Ro­bin Ro­bert­son: ri­cos­truire la città d'un tempo

Il 19 settembre il poeta Robin Robertson sarà ospite di Babel – Festival di letteratura e traduzione di Bellinzona per un incontro patrocinato da SIA Ticino, in cui racconterà come, nel suo poema The Long Take, ha ricostruito geografie e atmosfere delle città americane del dopoguerra. In questo testo, Sulla stesura di The Long Take, spiega la genesi dell'opera.

Date de publication
08-09-2020

Dopo nove libri, fra cui cinque raccolte e una selezione di poesie, mi sentivo a un bivio. Nella mia prima raccolta mi ero divertito a scrivere una lunga sequenza storica e di recente avevo provato la stessa sensazione lavorando a una serie di racconti folkloristici scozzesi d’invenzione. Così ho deciso di cimentarmi con una tela più grande, una in cui poter affrontare temi che sembravano superare il denso groviglio della poesia lirica.

Tutte le informazioni pratiche sulla presenza di Robertson a Babel sono pubblicate qui

Pur avendo vissuto a Londra per gran parte della mia vita, non avevo scritto quasi niente sulle città. Quando ho abbandonato per la prima volta il mio piccolo mondo in Scozia nordorientale per scendere nella metropoli e diventare uno dei suoi tanti outsider, mi interessava evocare la mia ambivalenza personale. D’altronde le contraddizioni erano apparse subito evidenti: la città come fuga, con il suo entusiasmo, l’anonimato, le possibilità infinite, e la città come trauma, con il sovraccarico sensoriale e le promesse vane, la povertà, lo squallore e la criminalità.

Ho passato molte ore, a volte giorni interi, negli allora numerosi ed eccellenti cinema d’essai, a guardare film che avevo amato ad Aberdeen senza sapere che appartenessero a un genere chiamato noir. Nella Londra di fine anni Settanta, l’atmosfera insolita di quei film all’improvviso aveva perfettamente senso: c’erano tutto il disorientamento, il desiderio e il terrore che provavo. Ero della stessa isola e parlavo la stessa lingua, ma ero comunque un outsider, un alieno. E quei film erano stati girati da cineasti che rappresentavano la quintessenza dell’outsider, rifugiati politici che fuggendo dalla Germania nazista e approdando a Hollywood avevano portato con sé sensibilità e paure personali. Il loro stile, il loro modo di vedere, aveva chiare origini sociopolitiche e poteva essere definito, per dirla con un personaggio del mio libro, come «l’incontro tra l’espressionismo tedesco e il sogno americano».

Sapevo che le città di cui avrei scritto sarebbero state americane, e che avrei ambientato il libro nel decennio successivo alla Seconda guerra mondiale, un periodo a mio parere cruciale per la storia di quel giovane Paese. Il Sogno si era indebolito durante la depressione e di nuovo dopo Pearl Harbor, con l’ingresso forzato nel conflitto e la conseguente perdita di sicurezza insulare. Gli Stati Uniti erano traumatizzati ed esposti, paranoici nei confronti del comunismo e della minaccia nucleare, soffocati dalla corruzione, dalla criminalità organizzata e dalle divisioni sociali e razziali. La sensibilità nei confronti delle “masse oppresse” che avevano costruito il Paese stava per essere sopraffatta dalla paura e dalla sfiducia nell’outsider, nell’estraneo. L’America, che alla fine del secondo conflitto mondiale aveva solo 170 anni di vita, era già in crisi. Ed è lì che a mio parere è iniziata una linea narrativa che dalla Commissione per le attività antiamericane (HUAC) e dalla caccia alle streghe di McCarthy prosegue nei 60 anni successivi attraverso la Guerra fredda, la Corea, il Vietnam, l’Iraq, l’Afghanistan, fino ad arrivare al regime attuale.

Ed è proprio in quella prima decade del dopoguerra, caratterizzata dal rapido sconvolgimento e dalla disintegrazione sociale, che ho deciso di inserire Walker, un ex militare canadese originario della Nuova Scozia, devastato dallo stress post-traumatico e segnato da ciò che ha visto e fatto in guerra. Walker cerca di recuperare tutto ciò che ha perso, come il decoro, l’amore, una comunità, ma trova soltanto fragili illusioni, fugacità e isolamento. È solo tra le strade di Los Angeles, una città in uno stato di flusso costante, dove tutto viene di continuo demolito e ricostruito («come una guerra accelerata»), che riesce a trovare una specie di casa, una via di ritorno a sé stesso.

La stesura di The Long Take ha richiesto quattro anni di ricerche e di lavoro durante i quali ho letto davvero tanto: libri di storia sull’America e sulle sue città, resoconti dello sbarco in Normandia (in particolare le esperienze dei soldati di fanteria del reggimento North Nova Scotia Highlanders), ma soprattutto ho guardato molti film, circa 500, girati tra la metà degli anni Quaranta e la fine degli anni Cinquanta, che mi sono serviti per lo stile, il tono, il linguaggio, e anche per i dettagli geografici. Dovevo in qualche modo vivere il paesaggio per poterlo scrivere, e certo, potevo esplorare la zona di Inverness County in Nuova Scozia e le vecchie strade di Manhattan e San Francisco, ma Bunker Hill, il quartiere di Los Angeles in cui ho ambientato gran parte del libro, non esiste più. Un tempo era un distretto elegante e residenziale che occupava una collina sovrastante il centro città, ma a un certo punto è finito nel mirino di impresari edili corrotti e, alla fine degli anni Cinquanta, i suoi 50 ettari di case popolari sono stati letteralmente ripuliti e la collina è stata abbassata di oltre 30 metri. A Bunker Hill vivevano più di 8'000 persone e sin dai tempi di Chaplin era stata usata come set cinematografico gratuito per girare gli esterni, perché i casermoni in stile regina Anna erano fatiscenti e interessanti, e l’altezza della collina, con le sue viste, le scalinate e i sottopassi, consentiva delle inquadrature sensazionali. Gli angoli sembravano persino migliori di notte, così il quartiere era diventato il set all’aperto preferito dai registi di film noir. Le mappe locali dell’epoca sono rare, quindi ho dovuto ricostruire la geografia di quel cuore perduto di Los Angeles attraverso vecchie fotografie e centinaia di film. Come il mio protagonista, Walker, ho cercato un modo per ricostruire un mondo, ho guardato i film e l’ho disegnato. Insomma, mi sono fatto una mappa da solo.
 

Traduzione di Daniela Marina Rossi
 

Ringraziamo Babel per aver concesso la pubblicazione di questo testo, apparso anche su Le parole e le cose.

Trovate maggiori informazioni sulla presenza di Robertson a Babel e sulla collaborazione con SIA Ticino qui.

Il programma completo di Babel è pubblicato sul sito del festival, dove si trovano anche la pagina dedicata all'incontro con Robertson di sabato 19 settembre e la serata al cinema presentata dal poeta, giovedì 17 settembre.

È possibile riservare dei posti scrivendo a prenotazioni [at] babelfestival.com (prenotazioni[at]babelfestival[dot]com).

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