Ser­pen­ti­ne e Dul­wich

Due padiglioni estivi a Londra

Publikationsdatum
04-08-2019

La tiepida estate londinese offre da visitare due padiglioni temporanei molto diversi tra loro ma che condividono alcuni temi interessanti, a cominciare dal dialogo con gli edifici permanenti da cui prendono il nome. Il primo è il Serpentine Pavilion, sito nei Kensington Gardens, ormai un appuntamento fisso da 19 anni: viene affidato ogni volta a un personaggio noto dell’architettura internazionale che non abbia mai costruito sul suolo britannico. Il padiglione va ad affiancare l’edificio delle omonime Galleries, che con le sue colonne, le facciate di mattoni e i tetti spioventi fa la parte della vecchia signora, accompagnata ogni anno da un giovane nipote più o meno scalmanato. (In realtà, l’edificio è meno vecchio di quanto non sembri: fu costruito nel 1933-34 su progetto di James Grey West come casa del tè).

Il secondo padiglione estivo sorge invece 7 miglia più a sud nel giardino della Dulwich Picture Gallery, museo inaugurato nel 1817 e progettato dal grande Sir John Soane. Per chi non lo conoscesse, è un capolavoro: oltre ad essere la più antica public art gallery d’Inghilterra, stupisce per l’originale reinterpretazione del linguaggio classico, per il disegno dei lucernari che illuminano in maniera magistrale le opere e per il piccolo Mausoleum che completa la composizione, con squisiti dettagli derivati dalla rilettura britannica del classicismo italiano e dall’erudizione di Sir Soane.

La prima differenza tra i due padiglioni è segnata dalle modalità di selezione del progettista. Se Hans Ulrich Obrist (direttore artistico delle Serpentine Galleries) ha trasformato quest’area dei Kensington Gardens in una passerella per le celebrità, il Dulwich Pavilion punta invece su figure emergenti, nella speranza di aiutarle a fiorire. Così, il Serpentine è stato affidato (con chiamata diretta) al giapponese Junya Ishigami, 45enne allievo di Kazuyo Sejima e già Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 2010 (diretta guarda caso dalla Sejima) nonché vincitore del BSI Swiss Architectural Award 2016. Autori del Dulwich Pavilion 2019, subito battezzato The Colour Palace, sono invece il poco conosciuto studio inglese Pricegore e l’artista anglo-nigeriana Yinka Ilori, scelti tramite concorso aperto.

Il padiglione di Ishigami nasce dalla sua ricerca di integrazione tra architettura e natura, che secondo il giapponese dovrebbe ampliarsi fino a sfumare le reciproche distinzioni, nell’ottica di una benefica «liberazione dell’architettura» (Freeing architecture), da tempo ormai suo motto ispiratore. L’idea di partenza è dunque quella di una collina artificiale: una superficie architettonica che da terra si solleva il tanto che basta per trasformarsi in un tetto e accogliere un piccolo spazio dove rilassarsi e ritrovare una prospettiva inedita sul parco circostante. Vagamente simile per la silhouette – e solo per quella – ad alcune “tende” in cemento di Heinz Isler, il padiglione di Ishigami è costituito da una copertura di spessore ridotto, sorretta da 106 pilastrini metallici bianchi – ormai marchio distintivo di una certa anoressia architettonica del Sol Levante – e ricoperta da sottili ma pesanti lastre d’ardesia. L’apparente fragilità dei pilastrini si oppone al peso della pietra, generando un contrasto emozionale su cui si basa l’invenzione di Ishigami. Al di là della metafora naturale e dell’approccio da land artist, il giapponese ha voluto ragionare sui principi costitutivi dell’architettura antica, cimentandosi con il tema archetipico del tetto e con l’arte del costruire in lastre d’ardesia: temi che si ritrovano nella tradizione orientale, certo, ma anche in molti altri luoghi. Oltre che con le foglie degli alberi limitrofi, le lastre d’ardesia – peraltro simili alle scaglie della corazza di un animale preistorico fermatosi nel parco per il letargo stagionale – entrano in risonanza con i tetti dell’edificio-madre, rivestiti dello stesso materiale.

