazione) se egli stesso non si riconoscesse come cosa della realtà, inevitabilmente coinvolta nel suo divenire. Dunque quel divenire non e un astratto werden secondo leggi supreme e irrivelabili; ma è il coesistere, l'implicarsi, il condizionarsi reciproco delle cose. C'è un destino della materia che si attua nell'uomo e un destino dell'uomo che si attua nella materia, perchè ogni destino necessariamente si attua nella realtà.
Se la realtà, o la materia, si desse al senso sarebbe ancora natura; invece la realtà, questo ente che è al di là dell'esistente o della natura, non si dà al senso e non si pone nell'intelletto. Per trovarlo, per designarlo alla coscienza, bisogna oltrepassare gli schemi intellettualistici della nozione, risalire il percorso di quella visione storica, che chiamiamo natura.
Credo che nessun artista europeo si sia proposto questo problema del superamento della natura con tanta chiarezza e abbia compiuto questo processo di risalita storica (che sono poi il problema e il processo dell'arte moderna, dopo Cézanne) con tanta rigorosa coerenza quanta ne ha dimostrata Moore forse perchè gli artisti del continente, eredi della tradizione dell'Impressionismo, lasciavano ancora all'arte quel margine d'emozione che Moore, riconoscendo nella storia dell'arte la storia stessa della fenomenologia del reale, è obbligato a rifiutare.
Dal primo saggio, del 29, di quella figura giacente che diverrà uno dei temi favoriti della sua plastica e quasi il banco di prova di quella indissolubilità di forma e spazio, Moore procede nella sua ricerca di equivalenza o di continuità ritmica tra pieno e vuoto. Questi non sono più due valori costruttivamente contrapposti, come positivo e negativo o essere e non essere, ma i periodi alternati di una sinusoide: le fasi di una crescita della materia, ma di una crescita non più esemplata sugli schemi naturalistici dell'albero e della roccia (la mitologia naturalistica che indubbiamente compromette l'ideale organico dell'architettura di Wright), bensì intesa come espansione, prolungamento, conduzione illimitata della materia nello spazio: più precisamente, come lo sviluppo o il divenire della spazialità inerente della materia. Sono figure che si scompongono, non più secondo la regola costante della tridimensionalità cubista, ma secondo il ritmo interno dello spazio, secondo una quarta dimensione (lo spazio-tempo) che esclude e supera le tre dimensioni della nozione naturalistica. Se in Wright (insisto su questo nome perchè, nella cultura artistica contemporanea, è il più vicino a quello di Moore, soprattutto per quel principio dell' organico. come risoluzione finale dello spazio in pura plasticità) quella mitologia naturalistica tende costantemente a esprimersi in simboli geometrici e a risolversi ancora in disegno, in Moore il ritmo stabilisce una contin ità o una comunicabilità assoluta di materia e forma cioè l'astrazione non avviene per simboli, ma direttamente nella realtà. E' un momento necessario, il più autentico, dell'essere.
In una buona scultura scrive Moore non è la figura che prende vita, ma la pietra attraverso la figura. Sembra un assurdo. La scultura di Moore, questa scultura che trascende la natura e il suo inevitabile antropomorfismo, è invece una scultura profondamente antropomorfica, fissa al modulo umano. Infatti, il processo astrattivo di Moore, mentre ripudia la schematizzazione geometrica, ricalca volentieri i sentieri segreti del Surrealismo: sentieri che scendono dentro di noi fino a quegli strati profondi dell'inconscio, a quei sedimenti di memorie perdute, che sono gli strati di una più antica coscienza, la nostra preistoria, l'orizzonte ultimo della nostra storia. In certe immagini disarticolate e disperse in uno spazio fluido come il tempo c'è sicuramente un ricordo di Tanguy. coi suoi deserti seminati di vertebre; ma senza un'ombra di disperazione, con l'interna certezza che da quegli esseri diventati mere forme ricresceranno esseri, da quelle forme spente delle forme vive. Tutto è storia, passato: anche le pure forme dei suoi oggetti plastici, levigati come antichi utensili dal lavoro di generazioni, plasmati da una consuetudine immemorabile, sobrii e complicati insieme come ossa di animali scomparsi e nelle cui cavità le funicelle tese sembrano recare una vibrazione sonora, ripetere nella cassa armonica della forma il rumore segreto e profondo di una vita remota, come nel cavo delle conchiglie si ripete il rumore lontano del mare.
