Co­sa ci ri­corda l’in­cen­dio di Not­re-Da­me

Una riflessione

Con un'impressionante ondata di trasporto, milioni di persone hanno seguito l'incendio di Notre-Dame. Cosa ci dice questa reazione? Una riflessione sul nostro rapporto con la memoria e la storia, tra echi dell'11 settembre, reminiscenze ataviche e proposte futuristiche – firmate Norman Foster.

Publikationsdatum
29-05-2019
Matteo Vegetti
Filosofo, docente all'Accademia di architettura di Mendrisio

Lunedì 15 aprile lo spaventoso incendio improvvisamente divampato dal tetto di Notre-Dame minacciava la distruzione dell’intera cattedrale. 

Una folla di parigini e di turisti si è radunata sulle rive della Senna per assistere col fiato sospeso al destino del simbolo stesso della città, ma anche, mi pare, per condividere con altri, noti e ignoti, un’emozione tanto forte. Si è formata così, nella condivisione, una comunità estemporanea unita dalla sola compassioneCum-patire significa infatti soffrire insieme, partecipare all’altrui patimento. Ma i testimoni oculari non erano i soli a formare questa comunità compassionevole e spaventata da ciò a cui stava assistendo. Il resto del mondo vi ha partecipato in maniera indiretta, attraverso le immagini televisive. 

Questo coinvolgimento emotivo così vasto e profondo, questo turbamento che per qualche ora ha reso la comunità europea qualcosa di meno astratto, è un fatto notevole e sorprendente. Persino di eccessivo, secondo taluni critici. Come spiegare infatti tanto trasporto per un monumento, per quanto straordinariamente importante e famoso, mentre altri eventi ben più drammatici sul piano umanitario non sembrano smuovere più di tanto le passioni collettive?

Se portata senza alcun intento moralistico, questa domanda appare del tutto ragionevole, ed anzi invita a una riflessione circa il nostro rapporto con la memoria e con la storia. Mi limiterò qui ad avanzare tre considerazioni sul tema, anche molto diverse tra loro.

La prima riguarda l’esperienza visiva e le sue conseguenze psicologiche. L’impatto emotivo dell’incendio può essere innanzitutto ricondotto all’atavico valore simbolico che il fuoco detiene di per sé, essendo l’elemento da sempre associato alla distruzione (di origine accidentale o intenzionale, come nel caso della guerra) e a ciò che minaccia più da vicino la città e i suoi abitanti. Ma al di là di questo, il rogo potrebbe aver ricordato ai suoi attoniti spettatori anche qualcosa di profondo, benché normalmente rimosso e negato, e cioè che l’ordine del mondo che diamo normalmente per scontato non solo non è tale, ma è una costruzione precaria, priva di solide fondamenta, intimamente vulnerabile.

La possibilità che l’ignoto, l’incomprensibile, l’assolutamente imprevisto irrompano nella quotidianità, sconvolgendo la nostra ingenua fiducia nel corso naturale delle cose, costituisce un’esperienza perturbante della verità. Anche solo per un tempo limitato, prima che l’elaborazione collettiva del trauma metta in moto le sue difese, appare infatti ciò che dovrebbe rimanere nascosto, lontano, invisibile: la nostra radicale impotenza di fronte al possibile, la cui essenza trascende di molto la realtà. L’arte, la letteratura, il cinema conoscono bene l’effetto che provoca sulla coscienza l’evocazione destabilizzante di questa esperienza. Basta pensare, tanto per restare in tema, all’infausta profezia di Victor Hugo, che nel suo romanzo Notre-Dame de Paris (1831) descrive con queste vivide parole l’incendio della cattedrale parigina:

«il clamore era straziante e tutti gli occhi si erano alzati verso il sommo della chiesa. In cima alla galleria più elevata, più in alto del rosone centrale, c’era una grande fiamma che montava tra i due campanili, con turbini di scintille, una grande fiamma disordinata e furiosa di cui il vento a tratti portava via un limbo nel fumo»

Finora ho fatto riferimento a un tipo di memoria che si manifesta in rari momenti storici, ma il cui significato è, per così dire, ultrastorico. Muovendo da qui, vorrei ora venire più vicino al mondo sociale al quale apparteniamo. La seconda considerazione ci porta infatti a collegare lo strato profondo, metafisico, dell’esperienza visiva dell’incendio a un altro evento, profondamente iscritto nell’immaginario collettivo.

