Vogliamo di più
Una cultura della costruzione di qualità deve essere definita, argomentata, dibattuta, reclamata, pagata e curata. Ha bisogno di ambasciatori che la sostengano con validi ragionamenti. Qual è il contributo che questo libro fornisce al riguardo?
Improvvisamente, la cultura della costruzione è sotto gli occhi di tutti. A fine gennaio 2018, quando tutti gli sguardi erano rivolti al World Economic Forum di Davos, Alain Berset, capo del Dipartimento federale dell’interno, ha riunito proprio in quella località i suoi colleghi ministri europei, proclamando la Dichiarazione di Davos per una «cultura della costruzione di alta qualità». Berset e l’Ufficio federale della cultura hanno centrato il bersaglio: una buona parte degli esponenti del mondo della progettazione è stata colta totalmente di sorpresa e, devo ammetterlo, io ero tra loro. Il resto è storia. Nei quattro anni che sono ormai quasi trascorsi dalla Dichiarazione di Davos sono successe moltissime cose. Alcuni paesi hanno preso sul serio l’impegno e hanno introdotto una politica in materia di cultura della costruzione, o hanno modificato quella esistente. In Svizzera, nel 2019 ha visto la luce la Strategia sulla cultura della costruzione, nel 2020 è stata la volta del Sistema Davos per la qualità nella cultura della costruzione e nel 2021 si può osservare come il concetto di cultura della costruzione si stia lentamente insinuando nei testi legislativi.
Un attimo, però! Che cos’è effettivamente la «cultura della costruzione»? Cosa dovrebbe essere la «cultura della costruzione di qualità» di cui si parla in tutti i documenti ufficiali? E chi la stabilisce? Prima di perdermi in definizioni prolisse, farò riferimento agli esempi contenuti in questo libro: qui la cultura della costruzione di qualità si mostra in tutta la sua magnifica diversità e vitalità, selezionata e presentata da critici che, in quanto esperti, rispondono delle proprie argomentazioni. La selezione non comprende solo progetti architettonici, ma anche di ingegneria civile: una decisione coerente, ma anche un forte appello, tanto più che le opere infrastrutturali spesso non figurano nei dibattiti culturali sulle costruzioni, sebbene contribuiscano in misura determinante alla progettazione del nostro ambiente costruito. Sul tema della valutazione della qualità, il caporedattore della rivista TRACÉS Marc Frochaux ha scritto un importante contributo al dibattito sulla concretizzazione del Sistema Davos per la qualità nella cultura della costruzione. Vorrei invece osservare il nuovo campo d’intervento politico della cultura della costruzione da tre diversi punti di vista, poiché al momento si tratta principalmente di questo: un campo d’intervento politico. Per prima cosa, procederò a classificare l’espressione «cultura della costruzione di qualità» in quanto struttura giuridico-politica, poi valuterò il valore sociale della creazione culturale nella progettazione e nella costruzione e, infine, introdurrò la questione decisiva del denaro.
Il diritto a una buona qualità
Come è certamente accaduto alla maggior parte delle persone che si occupano di questo tema, in un primo momento mi è sorto il dubbio che il termine «cultura della costruzione di qualità» non fosse la scelta giusta. Ancora una volta, non è un’élite a decidere come debba apparire il mondo? L’obiezione è legittima, ma d’altra parte c’è una differenza tra la mera edilizia e un’opera di valore culturale. Se la cultura della costruzione, come nella Dichiarazione di Davos, viene effettivamente intesa in senso lato (e io sostengo totalmente questa posizione), c’è davvero bisogno di una differenziazione. La qualità, però, può essere reclamata solo se si è più o meno concordi sul concetto stesso di qualità. Per questo serve l’aiuto di uno strumento. In questo contesto, il fatto che lo strumento in questione sia il Sistema Davos per la qualità nella cultura della costruzione o un altro è un aspetto secondario. In questo libro, i critici hanno scelto come punto di partenza i criteri di qualità vitruviani, adattati al XXI secolo: un disegno sperimentale facilmente comprensibile che consente di focalizzarsi sulla questione chiave: come si può riconoscere, denominare e presentare la qualità culturale delle costruzioni?
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È importante che agli ambasciatori della cultura della costruzione vengano fornite argomentazioni comprensibili a tutti. A ricoprire questo ruolo, io ritengo che debbano essere in primo luogo i membri delle commissioni urbanistiche. Questi comitati sono uno strumento centrale della «cultura della costruzione di qualità», offrono consulenze alla politica e all’amministrazione (solitamente un Comune) e sono composti da vari esperti. I commissari combattono in prima linea per la qualità con un lavoro faticoso ed estenuante. Ho sentito vari membri di collegi di questo tipo lamentarsi del fatto che occorre un impegno enorme per portare i progetti a un livello «appena sufficiente». Ma noi vogliamo di più! Per questo, le commissioni urbanistiche necessitano di appoggio e supporto: per loro sarebbe di grande utilità se politici e legislatori esigessero una «cultura della costruzione di qualità». Inoltre, sarebbe utile anche per tutti coloro che nel loro lavoro quotidiano si impegnano per un’alta qualità nella cultura della costruzione.
