1919-2019: cento anni di Bau­haus

​Correva l’anno 1919 quando, nella tranquilla cittadina di Weimar, il trentacinquenne Walter Gropius – insieme a un manipolo di giovani artisti – inaugurava il Bauhaus, una nuova scuola dedicata al mondo delle arti, dell’architettura e del nascente disegno industriale, il cui nome sarebbe presto diventato simbolo dell’epocale rivoluzione progettuale e metodologica allora in atto. Dunque, manca pochissimo al centenario, che in Germania è stato programmato con teutonica precisione offrendo una serie di iniziative che faranno il punto sull’eredità che il Bauhaus continua a offrire ancora oggi.

Date de publication
04-12-2018
Revision
04-12-2018

La storia di questa istituzione, una scuola vissuta appena 14 anni (1919-1933) e frequentata in tutto da poche centinaia di studenti, raggiunse ben presto il carattere del mito, ben coltivato e tramandato dai suoi protagonisti. La persistenza di quest’aura è comprovata oggi da un ambizioso programma museale: ben tre nuovi edifici dedicati al Bauhaus stanno infatti per sorgere nelle tre città che l’ospitarono.

A Weimar è in costruzione un museo da circa 23 milioni di euro, con 2.000 mq di spazi espositivi, progettato dall’architetto berlinese Heike Hanada con Benedict Thonon, che sostituirà quello esistente, da tempo insufficiente per ospitare la ricca collezione locale. Posato su una base di cemento, l’edificio è costituito da un parallelepipedo di vetro satinato opaco, con grandi finestre panoramiche affacciate sugli alberi del Weimarhallenpark, a poca distanza dal Gauforum – spazio urbano risalente all’epoca nazista – e quindi in un punto strategico della città. A Dessau, dove la scuola si trasferì nel 1925, alla fine del 2019 sarà completato il nuovo Bauhaus Museum Dessau, opera degli architetti catalani Addenda Architects (González Hinz Zabala), vincitori del concorso del 2015, in cui arrivarono primi a pari merito con lo studio newyorkese Young & Ayata.

Curioso il confronto tra i due progetti: se quello oggi in cantiere ha una chiara ispirazione miesiana, con la sua struttura regolare, sobria e bene in vista, l’altro utilizzava forme organiche e colorate, simili a enormi funghi, che alcuni commentatori paragonarono scherzosamente alle case dei Puffi (die Schlümpfe), a dimostrazione delle diverse interpretazioni – anche formali – che può suscitare la memoria del periodo.

A Berlino si lavora invece all’ampliamento del Bauhaus Archiv, archivio-museo disegnato da Walter Gropius nel 1963 e costruito nel decennio successivo. Il nuovo progetto, firmato dall’architetto Volker Staab, noto in Germania in questo settore per la ristrutturazione del Richard Wagner Museum di Bayreuth e per il Museo d’arte di Münster, prevede una profonda riorganizzazione degli spazi esistenti e l’aggiunta di alcuni corpi, tra cui una torre vetrata con funzione di centro educativo.

Oltre che per celebrare la scuola, il centenario è però visto dagli organizzatori come un’occasione per sviluppare la conoscenza dell’architettura e del design moderni in Germania, in senso più ampio, sfruttando le molte collezioni sparse per il paese. Altre città tedesche organizzeranno infatti eventi speciali: Stoccarda ricorderà Oskar Schlemmer; Brandenburg metterà in evidenza gli edifici lì realizzati da Gropius, Hannes Meyer, Erich Mendelsohn, Otto Haesler e altri architetti; nel Nordreno-Vestfalia ci sarà – tra l’altro – un approfondimento sull’opera di Mies a Krefeld, con un’installazione dell’artista Thomas Schütte ecc.