Ecco perchè, se gli squisiti oggetti surrealisti sono un equivoco invito al di là, una morbida suggestione di morte, gli oggetti plastici di Moore sono un invito, una suggestione, quasi una pedagogica rieducazione alla vita: riabituano una società disgregata e sbigottita, che ha smarrito la propria forma come l'uomo di Chamisso aveva smarrito la propria ombra, a credere nella forma, a dare un senso di fenomeno alla realtà: le restituiscono, infine, quel gusto del vedere, del toccare, del servirsi delle cose, ch'è la prima condizione della ripresa di un positivo contatto col mondo. Perciò chiamai questi oggetti utensili mentali, giocattoli frobeliani per la nuova infanzia dell'umanità. Perciò questa scultura spontaneamente ritrova con l'architettura una relazione profonda, d'origine e di struttura. Come l'architettura che oggi si chiama organica, questa scultura non vuole essere una rappresentazione o un'immagine, ma un atto necessario della vita sociale, del suo divenire.
Sul continente, invece, la drammaticità delle contraddizioni, l'urgenza delle questioni sociali ha pro-vocato le crisi che tutti conoscono e che hanno coinvolto anche l'arte nel dilemma di astratto utopismo sociale e di brutale pragmatismo politico, di pura razionalità e di basso realismo. Costretta a dibattersi tra quelle contraddizioni scottanti, l'arte non poteva che accettare una funzione astratta mente programmatica (Astrattismo-Surrealismo) o declinare la propria responsabilità nell'asservimento politico.
Forse la scultura di Moore, che rompe il cerchio di quel dilemma e riapre il varco a una realtà sempre nuova, è il primo documento di un positivo e concreto valore, di un essere del fatto artistico come fatto sociale.
La scultura di Moore è indubbiamente il primo segno di un concreto superamento dell'oggettivazione classica e della partecipazione romantica; il primo gesto dell'arte contemporanea che finalmente riconosca nella pienezza della vita, nell'impegno del lavoro umano la manifestazione più alta del reale, il suo supremo stato d'aggregazione o di organicità, la condizione stessa del suo necessario esprimersi nella chiarezza di una forma. Perció può dirsi che, nell'arte di questo dopo guerra cosi duramente impegnata a scontare le passate illusioni in una spietata critica di se stessa, la scultura di Moore sia la sola che riproponga un valore positivo della realtà, che apra alle coscienze turbate l'orizzonte di un nuovo umanesimo, che finalmente individui, non nella scoperta di nuove tipologie formali ma nel comune problema del valore o della responsabilità della coscienza di fronte alla realtà, il destino di un'arte che sia ancora europea.
Nato il 30 luglio 1898 a Castleford, nel distretto minerario del Yorkshire, da una famiglia di minatori come Lawrence, altro figlio di minatori Henry Moore, nonostante la precoce pas-sione per il disegno e per la scultura, è costretto dalle esi-genze economiche a dedicarsi all'insegnamento primario in una scuola di campagna.
Chiamato alle armi nel 1917, combatte in Francia ed è intossicato dai gas nella battaglia di Cambrai. Nel 1919, ottiene un sussidio come ferito di guerra che gli permette di frequen-tare il Royal College of Art di Londra. Nel '21, gli è accordata una borsa di studio per compiere un viaggio in Francia e in Italia; dove ritornerà nel '25, soffermandosi a Roma, Firenze, Ravenna e Venezia.
Nel 1926, insegna al Royal College; e dal '32 al '39 alla Scuola d'arte di Chelsea. E' di questi anni il viaggio di studio nelle grotte paleolitiche spagnole e francesi (1937) e la grande personale della Warren Gallery (1928), Seguono varie mostre alla Leicester Gallery (1931 e sgg.). Nel 1928 lavora al grande rilievo della stazione di St. James.
Mobilitato, durante la guerra, nei servizi civili, è incaricato di ritrarre le scene di folla nei rifugi della metropolitana; nasce così il celebre Shelter Book, cui verranno aggiunti i disegni delle miniere.
Fra le sue opere pubbliche più note del dopoguerra citiamo: un monumento a South Devon (1943/44), le tre figure in piedi del County Council (1947/48), il bronzo della Famiglia per le scuole di Stevenage (1948/49), il bronzo della « Grande figura distesa del Festival of Britain (1951), il rilievo in pietra e il bronzo della Figura distesa per la terrazza del Time/Life di Londra (1952/53), le Due figure sedute (re e regina) per la città di Anversa (1952/53).
Grandi mostre riassuntive della sua opera si aprono a New York (1946), Chicago (1947), San Francisco, Sidney, Venezia (1948) e Sao Paulo (1953/54). Nel 1948 è insignito del gran premio della Biennale; nel 1945 è laureato h. c. dell'Università di Leeds; nel 1953 gli viene conferita anche la laurea a. h. per la letteratura, dell'Università di Londra, cui segue il premio internazionale di Sao Paulo (1953/54). Henry Moore fa parte del direttorio della Tate Gallery, della Royal Fine Art Com-mission, dell'Académie Royale Flamande e della Reale Acca-demia Svedese.
Vive e lavora a Perry Green, nella campagna londinese.