Al­fredo Hä­berli e il caffè da Cas­ti­glioni

Il designer svizzero-argentino racconta i suoi esordi e l’influenza dei Maestri italiani.

Date de publication
09-04-2018
Revision
09-04-2018

Alfredo Häberli ha cognome svizzero e nome argentino perché il suo bisnonno andò oltreoceano a cercare fortuna, aprendo una fabbrica di scarpe per la Bally e costruendo famiglia. In Argentina nacque così nel 1964 il futuro designer, che però all’età di 14 anni – a causa della crisi che colpì il paese – tornò in Svizzera per cominciare un lungo viaggio nei meandri della progettazione.

Dopo le scuole superiori, Häberli decide infatti di studiare design: il primo anno va male, per colpa della lingua; il secondo però ostinazione e talento danno i loro frutti. L’anno successivo si trasferisce a New York per diversi mesi, un’esperienza necessaria a sfamare il suo vorace appetito nei confronti dell’arte, dell’architettura e del design. Al ritorno vincerà il premio di miglior studente.

I primi lavori di Häberli sono piccoli allestimenti per il Museo für Gestaltung di Zurigo, attività che accresce il suo bagaglio culturale dal punto di vista teorico e pratico, con un’attenzione particolare per l’Italia che prelude a importanti incontri.

All’inizio degli anni Novanta, infatti, Häberli telefona ad Achille Castiglioni, già celebrato a Zurigo nel 1985 con la mostra «Ausdrucksformen». Il Maestro milanese non si rende conto che la telefonata giunge dalla Svizzera, a parecchi chilometri di distanza, e lo invita a prendere un caffè: «vieni domattina nel mio studio in piazza Castello». «Quello che doveva essere un incontro di dieci minuti, il tempo di un caffè – ricorda Häberli – diventò una conversazione di quattro ore». È Castiglioni che gli suggerisce di aprire uno studio indipendente: «prendendo coraggio, gli chiesi se potevo andare a lavorare nel suo studio, ma lui mi consigliò di aprirne uno tutto mio. Poi magari si sarebbe potuto collaborare. Lo ascoltai e aprii lo studio la mattina dopo». Decisivo fu anche l’incontro con Munari, su cui Häberli lavorò molto per mettere in piedi a Zurigo la mostra «Far vedere l’aria», nel 1995.

Tra anni Ottanta e Novanta il Salone del Mobile di Milano diviene un appuntamento fisso, durante il quale Häberli stringe rapporti di amicizia e collaborazione con progettisti e imprenditori: conosce Enzo Mari, Alberto Meda, la famiglia Zanotta, Enrico Astori e altri grandi della scena italiana. Preferisce guardare all’Italia piuttosto che affrontare il panorama svizzero, troppo piccolo e congestionato. Ricorda il designer: «sono andato a Milano perché mi mancava un po’ la parte latina: Italia e Argentina sono molto simili. A Zurigo il modello didattico ricalcava invece il filone della Scuola di Ulm, basato su un rapporto diretto tra forma e funzione. Non si usava molto il colore, ad esempio. Tutto era molto logico». E difatti i suoi professori zurighesi non vedevano di buon occhio questo sguardo verso sud. «Mi dicevano: Alfredo, stai attento, questa è moda, gli italiani fanno un design di moda».

In tale panorama, l’effervescenza italiana diventò un forte stimolo per ribaltare le prospettive. «Guardavo le collezioni di Cappellini, o anche quelle di Memphis, che non mi piacevano, ma mostravano la possibilità di lavorare in modo diverso». Un cambio di punto di vista Häberli lo aveva avuto già a New York, quando era entrato in contatto «con Donald Judd, con la libertà americana e il concetto di fun, di divertimento: tutte cose che davano un’energia straordinaria».