Com’è noto, con la chiusura dell’ultima sede berlinese nel 1933 la fama del Bauhaus seguì la diaspora dei suoi protagonisti, soprattutto negli Stati Uniti: Josef Albers, Anni Albers e Xanti Schawinsky trovarono spazio nel Black Mountain College; Moholy-Nagy e Hin Bredendieck avviarono l’esperienza del New Bauhaus di Chicago; Gropius e Breuer furono accolti a Harvard; Mies, Peterhans e Hilberseimer all’Illinois Institute of Technology di Chicago; e così via. Il verbo, insomma, non andò disperso, e non solo nel Nord America, come dimostra il progetto di ricerca internazionale chiamato Bauhaus Imaginista, che da marzo 2018 si è tradotto in una serie di esposizioni ed eventi in Giappone, Cina, Russia, Brasile, India, Stati Uniti, Marocco e Nigeria, alla scoperta dell’eco che si sviluppò nei paesi in cui le idee della scuola tedesca trovarono una cassa di risonanza. Da marzo a giugno 2019, i molteplici punti di vista saranno riassunti in una imperdibile mostra alla Haus der Kulturen der Welt (HKW) di Berlino, tentando di restituire per la prima volta il complesso mosaico della global history del Bauhaus.

Da questa carrellata di iniziative si deduce chiaramente come l’interesse per il Bauhaus non sia più – se mai lo è stato – esclusiva europea e statunitense. Prova lampante di ciò è stata anche l’inaugurazione nell’aprile 2018 del China Design Museum, nella città di Hangzhou (poco a sud di Shanghai), su progetto dell’architetto portoghese Alvaro Siza. Al suo interno (16.000 mq) è esposta una collezione di ben 7 mila pezzi legati al Bauhaus, acquistati dalla China Academy of Arts – la scuola d’arte locale – nel 2010, segnando un allargamento della geografia del collezionismo legato al design.

Una delle questioni più interessanti – e in continuo mutamento – su cui il centenario tenta di far luce riguarda poi l’interpretazione che, anno dopo anno, è stata data a questo esperimento pedagogico e progettuale. Perché molti artisti e architetti, ancora oggi, citano il Bauhaus come fonte d’ispirazione o modello di riferimento? Quali principi – ve n’erano molti, anche contrastanti – vengono chiamati in causa quando si parla del Bauhaus? Potremmo citare la forte carica sperimentale; l’idea dell’intreccio e della complementarietà delle pratiche artistiche; l’ambizione sociale del progetto; l’importanza delle tecniche e dei materiali nel processo progettuale; l’attento studio della funzionalità del prodotto; la ricerca dell’essenzialità; la spinta verso un rinnovamento continuo sulla base delle esigenze e delle condizioni attuali. Questo, sulla carta: le interpretazioni sono però molto soggettive e perciò oggetto di studio, mediante il diretto coinvolgimento di artisti e architetti chiamati a spiegare il loro personale feeling con la celebre scuola.

Qualunque sia la risposta, il Bauhaus sembra porsi oggi come un modello ancora stimolante, in un momento storico avaro di riferimenti stabili. Un modello, tra l’altro, di positivo scambio e comunicazione tra popoli e paesi, nel nome di un internazionalismo progettuale e culturale che, al tempo, spaventava molto chi invece si batteva per l’esaltazione del localismo, per la discriminazione del diverso, per la chiusura delle frontiere (da aprire semmai con i cannoni), per l’approvazione dell’arte di Stato e la denuncia di quella degenerata.

Ma, allo stesso tempo, il Bauhaus ha dovuto subire – specie negli ultimi settant’anni – anche la spiacevole «trivializzazione» del suo nome, attraverso l’accostamento o il diretto utilizzo del suo nome in funzione di iniziative commerciali non collegate alla scuola. Molti sono infatti i prodotti che hanno sfruttato il potere evocativo di questa parola, spesso usata anche per indicare superficialmente uno «stile moderno» in architettura e nel design. In uno scritto di qualche anno fa, Annemarie Jaeggi (direttrice del Bauhaus Archiv di Berlino) si chiedeva: «La crescente autonomia del nome Bauhaus ha forse reso la scuola vittima della sua stessa stilizzazione, un oggetto di riferimento immortale ma sempre più vuoto di contenuto? E si riuscirà a convertire anche questa forma di attenzione in una fonte di ricerca?» Ecco un’altra ottima domanda per il 2019.

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