Per apprezzare al meglio il padiglione bisogna però tenere un po' di distanza, in modo da cogliere i principi dello shakkei, ovvero l’arte giapponese di incorporare il paesaggio circostante, anche se molto lontano, nel disegno dei giardini. Da tale prospettiva risulta più apprezzabile anche il contrasto tra la compostezza della “vecchia” Serpentine Gallery e l’irregolare profilo di questo «rifugio per la contemplazione», la cui realizzazione è stata però funestata da vari fattori. La scorsa primavera Ishigami era stato accusato di sfruttare i suoi stagisti per 12 ore al giorno senza retribuzione, provocando uno scandalo su blog e social (vedi l’hashtag #archislavery) che ha investito anche Sou Fujimoto, Alejandro Aravena e altri. Poco dopo, la Serpentine Gallery è finita sotto accusa per i finanziamenti ottenuti dalla famiglia Sackler, protagonista dello scandalo per l’abuso di oppioidi negli USA; infine, proprio mentre il padiglione si inaugurava, la CEO Yana Peel è stata costretta alle dimissioni, perché sotto attacco in relazione al suo coinvolgimento in un’azienda israeliana di cybersecurity in affari (si dice) con regimi dittatoriali. Norme edilizie britanniche e tempi di realizzazione strettissimi hanno inoltre stemperato alcuni dettagli – ad esempio si sono dovuti aggiungere dei pannelli in policarbonato non previsti – limitando la “libertà” auspicata da Ishigami.

Anche il Colour Palace di Dulwich presenta tra i temi fondanti la rilettura della tradizione, ma in modo assai diverso. Lo studio Pricegore e l’artista Yinka Ilori hanno voluto rielaborare da un lato il lessico classico di John Soane, dall’altro le suggestioni dell’arte popolare nigeriana, approdando a un risultato apertamente ludico e allo stesso tempo raffinato. Sospeso su quattro tozzi cilindri in cemento dipinti di rosso che richiamano un’architettura elementare e auto-costruita, il padiglione è costituito da migliaia di piccole lamelle in legno, tutte della stessa dimensione, sfalsate e colorate a mano con tinte accese secondo un pattern di forme elementari, in dialogo con le geometrie essenziali della Dulwich Picture Gallery: con le sue arcate cieche o spalancate, con i cornicioni e con le lesene. Tale gioco di semplificazione iconografica, quasi infantile, potrebbe far venire in mente – tra l’altro – le stilizzazioni postmoderne di Robert Venturi e Denise Scott Brown; oppure certe architetture di Alessandro Mendini, specie per l’effetto caricaturale, per il colore e per quelle “punte” che tendono al cielo. A Dulwich però simili riferimenti – a cui possiamo aggiungere la rotazione di 45 gradi della pianta che fa eco alle stanze ottagonali della Gallery, oppure il dialogo tra la pianta centrale del Mausoleum e quella del padiglione – sono sovrastati dalla forza cromatica dell’arte di Yinka Ilori, ispirata al mercato dei tessuti di Lagos, producendo un incrocio stimolante di relazioni. La transizione dall’esterno all’interno svela anche qui una prospettiva diversa: non quella della caverna, come fa Ishigami sotto al suo tetto, ma di ciò che definiscono theatre-in-the-round: un palcoscenico centrale attorniato da percorsi e camminamenti che diventano balconate, incorniciate dalla continua reiterazione della struttura di sostegno.

Tra mondanità e scandali, giovani emergenti e giovani già emersi, cultura europea e internazionale, sole e pioggia, i due padiglioni meritano una visita: se non altro per apprezzare il cosmopolitismo londinese, che – alla faccia della Brexit – continua a irrorare anche l’architettura.