«En­trez len­te­ment»

Dovrebbe raccogliere l’invito scritto sulla soglia della Maison en bord de mer di Eileen Gray a Roquebrune – Cap Martin sulla Costa Azzurra, il visitatore che si accinga a entrare nel recinto arboreo del’isola di San Giorgio a Venezia, dove la regia di Francesco Dal Co (con Micol Forti e monsignor Gianfranco Ravasi) ha disegnato la strategia espositiva di Vatican Chapels, che segna la prima volta della Santa Sede in una Biennale di Venezia: la 16. edizione della Mostra Internazionale di Architettura.

Date de publication
04-06-2018
Revision
04-06-2018
Fulvio Irace
Architetto e critico, professore di storia dell’architettura contemporanea dell’AAM e alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano

Se questa si svolge, come d’abitudine, nel mondano andirivieni dei Giardini di Castello, per Vatican Chapels, molto opportunamente, si è scelta una sede appartata: un’area non molto frequentata e conosciuta nell’Isola di San Giorgio Maggiore, dove la presenza di Palladio ha fatto passare in secondo piano la storia antichissima del sito, l’Insula Memmia romana e l’«isola dei cipressi» medievale.

Alle spalle della Fondazione Cini, l’isola ha accolto nel tempo numerose trasformazioni, restauri e persino nuove edificazioni, cementando la sua vocazione a polo internazionale delle arti e delle culture. Da questo costante lavorio di accumulazioni, demolizioni, stratificazioni, prese forma, negli anni Sessanta del secolo scorso, un vasto parco che oggi ospita anche il cosiddetto «teatro verde», accanto al quale si snoda la fitta sequenza di un bosco il cui carattere «romantico» ha ispirato la decisione di eleggerlo come sito per questa insolita esposizione.

Insolito il tema, in un’epoca storica in cui il divario tra religione e religiosità ha prodotto un drammatico solco interpretativo tra fondamentalisti e sostenitori di una proteiforme spiritualità: quasi l’epilogo di quel «lungo itinerario – come ha spiegato monsignor Ravasi nella presentazione ufficiale del progetto – avviato alla fine del XIX secolo con il divorzio tra arte e fede che per secoli avevano camminato assieme». Nonostante la storia del XX secolo non sia infatti priva di edifici di straordinaria qualità evocativa, la diffidenza di un laicismo diffuso per l’espressione della spiritualità religiosa ha spezzato di fatto la millenaria confidenza dell’architettura con lo spazio del sacro, producendo una quantità di edifici modesti o di maniera.

Il messaggio di Vatican Chapels è dunque un’esortazione e un manifesto dell’importanza di ascoltare le voci di dentro, individuando non nella chiesa, ma nella «cappella» il possibile capo di declinazione di una nuova sensibilità.

Una sensibilità alimentata nel dialogo tra religioni e genti, tra individui e comunità, tra spazio racchiuso e natura, esplorando una tipologia per alcuni aspetti ibrida perché, come scrive Francesco Dal Co, «per la nostra cultura è usuale identificare la cappella con un ambiente ricavato per ragioni e finalità diverse all’interno di spazi religiosi più ampi e per lo più preesistenti [….] La richiesta rivolta agli architetti invitati a costruire il Padiglione della Santa Sede ha implicato, quindi, una sfida inusuale, poiché ai progettisti è stato chiesto di confrontarsi con un tipo edilizio che non ha precedenti né modelli facilmente individuabili».

Invece di esporre disegni e modelli, infatti, i curatori del Padiglione hanno decisamente imboccata la strada del coinvolgimento emozionale dello spazio, l’unica maniera di evocare la retorica del bel disegno e di affrontare il tema del contatto tra il corpo e la natura. Invece di una mostra di modelli, insomma, una mostra di mini-architettura; dentro le quali si può (anzi si deve) entrare «lentamente» per sperimentare l’invito alla meditazione, al di là di ogni appartenenza confessionale.

Dieci cappelle, disegnate da altrettanti architetti cui è stata imposta la sola presenza di un pulpito e di un altare: uno spazio da interpretare e declinare in totale libertà, assecondando pensieri, riflessioni e associazioni sintomatici della personale cultura e provenienza di ciascun progettista. Non uno spazio confessionale, ma uno spazio introverso: una pausa di silenzio individuale, favorito dalla peculiarità di un ambiente sospeso tra il bosco e la laguna.

Le dieci cappelle – che verranno riutilizzate dopo l’esposizione – sono dislocate in maniera libera, secondo un’idea di piano che ha tenuto conto delle storie di ciascun progettista, in modo da creare le condizioni di un’empatia profonda tra i progetti e un ambiente che «è solo una metafora del peregrinare della vita».

C’è tuttavia una chiave nel costruirsi di questa metafora, che è poi in fondo il silente Leit–motiv del Padiglione: la Skogskappellet costruita da Gunnar Asplund nel 1920 all’ingresso del Cimitero di Stoccolma. Anche chi non ha avuto la fortuna di recarvisi di persona, il capolavoro in miniatura di Asplund sprigiona il suo carisma a partire dai disegni e dalle foto, che saranno infatti esposte in un padiglione introduttivo all’ingresso del recinto di San Giorgio. Sublimazione di un paradossale legame tra il Nord e il Sud del Mondo, la cappella nel bosco di Asplund è il punto fermo di una memoria che riconduce il sacro all’ancestrale: un tempio domestico abitato da dei benevoli e vicini all’uomo, suggeritori di quella tolleranza universale che dovrebbe essere il principio basilare di ogni religione.

Altre immagini dei progetti qui.

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