A questo punto, segue un breve excursus nel mondo della pianificazione territoriale: essa produce modelli di riferimento e strategie in grande quantità, ma spesso le buone idee si infrangono contro lo scoglio delle carenze applicative. Chi vuole davvero che qualcosa si muova deve cambiare le leggi, o addirittura la Costituzione. Un esempio calzante è il cosiddetto «agglomerato»: non è un’entità riconosciuta a livello statale, ma il termine «agglomerato» si trova nell’articolo 50 della Costituzione federale, secondo cui la Confederazione deve «prendere in considerazione» le esigenze delle regioni di montagna, delle città e (udite, udite!) degli agglomerati. L’articolo 50 è alla base dei programmi d’agglomerato, che ormai non sono più strumenti di pianificazione particolarmente innovativi, con cui è stata reinventata la collaborazione orizzontale e verticale. Soprattutto, però, i programmi d’agglomerato attivano miliardi di investimenti – principalmente in infrastrutture, ma pur sempre investimenti. Una singola parola fa la differenza.
È interessante osservare come il concetto di «cultura della costruzione di qualità» si stia lentamente facendo strada nella legislazione: nella legge sulla protezione della natura e del paesaggio (LPN) e addirittura nella legge sulla pianificazione del territorio (LPT). Gli adeguamenti legislativi non sono ancora stati deliberati, ma le proposte ci sono e arrivano della Confederazione, o da stakeholder che partecipano alle procedure di consultazione. Se la «cultura della costruzione di qualità» diventa un mandato legislativo, gli organi esecutivi non possono più trovare scuse. Devono necessariamente fare qualcosa.
La cultura della costruzione come adempimento sociale
Non c’è dubbio: un’alta qualità si può ottenere solo con gli sforzi di tutti. Ogni progetto di costruzione è una ribellione contro lo status quo, anche il modesto ampliamento a una casa unifamiliare o la passerella sul torrente. Nel complesso, ci sono sempre motivi plausibili a sufficienza per non fare qualcosa. Anche solo le leggi fisiche della forza di gravità si oppongono agli sforzi correlati alla costruzione. Sulla lunga strada che porta alla realizzazione di un progetto, si devono superare talmente tanti ostacoli e «no» che questo testo non sarebbe sufficientemente lungo per elencarli. Una cosa, però, è chiara: serve un’intera comunità di persone che agiscano a favore del progetto. L’intento di creare una cultura della costruzione di qualità, come dimostrano efficacemente gli esempi contenuti in questo volume, costituisce un denominatore comune, un obiettivo e un’ambizione congiunti intorno ai quali può riunirsi una comunità.
La prospettiva di un forte guadagno economico non può mai produrre una forza di coesione di questo tipo, anche solo per il fatto che tale guadagno, di norma, è distribuito in modo molto iniquo. A prescindere da ciò, i valori culturali, proprio perché non sono monetizzati, chiamano in causa altri aspetti della nostra vita, del nostro essere persone. A ciò si aggiunge l’elemento narrativo che è insito in ogni attività culturale. C’è un aspetto che colpisce: tutte le costruzioni e gli impianti descritti in questo libro raccontano non una sola bensì tante storie diverse. Questo, però, può accadere solo se in precedenza le costruzioni sono state «riempite» di storie dalle persone. Può sembrare un po’ esoterico, ma io percepisco la particolare energia che emana un edificio, un parco o un ponte costruito con un’alta qualità culturale. In passato, quest’aura era riservata solo alle chiese e agli edifici rappresentativi, mentre oggi in teoria potrebbe estendersi ovunque. La cultura è un aspetto primitivo dell’uomo e, nel caso della cultura della costruzione, è addirittura un adempimento sociale: non solo di coloro che la creano, ma anche e soprattutto di tutti coloro che vivono con essa.
Dialogo e cooperazione
Dopo questo elogio, forse un po’ entusiastico, della comunità culturale dei costruttori, torno sul duro terreno dei fatti: costruire è un atto che da sempre ha a che fare anche con il denaro, precisamente con un’incredibile quantità di denaro; l’edilizia non è solo un ramo significativo dell’economia: il suo prodotto (la costruzione, piccola o grande che sia) rappresenta un valore patrimoniale. Ad avere un valore, naturalmente, non sono solo le costruzioni, ma anche il terreno su cui sono ubicate. La caratteristica di riunire investimenti considerevoli, insieme alla prospettiva di un incremento significativo del valore (il terreno non si può ancora moltiplicare...), fa sì che l’edilizia diventi progressivamente un’operazione finanziaria, una voce di bilancio e una transazione.
Le pensioni spettanti a centinaia di migliaia di lavoratori sono investite in immobili, che talvolta sono abitati da quelle stesse persone. Le quote di grandi pacchetti d’investimento vengono negoziate come altri beni, non c’è nulla di equivoco. La finanziarizzazione del mercato immobiliare, tuttavia, porta a un’astrazione della realtà: la casa, le persone che la progettano e la costruiscono e le persone che in seguito vi abitano scompaiono totalmente, non sono più visibili. Cosa c’è in un fondo immobiliare? Solitamente non lo sappiamo. La situazione diventa problematica se queste sparizioni, e l’anonimato che ne consegue, ricadono sulla costruzione stessa, e gli attori e gli ambasciatori della cultura della costruzione non trovano più interlocutori di riferimento. La grande questione per il futuro potrebbe essere come reperire capitale investibile nelle sue varie forme per temi inerenti alla cultura della costruzione. L’attività culturale richiede dialogo e cooperazione e, semplicemente, non possiamo più permetterci di costruire senza cultura.
Questo articolo è stato pubblicato nel numero speciale «Cultura della costruzione: qualità e critica». Ordina adesso!