Non sarà forse sfuggito che i maggiori canali europei e mondiali hanno dedicato al fuoco di Notre-Dame un’attenzione paragonabile a quella per l’11 settembre, seguendo in diretta il corso degli eventi in ogni notiziario e dedicandogli lo spazio e l’enfasi che normalmente i media riservano solo ai fatti di rilevanza globale. Questo rapporto non è però né casuale né estrinseco: l’incendio ha probabilmente istituito un’allarmante associazione visuale – più o meno inconsapevole – con l’immagine-icona delle fiamme che uscivano dalla cima delle Twin Towers (per notorietà e valenza simbolica l’equivalente newyorkese di Notre-Dame a Parigi). Quest’associazione visiva poteva poggiare su un legame oggettivo, vale a dire sul pesante sospetto che l’incendio fosse il frutto di un attentato terroristico portato dall’estremismo islamico contro uno dei più importanti monumenti della cristianità. Per quanto Notre-Dame e il World Trade Center non possano essere realtà più lontane, si sono così stranamente ritrovate congiunte in un ipotetico destino comune, retoricamente rafforzato dall’effetto scenografico del fuoco – una sorta di déjà-vu ottico – e dal comune rinvio a quello strato dell’esperienza a cui è riferibile il fattore traumatico più profondo di entrambi gli eventi.

Vi è poi ancora una terza possibile figura della memoria a cui riferirsi a proposito di quanto avvenuto sull’Île de la Cité. Rendere conto dell’attaccamento sentimentale ai monumenti è facile facendo un generico riferimento al legame identitario che ci unisce alla storia dei luoghi. I monumenti sono una narrazione pietrificata del mondo e dei valori di una data comunità storica. Se poi sono luoghi di culto, i significati religiosi si mischiano a quelli della tradizione, assumendo un alto valore simbolico per tutti, credenti e non credenti. Questo è indubbio, ma forse, nel nostro caso, non è sufficiente. Se è infatti vero che tutto il mondo ha sofferto per le sorti delle cattedrale, non lo ha fatto però allo stesso modo, ma in base a una propria maniera di intendere il passato e rapportarsi alla storia. L’antropologia ci insegna che la storia non è la stessa per tutte le culture della terra. Al contrario ogni cultura intrattiene uno specifico rapporto al passato e al patrimonio. Il nostro modo, quello tipicamente europeo, è riconducibile alla specifica coscienza storica nata in Europa tra Otto e Novecento (anche se per certi versi è obbligatorio risalire almeno all’epoca dei Lumi). Si tratta dunque di un rapporto alla storia che è esso stesso storico, e che non può per questo essere generalizzato. Tanto per fare un esempio sul tema, dopo che la cattedrale parigina venne gravemente danneggiata durante la Rivoluzione francese, Viollet-le-Duc la restaurò con grande intelligenza, certo, ma con un arbitrio che ai nostri giorni non sarebbe sicuramente tollerato. La cultura del passato allevata dallo storicismo tende a oggettivare il passato (a distanziarlo dal presente), a preservarlo con gli strumenti accurati della filologia e a onorare esclusivamente l’originale (poiché, per dirla con Hegel, solo quest’ultimo è davvero una manifestazione dello “spirito oggettivo” dell’epoca che ha creato l’opera, estrinsecandosi nella materia e nelle forme).

Con l’incendio della copertura lignea di Notre-Dame, la cultura architettonica si è allora inevitabilmente dovuta confrontare con una questione complessa e sottile come è quella che riguarda il giusto modo di considerare il passato, di preservarlo e di trasmetterlo. Sappiamo per esempio che la cattedrale è stata oggetto nei secoli di molti rifacimenti. Sono tutti egualmente importanti? Non è vero che la guglia neogotica di Viollet-le-Duc è ai nostri occhi “meno importante” dell’originale struttura della chiesa, visto che si tratta di un intervento terminato nel 1864, a distanza di più di 500 anni rispetto al completamento della struttura principale della cattedrale? Perché questo? Che cos’è l’originale e perché è tanto essenziale da risultare laicamente sacro? Nessuna di queste domande è stata ancora seriamente formulata, ma il grande dibattito, subito iniziato, sulle scelte e i principi che avrebbero dovuto guidare la ricostruzione le presuppone e le frequenta in modo implicito (spesso inconsapevole).

