Città noir

70° Festival del film di Locarno

C’è un elemento architettonico che viene chiamato in causa per teorizzare il cinema fin dalle sue origini: la finestra. Secondo una metafora ricorrente, i film sono per gli spettatori «finestre sul mondo»: incorniciando gli eventi, conferiscono loro un senso che non hanno nel fluire continuo del reale. Il cinema è quindi una sorta di «architettura della visione», ma è anche, quasi inevitabilmente, una «visione dell’architettura»

Date de publication
07-08-2017
Revision
07-08-2017

Scrivendo che «l’uomo nel cinema non è che “un dettaglio, una briciola della materia del mondo”», Roman Jakobson sottolinea una proprietà che distingue cinema e fotografia dalle altre arti: mentre scrittori e illustratori scelgono di evocare uno sfondo, i cineasti non possono avere inquadratura senza sfondo: stanze, strade, edifici, paesaggi si affacciano inevitabilmente nei film (salvo stratagemmi estremamente artificiosi); sta poi al regista mettere architettura e territorio in relazione con la narrazione, in modo che contribuiscano al senso complessivo dell’opera. Questo legame ha assunto forme particolari nel genere noir, fiorito in ambito cinematografico tra gli anni Quaranta e Cinquanta, parallelamente a importanti trasformazioni della vita urbana. Il noir va a indagarle, manifestando una particolare fascinazione per le metropoli, delle quali esplora i bassifondi, percorre le strade a più corsie, imita l’incessante movimento, facendone luoghi mitici dell’immaginario popolare. Tra i capolavori del genere vi è un’opera conturbante per la sua elusività: Le catene della colpa (Out of the past, 1947) di Jacques Tourneur, che sarà presentato quest’anno nell’ambito della retrospettiva dedicata al cineasta dal Festival di Locarno, in occasione della 70a edizione della manifestazione, che si terrà dal 2 al 12 agosto. Vediamo allora come in quest’opera architettura della visione e visione dell’architettura dialoghino.

La trama de Le catene della colpa non è propriamente complessa, ma è infittita dalla foschia di cui Tourneur ammanta gli intenti dei personaggi. S’apre con l’arrivo nella cittadina di Bridgeport di un uomo; sta cercando un certo Jeff Bailey (Robert Mitchum). In un flashback scopriamo che, anni prima, Jeff era stato assoldato dal potente Whit Sterling (Kirk Douglas) per ritrovare la sua amante, Kathie Moffat (Jane Greer), e i soldi con cui era sparita. Innamoratosi della donna, Jeff era fuggito con lei, ma se ne era separato dopo averla vista uccidere un uomo; solo, si era ritirato a Bridgeport. Lì, Whit l’ha rintracciato per affidargli un nuovo incarico a San Francisco. Jeff, pur sospettando un inganno, accetta, sperando di liberarsi definitivamente del passato.

Fin dai titoli d’apertura, Tourneur chiarisce che gli spazi ricalcheranno un ruolo significativo nel film. I titoli scorrono dapprima su immagini statiche di un paesaggio montano; quando appare un campo coltivato (prima traccia umana), ecco che la cinepresa ci sorprende: l’inquadratura da fissa prende a scorrere, rivelando dei cartelli stradali che indicano la via per Bridgeport; l’obiettivo si sposta poi su un’automobile in corsa, filmando la sua entrata in paese.

Il passaggio da spazi montani a cittadini preannuncia il movimento tra provincia, città e metropoli che attraversa tutto il film. Tourneur non è interessato a stabilire correlazioni semplicistiche che associno la campagna al Bene e la città al Male; spostamenti e ambientazioni gli permettono invece di addentrarsi nella psicologia del protagonista, di cui le battute laconiche rivelano ben poco. Gli scenari vengono allora trasfigurati a seconda del suo stato d’animo: ampiezza dell’inquadratura e uso della luce ci lasciano intendere se Jeff è padrone di sé o se la sua capacità di giudizio è offuscata dai sentimenti. Nella sequenza iniziale a Bridgeport, la serenità dell’uomo, ancora ignaro di essere stato rintracciato da Whit, è manifestata dalla luce generosa e dai campi lunghi, che trasmettono il senso di libertà con cui i personaggi si muovono nel paesaggio; anche le prime scene del flashback, in cui Jeff parte in cerca di Kathie, sono investite di luce e caratterizzate da vedute a volo d’uccello delle città attraversate.

Da quando il protagonista incontra la donna, gli spazi mutano: predominano ora le ambientazioni notturne e i campi medi, a sottolineare come l’uomo, preso dalla passione, stia perdendo la visione d’insieme. Quando poi Jeff torna a San Francisco per chiudere il conto con Sterling, la trasfigurazione dello spazio raggiunge il culmine: la città, calata nella notte, esplode in una miriade di frammenti: ingressi, tratti di strada, insegne ci parlano della realtà urbana, ma Tourneur evita accuratamente di allargare il campo; le poche vedute della città sono racchiuse in finestre e finestrini, a ribadire l’incapacità di Jeff di cogliere il disegno generale di cui è vittima. E se Jeff è disorientato dagli intrighi di Whit e Kathie, disorientato è anche lo spettatore che lo segue nel suo vagare urbano: la logica con cui il protagonista si muove è, a una prima visione del film, oscura. Oscuri sono anche i moventi degli altri personaggi, ancor più velati perché, sovrapponendosi, i loro piani si ostacolano a vicenda, così che nessuno riesce a ottenere esattamente ciò che vuole. Nemmeno Kathie, sebbene si presenti più volte a Jeff come una «brava guida» che può condurlo indenne tanto tra le vie di Acapulco quanto tra gli intrighi di Whit. A ribadire visivamente come i personaggi siano fatalmente invischiati in una trama di cui possono solo illudersi di tirare le fila, per tutto il film Tourneur ce li mostra ornati, incorniciati, sezionati dalle ombre proiettate da finestre, inferriate, rami, reti da pesca.

«Sono in a frame» afferma Jeff in una scena rivelatrice. «Tutto quel che vedo è the frame. Sto andando lì ora per vedere the picture». In inglese, frame indica sia la cornice, sia l’inquadratura, così come picture può riferirsi tanto a un’immagine quanto a un film. Jeff sembra allora dichiarare la frustrazione con cui vive il suo statuto di personaggio, rinchiuso dentro la finestra-cornice del cinema; confida però che, vedendo «il film» nel suo insieme, potrà cogliere il senso della propria vicenda. Ironia pungente: lo spettatore de Le catene della colpa è disorientato tanto quanto il suo protagonista. La finestra sul mondo aperta dal film si chiude sbattendo: come Jeff, anche noi non riusciremo a vedere «the picture».

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