Dia­rio dell'ar­chi­tetto, aprile 2016

Peppo Brivio e il modulo

Su altre pagine di questo numero di Archi Annalisa Viati scrive su Peppo Brivio e la sua architettura nel momento della sua scomparsa. Non voglio quindi a mia volta scrivere sull’opera di un architetto che, noi per primi colpevoli, è caduto da anni nell’oblio nonostante il ruolo di primo piano che ha avuto nell’architettura del Ticino nei primi decenni del Dopoguerra e nonostante abbia influenzato molti degli architetti suoi contemporanei, e quelli più giovani che allora iniziavano a lavorare. 

Date de publication
25-04-2016
Revision
25-04-2016

Mi preme però scrivere queste due righe su un tema particolare, che appare non solo negli edifici di Brivio, ma anche in molte architetture degli anni Cinquanta realizzate da un gruppo di architetti suoi contemporanei: la volontà di dare un senso al progetto, di poggiarlo non sulla casualità di un’improvvisa invenzione, ma su delle basi concettuali precise e logiche.
Certo, il voler trovare delle logiche coerenti su cui poggiare il progetto è anche la reazione contro l’incontrollata trasformazione che il territorio stava subendo in questi primi decenni del Dopoguerra, e alla soverchia banalità architettonica di una modernità che oramai si era conquistata lo spazio del costruito, sostituendosi definitivamente ai richiami storicistici o vernacolari dell’architettura precedente. 

Ma c’è di più: per questo gruppo di architetti – che in parte hanno operato a cavallo degli anni della guerra e in parte hanno iniziato subito dopo – la professione va svolta non solo con impegno etico e tecnico, ma anche con un dovere e una responsabilità intellettuale. Sia interna alla professione stessa, sia verso l’esterno, verso la società.
Questa comunanza di intenti e di impegno è poi declinata in modi diversi da architetto ad architetto – com’è logico che fosse – ma corrisponde comunque per tutti loro a delle esigenze che credo si possano ricondurre sostanzialmente a due temi. 

Il riferimento alle Avanguardie e ai maestri

Il primo tema è la continuità storica. Il progetto architettonico non nasce dal nulla, ma deve avere delle basi concettuali le cui radici affondano sia sul passato sia sulle ricerche in atto in altri luoghi e in altre culture. Sul passato, perché costituisce un bagaglio di ricerca, di invenzioni e di esperienze su cui è cresciuta l’architettura nei secoli, modernità compresa. E la cui origine è da ricercare sia nell’architettura antica con i suoi valori e i suoi principi compositivi, sia su quanto svolto e realizzato dalle Avanguardie nei decenni tra le due guerre. Che fu una vera rivoluzione, basata sulle ricerche teoriche della composizione architettonica, delle funzioni e delle tipologie, della tecnologia e dei nuovi materiali costruttivi e le loro implicazioni strutturali e statiche e progettuali.

Ma le radici, o meglio i riferimenti, non sono solo verso il passato, ma anche su quanto svolto dai contemporanei. E in un mondo che allora si stava dilatando – già allora – di continente in continente, per i nostrani architetti queste architetture erano non solo quelle realizzate in altri Cantoni o in Svizzera, ma anche in tutta Europa e negli Stati Uniti. Gli architetti del Ticino che operano nei primi decenni del dopoguerra hanno studiato sui libri scritti da Le Corbusier, hanno visitato le mostre di Wright (a Firenze nel 1951, a Zurigo nel 1952), conoscono quanto fatto nel Nordeuropa, in primis le opere di Alvar Aalto.

L’ordine, la regola

Il secondo tema è quello dell’ordine, della regola. Nel momento in cui il moderno si affranca definitivamente e diviene il linguaggio comune di tutta l’architettura e in tutto il mondo, sin da subito si comprende che questo moderno apriva a libertà compositive fin eccessive. Il ricorso a dalle regole è allora un imperativo per molti architetti. Certo, come detto in precedenza, quanto sedimentato nella storia dell’architettura del Novecento costituisce un bagaglio compositivo e concettuale importante. Certo, quanto i maestri hanno realizzato o stanno progettando hanno un valore di riferimento importante. Ma come guidare la matita nel momento del progetto è comunque un quesito individuale che appartiene al progettista. Non sono più disponibili, o attuali se si vuole, i principi del classicismo – come le colonne e i timpani e la simmetria – ma occorre comunque operare con delle regole, che pur individuali siano capaci di gestire il progetto per non cadere nell’anarchia formale.

