Au­to­fo­cus – Mar­co In­troini

Nel 1960 Fernand Pouillon scriveva: «L'illustrazione del libro d'architettura appartiene oggi ai fotografi. Le riviste contemporanee, che pure hanno a disposizione i disegni originali […], preferiscono la fotografia». Sessant'anni dopo è ancor più evidente come quest'arte abbia plasmato lo sguardo sull'architettura: se la realizzazione di un progetto è suggellata proprio dal momento in cui se ne scattano le fotografie, i rendering non sono altro che “previsioni” di fotografie, fotografie dal futuro. In un territorio ristretto come la Svizzera italiana è allora interessante capire chi sono i fotografi che guidano il nostro sguardo sul panorama costruito. Abbiamo posto loro cinque domande, sempre le stesse, per dare conto delle prospettive di ciascuno sul proprio mestiere.

Publikationsdatum
16-09-2020

Come ha iniziato a occuparsi di fotografia d'architettura?
Arrivo alla fotografia dal disegno di architettura; da sempre sono stato interessato alla rappresentazione dell’architettura sia dal punto di vista teorico che storico, durante il mio percorso universitario e dopo. Ho sempre coltivato questo interesse anche attraverso l’insegnamento in università.
Il passaggio alla fotografia è stato quindi un modo naturale di passare a un nuovo strumento di narrazione dell’architettura.
A tutt’oggi il disegno e la fotografia nella mia esperienza quotidiana si fondono: in molti lavori fotografici le inquadrature vengono prima studiate attraverso il disegno per poi passare alla macchina fotografica.
In questo mio percorso “storico” mi sono sempre più reso conto che il vero centro del mio interesse non era l’architettura ma lo spazio architettonico, e il mio non era un semplice spostamento linguistico ma un cambiamento di soggetto: non mi interessa descrivere l’architettura ma mi interessa descrivere la percezione dello spazio architettonico, urbano, naturale – descrivere come ci sentiamo noi nello spazio.
Caso vuole che dopo tanti anni di insegnamento di disegno e fotografia dell’architettura, da qualche anno al Politecnico di Milano insegni «tecniche di rappresentazione dello spazio».

Con quali architetti collabora più spesso? Ci racconterebbe un aneddoto legato a uno di loro?
Lavoro con diversi architetti anche se negli ultimi anni lavoro sempre più per campagne fotografiche sul paesaggio urbano, o con storici dell’architettura ed editori, forse perché nel primo caso riesco a sfruttare la mia passione per la descrizione dello spazio, e nel secondo la mia passione verso la storia dell’architettura.
Aneddoto. Forse il più interessante, che mi ha dato modo di riflettere molto, riguarda ´Alvaro Siza. Nel 2009 con Maddalena d’Alfonso, curatore di diversi progetti culturali e con la quale spesso lavoro, stavamo lavorando a un libro su due musei di Siza, Serralves a Porto e Ibere Camargo a Porto Alegre. Durante una lunga intervista durante la quale Siza ci parlava dei suoi musei la cosa che ci aveva colpito molto era il suo modo di descriverli, che poi abbiamo ritrovato anche nei suoi schizzi: dopo una brevissima descrizione del percorso di ingresso, iniziava un lungo racconto degli spazi interni, parlando di come il visitatore si sarebbe posto nello spazio in relazione alle opere – quindi soffermandosi molto sull’aspetto percettivo – per infine descrivere l’esterno, i volumi che componevano l’architettura come conseguenza dell’interno.
Questa descrizione ci ha fatto capire che la sequenza fotografica non doveva seguire il classico schema codificato dall’esperienza di Frederick H. Evans (esterno, interno, dettagli), ma seguire il suo racconto: veloce descrizione del percorso di ingresso, focus sull’interno ed infine l’esterno; e nello stesso tempo mi ha fatto riflettere sull'aspetto della percezione, razionalizzando il mio interesse verso lo spazio.

«Non mi interessa descrivere l’architettura ma mi interessa descrivere la percezione dello spazio architettonico, urbano, naturale – descrivere come ci sentiamo noi nello spazio»

Secondo lei la fotografia d'architettura ha un modo diverso di approcciarsi ai suoi soggetti rispetto alla fotografia tout court? Se sì, quali sono le differenze?
Arrivando non dal mondo della fotografia ma dal mondo della rappresentazione dell’architettura, posso rispondere che per me la fotografia è uno strumento di indagine soprattutto del paesaggio, per cui importante è il processo di conoscenza che si ingaggia prima di scattare, che nel mio caso deriva dal metodo analitico che ho acquisito nella mia esperienza sul progetto di architettura. Solo dopo arriva l’atto fotografico, che naturalmente come ogni linguaggio ha la sua grammatica, la sua storia, in continuità con la tradizione della rappresentazione, anche se sono indubbie e utili le contaminazioni di genere.

La chiamano per fotografare un edificio. In che modo si approccia al soggetto? Cosa cerca, cosa le interessa mostrare?
Quando mi chiamano mi piace sempre dialogare con l’architetto, chiedere che mi racconti dell’edificio, la sua genesi progettuale, vedere i disegni, gli schizzi, se c’è tempo fare un sopralluogo e poi fotografare; tra questi due atti, sopralluogo e fotografia, c’è un tempo di sedimentazione dove si fa sintesi di tutti gli stimoli ricevuti; purtroppo il tempo che intercorre da quando ti chiamano a quando farai le fotografie è sempre più breve e quindi salti alcune di queste fasi, ma l’esperienza sia di fotografo, sia di architetto mi aiuta nella continua ricerca di descrivere lo spazio architettonico, e mi forza all’attenzione verso il dettaglio – “mi forza” perché il dettaglio non è un mio registro visivo ma l’architetto se lo aspetta.

Tra le fotografie che ci propone, le chiederei di sceglierne una che le sembra particolarmente riuscita e commentarla. Cosa mostra e perché le sembra che questa fotografia funzioni?
Nella sequenza che presento le prime tre appartengono alla mia ricerca, che in questo momento sto portando avanti sia dal punto di vista linguistico che di soggetto.
Nell’ultimi anni sto lavorando molto sul centro storico di Milano, che come molti centri non solo italiani sta subendo una silenziosa e quasi inesorabile mutazione.
Da tempo fotografo le città alla mattina molto presto, quando il sole quasi non è ancora spuntato e la luce è diffusa, diafana. In questo preciso momento del giorno, quasi surrealista, la città che si prepara alla quotidiana recita si mostra con il piano stradale vuoto senza auto, persone, solo segni della loro presenza; ci mostra senza distrazioni il suo spazio. Per me è come stupirsi vedendo una scenografia teatrale, altra mia passione.

Marco Introini (1968), laureato in architettura, è fotografo documentarista e docente di Fotografia dell’Architettura e Tecniche di rappresentazione dello spazio al Politecnico di Milano. Ha al suo attivo diverse mostre e pubblicazioni sul paesaggio e l'architettura, e ha ottenuto vari riconoscimenti.
Nel 2019 è stato invitato alla residenza d’artista Bocs Art Cosenza a realizzare una campagna fotografica sulla città, e sempre nello stesso anno è stato invitato a realizzare un progetto fotografico sulle repubbliche marinare per la biennale di Pisa curata da Alfonso Femia.

 

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