Guar­da­re Ca­sa Al­bai­ro­ne, gir­ar­ci in­tor­no

«Il Periodo Eroico dell’Architettura Moderna è la roccia sulla quale avvertiamo la continuità della storia e la necessità di portare a termine la nostra idea di progetto.» Alison e Peter Smithson, 1965

Publikationsdatum
07-08-2013
Revision
12-10-2015

Nella prefazione de Il Periodo eroico dell’architettura moderna, un’agile antologia di immagini di architetture dei maestri del moderno, curata e commentata nel 1965 da Alison e Peter Smithson, gli autori scrivono... A lavoro terminato, abbiamo pensato che probabilmente questa è l’ultima raccolta di questo tipo. La prossima raccolta dell’architettura della nostra era, tra quarant’anni, sarà completamente differente, perché non riprodurrà singoli edifici, ma piuttosto luoghi edificati, e la documentazione sarà soprattutto formata da riprese aeree, fotografie in sequenza e spiegazione di sistemi. I nostri documenti sono ancora molto simili a quelli raccolti da Banister-Fletcher sul Rinascimento italiano...

Erano gli anni ’60 del secolo scorso, e gli Smithson coltivavano una laica fede positivista nel progredire della ragione, per cui quarant’anni dopo la impegnata antologia dei loro riferimenti, avremmo dovuto assistere ad un’ordinata trasformazione e ingrandimento delle città, costruito intorno a luoghi e per sistemi razionali, come quelli da loro pensati.

Avevano intuito la grande dimensione del futuro sviluppo, documentabile efficacemente solo dalle riprese aeree, ma non la sua forma frammentata e disordinata, asistemica, composta da mille individualità. Il progresso non è un percorso lineare e il territorio contemporaneo è percorso da un’attività edilizia che è diventata attività finanziaria, fonte di accumulazione di enormi rendite, che più spesso non hanno consentito trasformazioni territoriali ordinate. 

Nel n. 3/2013 di Archi abbiamo raccontato la politica residenziale ginevrina, illustrando episodi di luoghi collettivi edificati, che consideriamo ricerche esemplari per un territorio come quello ticinese, nel quale è invece egemone l’abitazione individuale e si sta perdendo il significato della parola trasformazione ordinata. Archi 4/2013, dedicato all’opera di Peppo Brivio, e in particolare a casa Albairone costruita a Massagno nel 1956, riprende quel ragionamento sull’abitazione collettiva, concentrando la riflessione su un edificio che, insieme ad altri di Brivio e di suoi contemporanei, ha segnato una fase positiva della trasformazione urbana di Lugano. 

Livio Vacchini, che era un grande estimatore di Brivio, diceva che è necessario vivere intensamente e interpretare il proprio tempo per capire la grande architettura del passato, ribaltando il concetto più banale insegnato nelle scuole, per cui la conoscenza della storia serve per capire l’oggi. Per questo pensiamo che sia necessario guardare e interpretare l’opera di Brivio con occhi lucidamente contemporanei, di chi è convinto di avere capito dove stiamo sbagliando, anche se non è ancora così chiaro in quale direzione muoversi per riprendere il filo rosso dell’evoluzione del modo di abitare il territorio. 

Casa Albairone è collocata in un sito discosto dai percorsi più frequentati, per guardarla bisogna recarvisi appositamente. Nell’occasione di questa pubblicazione, parlando con diversi colleghi abbiamo scoperto che più d’uno si reca saltuariamente a visitarla, confermando la riflessione degli Smithson sulla necessità di possedere, nel proprio bagaglio culturale, delle rocce, dei punti di riferimento forti, per portare a termine le proprie idee di progetto, avvertendo la continuità della storia. Il fatto che l’architettura ticinese ha scoperto la modernità nel secondo dopoguerra, consente di considerare l’opera di Brivio e di Tami, come anche di altri architetti di quegli anni, come prodotta in un periodo eroico, la cui conoscenza costituisce una risorsa necessaria per chi vuole vivere e costruire il proprio tempo. 

L’architettura di Casa Albairone, come è proprio delle opere importanti, sfugge alle facili classificazioni storiche. L’architettura razionalista e l’architettura organica, intese come mondi culturali separati e contrapposti, come ne parlava Bruno Zevi nei suoi autorevoli testi, sono categorie critiche inservibili ad interpretare l’opera di Brivio, la cui esperienza spaziale intensa e complessa è un coagulo culturale dotato di forte autonomia, le cui ragioni sono riconoscibili soltanto attraverso l’esame delle sue forme, come dimostrano gli autori dell’apparato critico che presentiamo. 

Con Casa Albairone l’architettura di Brivio diventa attività del pensiero, opera dell’intelletto che riflette sulle proprie ragioni e sulla lingua e sulle regole necessarie a rappresentarle. La semplicità delle forme, esercitata come esito finale di un percorso progettuale, si declina in complessità sintattica, paradigma della complessità urbana, a sua volta resa necessaria dalla complessità dei bisogni sociali, alla soddisfazione dei quali il mestiere deve tendere.

Guardare Casa Albairone, girarci intorno, è un piacere intellettuale, che obbliga a riflettere sulla propria cultura progettuale per capirne le ragioni. La sua fortuna critica, come quella dell’intera opera di Peppo Brivio, ha subìto un lungo periodo di silenzio, che pensiamo sia destinato ad interrompersi facendo riemergere come un torrente carsico le sue qualità, rappresentate con una magistrale economia di mezzi espressivi.

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