Già Le Corbusier nel 1923 nel libro Vers une architecture scrisse che l’architettura si basa su delle regole, oggi come nel passato, e parole come ordonnance, ordre, géométrie si ripetono di pagina in pagina: «Un tracé régulateur est une assurance contre l’arbitraire ... apporte cette mathématique sensible donnant la perception bienfaisante de l’ordre ... le choix d’un tracé régulateur fixe la géometrie fondamentale de l’ouvrage ... est un des moments décisifs de l’inspiration, il est l’une des opérations capitales de l’architecture».

Il ruolo della struttura

È la necessità di valersi di un ordine compositivo che conduce architetti come Tami, Camenzind e Brocchi, Jäggli, Carloni e altri a ricorrere proprio al modulo quale elemento di logica compositiva. E questo modulo lo trovano spesso nella struttura dell’edificio. La struttura statica intesa come strumento ordinatore nel disegno del volume dell’edificio, delle suddivisioni spaziali interne e della composizione delle facciate. Ad esempio, si vada a visitare edifici come la casa Solatia a Lugano di Rino e Carlo Tami del 1951, le case d’appartamento Albairone del 1956 e Cate del 1957 entrambe a Massagno di Peppo Brivio, l’albergo Arizona a Lugano di Tita Carloni del 1959, la casa d’appartamenti in condominio (Partimco) a Lugano di Alberto Camenzind e Bruno Brocchi del 1959. 

Tutti questi edifici presentano già in facciata una partizione geometrica dettata dalle strutture orizzontali delle solette e verticali dei pilastri, che costituiscono non solo la regola compositiva, ma anche il motivo formale del disegno dei prospetti. Una scelta compositiva oltretutto insistita, quasi enfatizzata dai differenti materiali costruttivi e dal loro contrasto: mentre pilastri e solette sono in cemento armato lasciato a vista o dipinto di bianco, gli spazi da loro racchiusi o sono vetrati o sono chiusi da muri di tamponamento in mattoni mattoni faccia a vista o intonacati.

Ma di là dalle parentele compositive che è possibile individuare nel disegno delle facciate, diverso è però il modo e gli obiettivi che ogni architetto si è posto. Nella casa Solatia di Rino e Carlo Tami il motivo strutturale orizzontale/verticale è presente solo nel fronte esposto a sud nella composizione dei balconi, ma la cadenza dei pilastri osservata nel prospetto sud non ha continuità all’interno, dove la partizione degli spazi è determinata da altre regole. La stessa osservazione si può anche fare per l’edificio di Camenzind e Brocchi, anche se comunque la suddivisione spaziale interna è ordinata secondo logiche assiali. Nell’albergo Arizona di Carloni sono solo i moduli orizzontali delle solette a segnare le facciate, assieme alla cadenza dei balconi sporgenti, mentre un preciso modulo a 30 e 60 gradi determina la complessa suddivisione spaziale interna.

La geometria come linguaggio universale

Ma per Brivio la cadenza della struttura è ben altro, e ciò che appare in facciata è il manifestarsi dell’ordine compositivo che è alla radice dell’intero progetto. Siano essi pilastri o muri, questo ordine è dettato dalla geometria d’implacabili moduli geometrici capaci di governare le molteplici complessità che sono insite nel progetto architettonico, dai rapporti tridimensionali dei volumi alle scelte formali delle facciate e al rapporto tra i pieni e i vuoti, dalle strutture statiche di pilastri e architravi e muri portanti agli spazi e all’organizzazione interna degli appartamenti, fino all’arredamento. Nell’edificio Albairone, e più ancora nei progetti successivi, Brivio ha portato all’estremo il tema del modulo.

Ed è proprio la geometria che mi preme sottolineare in conclusione: perché Brivio la utilizza per una straordinaria riduzione ai minimi termini del vocabolario formale – agli elementi basilari dell’architettura – fino a rendere leggibile a chiunque in che modo l’edificio è stato ideato e di quali elementi è composto. Insomma, il riferirsi alla geometria elementare significa utilizzare un linguaggio universale, comprensibile a tutti. Già allora, in quegli anni Cinquanta, aveva compreso – e temuto, come poi è capitato – che l’architettura stesse inforcando mille strade differenti e spesso prive di controllo. E capito che il Dopoguerra avrebbe significato l’apertura verso l’esterno, verso il mondo, in quella che oggi chiamiamo globalizzazione. La lezione di Brivio agli architetti di oggi è proprio questa.

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