All’inizio era un sogno, una visione; dopo qualche anno divenne realtà, iniziando a lavorare per Alias, Driade, Zanotta, Luceplan, Moroso ecc. Sono del resto gli anni in cui le aziende italiane si aprono agli stranieri, tra cui Marc Newson, Jasper Morrison, Tom Dixon, Philippe Starck, Shiro Kuromata, lo svizzero Hannes Wettstein ecc.

Tra i primi progetti realizzati in Italia, Häberli ricorda SEC (Alias, 1995), acronimo di Sistema Elementare Componibile, ma anche di Sistema Emozionale Componibile. Nell’ambivalenza del nome emerge la sua capacità di sposare il concetto di sistema, derivato dalla precisione e dalla logica svizzere, con l’accento posto sulla creatività, che consente – utilizzando il colore, un po’ alla Eames – di «fare una struttura e riempirla con varie emozioni». Interessante è anche Pop-Up (Luceplan, 1996), struttura espositiva mobile che sfrutta la lezione di Munari e Castiglioni sul carattere ludico e anticonvenzionale degli oggetti al fine di ottenere la desiderata funzionalità. Con Malvinas (Danese, 1995-1997), Häberli cita invece Enzo Mari utilizzando un prodotto industriale semilavorato (due componenti per cisterne) per creare una coppia di ciotole multiuso. Emblematica è poi la lampada da terra Carrara (Luceplan, 2001), stampata in un unico corpo di poliuretano espanso, che rilegge la forma del celebre Luminator di Pietro Chiesa del 1933 ingrandendone il profilo per aumentare la luminosità.

Dopo anni di collaborazione quasi esclusiva con aziende italiane, Häberli ha allargato gli orizzonti, ad esempio andando a lavorare in Scandinavia per l’azienda Iittala, «dove il mio stile entrava in risonanza con quello nordico», e ottenendo un notevole successo commerciale. «All’inizio non sapevo cosa significassero le royalties. Poi l’ho capito!». Da allora ha ricevuto incarichi di ogni tipo: case prefabbricate in legno per Baufritz, tessuti e showroom per Kvadrat, scarpe, hotel, cucine e molto altro.

Tra i tanti progetti, Häberli va fiero dell’installazione fatta nel 2015 per BMW, nata da una meditazione sui concetti di Precision e Poetry, adottati dalla casa automobilistica come linee guida per il design. I riferimenti utilizzati per arrivare al progetto finale sono in buona parte italiani: Castiglioni, ovviamente, ma anche Giorgio Giugiaro; il Monumento Continuo di Superstudio (utopia critica in cui la strada diventa una superficie infinita); il Centro Tijibaou di Renzo Piano in Nuova Caledonia (per l’unione di tecnologia moderna e antica); gli studi di Munari sulla Ricerca di comodità in una poltrona scomoda (acuta e ironica riflessione sul rapporto forma/funzione) e sulla Femmina d’aeroplano (collage in cui la silhouette femminile diviene fusoliera); ecc. «Il risultato è stato un oggetto ibrido in alluminio fresato, che non è barca, non è auto e non è un aereo». Tale concept servirà per la progettazione di una nuova vettura, ancora top secret.

Come dimostra anche quest’ultima opera, uno dei punti chiave del lavoro di Häberli è l’ampiezza dei riferimenti culturali e visivi, coltivati fin dagli esordi come sostanza imprescindibile per stimolare la mente e la mano. Grazie a questo thesaurus, il designer svizzero-argentino è stato capace di coniugare approcci culturali, tecnologici e formali differenti: la poetica dell’objet trouvé e la Gute Form, la messa in discussione della tipologia e la chiara sintesi espressiva; la sperimentazione tecnologica e l’intuizione artistica; lo spessore teorico e il successo commerciale.

Come si giunge a tutto ciò? «Bisogna avere delle visioni, e bisogna saper aspettare il tempo giusto», dice Häberli ripensando all’epoca in cui il successo era lontano. E ci vogliono anche buoni Maestri, aggiungiamo noi.

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