La ri­cetta di ate­lier oï

Intervista a Patrick Reymond, fondatore dello studio svizzero

Intervista a Patrick Reymond, fondatore dello studio svizzero di progettazione Atelier oï (La Neuveville).

Date de publication
15-03-2013
Revision
19-10-2015

Atelier oï è uno studio di progettazione con base a La Neuveville, sul lago di Bienne. Attivo da più di vent’anni, si è distinto per la capacità di muoversi tra diverse discipline – dall’architettura alla scenografia – mantenendo fissa l’attenzione per una dimensione artigianale del progetto. Una dimensione capace però di affrontare anche la produzione industriale e la costruzione di grandi edifici: sul loro curriculum si passa infatti dagli oggetti per ikea alle boutique per Swatch, dai tappeti per Ruckstuhl agli «Objets Nomades» per Louis Vuitton, dagli edifici – ad esempio il dyb Centre de compétences a Cormondrèche del 2007, per cui hanno disegnato tutto, dalla facciata agli arredi – fino alle barche. Abbiamo fatto qualche domanda a Patrick Reymond, uno dei tre soci fondatori, per capire meglio quali sono i principi alla base di questo «volare» da un progetto all’altro.

Gabriele Neri: Cosa avevate in mente quando avete aperto il vostro studio?
Patrick Reymond: Abbiamo fondato atelier oï nel 1991, dopo aver fatto alcuni concorsi insieme. Alla base ci sono sempre stati l’idea di lavorare in team – come eravamo abituati a fare all’École d’architecture Athenaeum di Losanna – e il modello del workshop, per mantenere saldo il legame concreto con i materiali e per puntare a sviluppare tutte le componenti costruttive che definiscono il progetto.

G.N: Molte delle vostre creazioni, dagli arredi alle facciate di grandi edifici, sembrano infatti essere generate dalla ripetizione di un singolo elemento costruttivo: un pezzo di corda, una bacchetta di legno, addirittura il mangime per gli uccelli…
P.R: Sì, infatti, è un po’ come quando cucini: prendi alcuni ingredienti e cominci ad aggiungerne altri… provi a usare il legno, poi il metallo, e continui a testare altre possibilità, sempre seguendo gli stessi principi alla base del progetto. Credo che la tutta la nostra ispirazione derivi da questa assidua sperimentazione con i materiali. Questa è anche la ragione per la quale il nostro ufficio è sempre rimasto a La Neuveville, dove fin dall’inizio abbiamo installato i nostri macchinari e i nostri materiali… non avrebbe avuto senso spostarsi altrove. Inoltre qui possiamo sfruttare la vicinanza con una serie di artigiani e laboratori, che ci aiutano a sviluppare piccoli prototipi delle nostre idee. Così abbiamo deciso di ristrutturare un vecchio motel degli anni Sessanta, il Moïtel, per farlo diventare il nostro quartier generale, e abbiamo continuato a sperimentare.

G.N: Dalle tue parole mi viene in mente l’attività di Jean Prouvé…
P.R: In effetti siamo un po’ vicini a quel modo di lavorare. L’opera di Prouvé è interessante perché il suo lavoro sta a cavallo tra quello di un ingegnere e quello di un architetto, tra la realizzazione artigianale e la produzione industriale. Nel nostro studio siamo sempre a contatto con le macchine, con i materiali, con i prototipi… una volta realizzato, ogni progetto viene archiviato ma rimane sottotraccia nelle nostre menti e accade che un pezzo venga ripreso, modificato, migliorato; possiamo cambiarne la scala e il materiale… È possibile che questa sperimentazione vada avanti anche per 5-6 anni e che infine conduca a qualcosa di nuovo. Questo spirito è anche alla base del libro che abbiamo pubblicato (cfr. la scheda di Enrico Sassi su questo numero di archi): i progetti non sono infatti presentati in ordine cronologico, ma rispecchiano il modo in cui utilizziamo il nostro archivio.

G.N: Insomma un archivio open source… nel quale vi muovete senza problemi da un tema all’altro.
P.R: Ci muoviamo tra scale diverse, contesti diversi, differenti tematiche; tra design, architettura e scenografia. Quest’ultima in particolare è molto importante nei nostri progetti. Abbiamo imparato molto dal progetto Arteplage Neuchâtel per l’Expo 2002…

G.N: I famosi padiglioni «a goccia»…
P.R: È stata un’ottima esperienza per sviluppare un progetto dalla piccola alla grande scala. La cosa più importante era creare un progetto intorno a una tematica: il tema era insomma la cosa fondamentale, ben più del programma funzionale, e questo ci ha permesso di sperimentare. Cerchiamo di sviluppare un linguaggio, e non una «firma»: infatti tra tutti i nostri progetti puoi trovare alcuni punti di contatto, ma questi non sono mai lineari o immediati. Non è come quando vedi il lavoro di molti designer famosi, nel quale la «firma» è ostentata e si vede chiaramente. Ovviamente ci sono delle costanti nel modo in cui affrontiamo temi come la struttura o la texture; siamo ispirati dal mondo naturale, da fotografie e dal lavoro di molti artisti, ma pensiamo che sia importante anche cambiare completamente il nostro linguaggio in ogni occasione.

G.N: Come rispondono i clienti a questo  approccio progettuale?
P.R:  All’inizio non era facile capire la filosofia del nostro atelier, che cambia linguaggio e scala a ogni progetto… non era facile né per le aziende né per noi stessi. C’è voluto tempo per capire e far capire il nostro modo di lavorare e per comunicarlo. Ma alla fine in molti hanno saputo apprezzare il nostro modo di affrontare il processo creativo, sul quale continuiamo ad investire.

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