Un esempio istruttivo a riguardo è la proposta per la ricostruzione di Notre-Dame avanzata dall’architetto Norman Foster. Nell’intervista per «The Guardian» dal titolo Even more beautiful: should Notre-Dame get a modern spire?, Foster sostiene quanto segue:

«Notre-Dame Cathedral is the ultimate high technology monument of its day in terms of Gothic engineering. Like many cathedrals, its history is one of change and renewal. Over the centuries, the roofs of medieval cathedrals have been ravaged by fires and replaced: for example, Chartres in 1194 and 1836, Metz in 1877. In every case, the replacement used the most advanced building technology of the age. It never replicated the original. In Chartres, the 12th-century timbers were replaced in the 19th century by a new structure of cast iron and copper. The decision to hold a competition for the rebuilding of Notre-Dame is to be applauded because it is an acknowledgment of that tradition of new interventions»

Con queste parole Foster sembra esortarci ad abbandonare uno storicismo conservativo e quell’eccesso di cautela filologica che ci rende proni all’autorità del passato e al mito dell’originale. Sia pure continuando a evocare la storia come fonte di legittimazione (una cosa che dovrebbe far riflettere), l’architetto vorrebbe riconnettersi alla tradizione premoderna, che, priva di una coscienza storica in senso stretto, cioè metodologico e filologico, poteva godere di una grande libertà nel dialogare con le vestigia del passato. È una posizione certamente legittima, che mette in discussione la giusta postura “etica” da assumere nei confronti del cosiddetto “patrimonio” storico. Ma i rischi, passando alla dimensione del progetto, sono tanto evidenti quanto emblematici. In cosa consiste la proposta di Foster – stando sempre all’articolo citato – è presto detto: l’idea è di costruire una guglia in vetro e acciaio che richiami in modo stilizzato quella di Viollet-le-Duc, andata distrutta tra le fiamme, ma dotata alla sua base di una piattaforma da dove ammirare il panorama della città. Inoltre, si immagina che una copertura di vetro e d’acciaio rimpiazzi l’originale struttura in legno della cattedrale.

Vi sono in questa proposta due aspetti che tradiscono, a mio avviso, un forte nichilismo. Il primo è l’aver immaginato una postazione turistica in cima alla cattedrale: un sintomo di dove la pericolosa saldatura tra secolarizzazione e globalizzazione può condurre, e di quanto il progetto possa risultare succube, piuttosto che del passato, dei più corrosivi interessi del presente. Il secondo consiste nella copertura in vetro, non perché sia di vetro, ma perché il vetro – come si sa – è trasparente. La luce zenitale proveniente dalla copertura danneggerebbe la cattedrale in modo molto più grave di quanto non possa fare un incendio, poiché ne annichilirebbe per sempre l’atmosfera interna, ovvero l’elemento nel quale permane in modo più vivo lo spirito del gotico, la sua poetica, il suo complesso rapporto simbolico con lo spazio sacro. La luce proveniente dalle vetrate colorate e dai rosoni sarebbe spenta per sempre, e con essa anche la relazione misteriosa all’alto, al cielo, al trascendente. Alla memoria storica che per tante diverse ragioni ci ha fatto commuovere di fronte all’offesa arrecata dalle fiamme alla cattedrale parigina subentra così una sorta di oblio programmato che – idealmente – destina alla scomparsa la luce del passato.

Dove invece Foster ha ragione è nella conclusione del suo discorso. L’incendio di Notre-Dame potrebbe essere davvero una grande occasione, ma non tanto per raccogliere una serie di progetti realizzati da noti studi d’architettura internazionali, quanto per elaborare una riflessione collettiva, seria e profonda, sul giusto modo di relazionarsi alla storia e di interagire col “nostro” passato. Penso dunque, più che a progetti, a dei metaprogetti, la cui elaborazione dovrebbe necessariamente seguire un approccio interdisciplinare. Questo esercizio potrebbe certamente informare di sé i saperi più strettamente progettuali, ma, oltre a ciò, potrebbe coltivare una coscienza storica rinnovata e più consapevole di sé.

 

Crediti dell'immagine

GodefroyParisNotre-Dame en feu, 20h06CC BY-SA 4.0